DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (1) – Dieci giorni in Cilento, a Felitto, fuori stagione, per vedere come si vive nei nostri paesi

Due anni fa, il 10 gennaio 2019, ero andato a stare dieci giorni in un piccolo paese del Cilento, circa milleduecento abitanti, all’interno. Ero curioso di vedere come ci si sta nei giorni normali, fuori stagione, nè d’estate nè a Natale quando arrivano i turisti e tornano quelli che vivono fuori.

Una volta tornato a casa avevo iniziato a scrivere il diario di quei giorni, poi, senza finirlo, avevo interrotto. Forse non era il momento giusto, forse le cose che avevo visto avevano bisogno di posarsi prima bene sul fondo per poi poter risalire con una specie di ordine, del tutto.

Adesso che dei paesi dell’Italia interna si riparla come di una possibilità nuova, ho pensato che quel racconto potrebbe esserre utile a qