Partiamo pure oggi alla ricerca di un poco di bellezza di mattina presto. Dopo Ieranto e il monte Epomeo, oggi andiamo a cercarla sui monti Lattari, quelli che percorrono tutto l’interno della penisola tra Sorrento e Amalfi.
Esattamente non sappiamo se è prestissimo della mattina di oggi o è tardi della scorsa notte. In autostrada traffico zero; sarebbe uno dei giorni di rientro dalle vacanze, da bollino nero, ma forse proprio con questa confusione temporale di date ci siamo smarcati. A Castellammare quasi saltiamo l’uscita tra sorpresa che già ci siamo ed eccezionale vista di notte.
Vico Equense dorme; e si inizia a salire. L’aria comincia a diventare fresca.
Siamo già un poco in montagna e… Ua’ che bella luna, è quasi piena e ha un colore caldo, sta per tramontare. ‘A facimme na fotografia? Appena finisco di dirlo compare una piazzola di sosta.
Se guardate la foto c’è una luna che lascia sul mare nero una striscia rossa. Siamo partiti per vedere bellezza all’alba del sole e per adesso fotografiamo un bellissimo tramonto del suo astro opposto.
Sul muro davanti ai fari dell’auto c’è un cuore grosso con scritto Per sempre, data 21/02; chi sa mo che scrivono, per chi e dove; speramme bbuone.
Continuiamo a salire lungo il fianco del monte, su un tappeto esattamente color asfalto tra due strisce bianche.
Sopra al Faito le macchine ci sono. Il villaggio è pieno. Forse questo posto si sta riprendendo. Saranno le ferie d’agosto, il caldo delle quote basse o la funivia dopo anni in funzione, si sta rianimando un luogo che raramente abbiamo visto abitato così fitto.
Poi si inizia a guidare in mezzo al bosco.
Arriviamo allo slargo sterrato dove si lascia l’auto per iniziare a camminare, ma è talmente presto che il buio è quasi perfetto adesso che la luna è bassa e non riesce a illuminare, e senza torcia non è il momento giusto. Allora saliamo altre due curve fino alla chiesa che sta proprio qui sopra; è San Michele Arcangelo, riaperta, dopo tre anni di restauri, a fine luglio scorso.
Il piazzale a fianco è ultra panoramico: appena uno scende dalla macchina viene preso dal freddo. Inimmaginabile da casa a Napoli ad agosto, meno male che la maglietta a maniche lunghe ce l’eravamo portata pur senza crederci del tutto; sta nello zaino e mo serve eccome.
Nella luce blu ci sono due sagome nere di monti: una somiglia ad un dente canino, triangolare, a punta, l’altra, squadrata, pare proprio un molare. Sono i nomi popolari di queste due montagne sopra al monte Faito: la seconda è la vetta più alta dei lattari ed il suo nome ufficiale è Monte Sant’Angelo (1444m slm), l’altra è il suo fratello appuntito, all’anagrafe montana è registrato come Monte di Mezzo.
Lo sfondo inizia ad andare nel rosso, il sole piano piano si fa notare.
Sul muro qui a sinistra, sotto la chiesa, c’è una parete di ricordi. Nomi di montanari e non, che amavano venire in questi posti in cerca di rifugio. Tra i nomi c’è quello di un signore che abbiamo conosciuto quando ancora andava per monti: era un uomo magro magro, silenzioso; lo avevamo incontrato dentro castel dell’Ovo, la sede bellissima del Club Alpino Italiano di Napoli, a mare. Be’ se stamattina sto qua lo debbo sicuramente anche a questo signore: è sua in gran parte la cartina che tengo nello zaino e anche l’ispirazione che animava chi per la prima volta, molti anni fa, mi ha portato qua sopra; allora lo citiamo, si chiamava Manlio Morrica.
Poi saliamo le scalette verso la porta della chiesa. E un altro Ua’ ci scappa quasi: ci avviciniamo in silenzio, si intravedono le sagome di un uomo col bastone e di uno con la mitra dei vescovi che parlano con un terzo addirittura con le ali; siamo capitati a disturbare un conciliabolo di santi. Questa chiesa è legata a San Michele Arcangelo, Sant’Antonino e San Catello: sono loro che si staranno consultando sugli ultimi lavori di restauro della chiesa nata qui sopra dalle loro mani.
C’è silenzio quassù. Lo sfondo è blu con strisce di rosso e rosa; in mezzo al nero in basso ci sono le luci gialle delle case. Da un lato si vede pure la nostra montagna di fuoco cardinale, e una statua della Madonna accerchiata da tralicci enormi. Ha le braccia aperte e pare provare a parlare a queste antenne che pensano di essere loro i veri emettitori moderni di segnale.
La luce adesso è sufficiente per iniziare a camminare. Allora scendiamo di nuovo le due curve, parcheggiamo e stavolta davvero si parte. Il numero del sentiero è 350 e coincide per un tratto col sentiero 300, cioè l’alta via dei Lattari: una strada solo per camminatori che va da Cava dei Tirreni fino a punta Campanella, 90 chilometri tra le montagne.
Noi stamattina ne percorriamo un piccolissimo pezzetto, vorremmo andare sul Canino, da tanto tempo non ci siamo andati.
Il percorso comincia benissimo, senza fatica, scendendo. Una vasca da bagno raccoglie l’acqua della Sorgente Scorchie per far bere le capre. Fresca, se vi siete scordati l’acqua, qui la potete prendere.
Dopo poco il sentiero diventa pianeggiante, poi in lievissima salita. Ci supera un gruppetto di persone: l’ultimo della fila ha sulle spalle un cestino agganciato ad un bastone. Per raccogliere i funghi ci vuole quello: così le spore riescono a passarci attraverso per tornare al terreno e far nascere altri funghi.
È una roccia a strati, calcarea, a tratti pare di camminare sopra una torta millefoglie. Se state attenti mentre camminate ricompare ogni tanto in alto la sagoma precisa dei due denti.
Terzo Ua’ della giornata: il sole sta sorgendo, sbuca da dietro montagne e nuvole in lontananza; una scintilla vivissima aguzza affilata rossa.
Ci fermiamo ad ascoltare finché non diventa un disco completo. Poi riprendiamo a camminare. L’aria fresca adesso è più rossa.
Sulla destra c’è un’altra sorgente. Questa è più bella perché esce da un pezzo vecchio corto di tubo metallico e gocciola sua una tavola di legno per poggiarci il secchio. Si chiama sorgente Acqua Santa. A fianco al tubo, se ci fate caso, sopra al muschio, crescono piccole piantine con le foglie aperte. Sulle foglie ci sono puntini neri: sono piante carnivore con sopra povere formiche appiccicate. È la Pinguicula crystallina, o erba unta amalfitana.
Poi se ci fate caso ogni tanto vedete una conca nel terreno, molto regolare, qualche volta magari al centro adesso c’è cresciuto un faggio, però una volta questi fossi li usavano per fare il ghiaccio. Ci ammassavano dentro la neve presa tutta intorno alternandola a strati di foglie. Poi la coprivano di terra per farla conservare fino ai mesi caldi, quando portavano a valle i blocchi per il beneficio di chi poteva comprarlo.
Dopo un po’ il sentiero fa una curva. Seguendola verso destra si andrebbe sul Molare, ma noi stamattina vorremmo vedere il panorama dalla punta del monte Canino, e allora andiamo dritto. Pochi metri e un cartello inchiodato ad un albero ci ricorda che quello che viene è un sentiero pericoloso. Lo sapevamo ma lo abbiamo fatto in passato, molto tempo fa, oggi siamo curiosi di andarlo di nuovo a trovare.
La prima parte è molto bella, non so esattamente la causa, forse perché è poco percorso, o sarà l’aria e la luce di questo momento: per qualche secondo non sembra di camminare davvero ma di stare dentro le immagini di un libro che parla di montagne. La traccia a terra a tratti è abbastanza battuta, allora il sentiero è ancora percorribile, ci viene da pensare. Poi dopo un po’ la stessa traccia diventa meno marcata, solo un lontano ricordo di passaggi.
Ecco il punto dove c’è una specie di scalinata naturale. Era uno dei punti dove stare attenti. Iniziamo a scendere, in mezzo alle piante sugli scalini, col frusciare delle lucertole nell’erba secca, disturbate mentre prendono il primo sole. Facciamo pochi metri però poi il mio compagno di viaggio, che oggi c’ha un ginocchio non in grande forma, pensa che per stamattina forse non è cosa. E gli diamo ragione. Il sentiero è impegnativo, se uno sta al meglio si può fare forse, ma con qualche dolore è meglio ritornare. Una delle cose belle che insegna la montagna è a capire che a volte ci si può pure arrendere, anzi che al momento giusto farlo è la migliore vittoria.
E sì, e allora cambiamo programma: ce ne andiamo a vedere il sole sulla cresta, andiamo alla croce della Conocchia, da dove si vede in un colpo solo tutta l’ultima dorsale di questa catena che con un piccolo salto arriva fino a Capri.
Torniamo all’ombra nel bosco di faggi che dà il nome al Faito intero. Si prende la curva che avevamo tralasciato e poi trovate scritto tre volte Conocchia in segnali vecchi e nuovi nello stesso posto.
Uau di nuovo quando compaiono li Galli tra le pietre del bosco. Si cammina un altro poco e ci sono altre antenne vicino a una casupola. Sembra tutto in disuso. Tenete presente quando l’antennista sopra il vostro terrazzo vi dice che da casa vostra si prende meglio il segnale del Faito e non quello dell’eremo dei Camaldoli? Ecco, ci piace vedere la televisione, però poi se andate su queste montagne trovate un sacco di ferro in tralicci e antenne senza più motivo. Forse una bella ripulita di questo ferro inutile sarebbe una bella missione.
Si cammina un altro poco ma non è faticoso perché è quasi in piano, e poi i polmoni, tutto il corpo, stamattina sembrano contenti: st’aria pulita e fredda dopo il caldo mette tutto in funzione.
Ecco la croce, è di ferro, tenuta da tiranti. Molti anni fa era piegata dal vento. In questo istante ha la stesso luccichio del sole. Questa è la fine della camminata di oggi.
Stamattina ci sono un poco di nuvole, lì in fondo Capri si immagina quasi soltanto ma non ce n’è davvero bisogno, perchè la bellezza oggi su questa montagna sta ad ogni centimetro di distanza, si sente lungo tutto il percorso. Ci fermiamo a sedere su un pezzo di roccia al sole, si sta meravigliosamente a respirare soltanto.
Poi si inizia il ritorno.
Un po’ più in basso sento un fruscio e intravedo un signore. Dopo un minuto lo incontriamo. Ha il gilet e i pantaloni lunghi, il bastone con la torcia nel manico per camminare di notte, i baffi e la barba che stamattina non s’è voluto fare, doveva svegliarsi troppo presto per andare a funghi. È la prima cosa che ci dice quando lo incontriamo: funghi oggi non ce ne stanno tanti, chi sa forse è il fatto che il bosco non è più molto pulito, a terra ci stanno un sacco di tronchi. Aggio truat sulamente questi due aglietielli, accussì e chiammammo. E tira fuori dalla tasca tre o quattro funghi gialli con le lamelle grandi. Gli chiediamo di vederli, dentro il loro odore ci sta tutto un bosco.
Poi ci viene un dubbio: mo chi sa se, in questa stagione di funghi che ci sembra davvero eccezionale per abbondanza, lui ci ha detto la verità o semplicemente difendeva il territorio di caccia dagli intrusi.
Ci chiede da dove siamo saliti: ah sì nuie a chiammammo a porta e Faito. Lui abita qui sotto e da come ce ne parla sembra che i sentieri siano come le autostrade, a lui andando a piedi qua sopra non servono, non servono tracciati per percorre un posto che è come le vostre tasche. Salutiamo e riprendiamo a camminare in questa mattinata che ci sembra calmissima.
Ancora fresco, profumi, idee buone, ci regala questa montagna stamattina. Camminare oggi non pesa, anzi solleva.
Poi in auto di nuovo verso valle. Solo prima una sosta al bar panoramico nel villaggio qui sopra. Ci piace scambiare due chiacchiere e dare un piccolissimo contributo all’economia di quelli che lavorano in alto, lontani dalle città, a quelli che si sforzano di stare un poco più vicini al cielo; il caffè e i dolci sono ottimi. Poi il ritorno a valle, nel tepore di agosto.
Se avete voglia di fresco di montagna non lontano da casa, il Molare, o la Conocchia sono un buon posto, si cammina meno di un’ora ad andare, altrettanto a ritorno. Se non andate all’alba potete arrivarci addirittura senz’auto: in circumvesuviana fino a Castellammare e poi da lì in funivia. Prima di andare guardate le previsioni del tempo e la cartina del percorso, attrezzatevi un minimo, ricordatevi di lasciare il posto come l’avete trovato o più pulito di prima, e poi buona escursione.
Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)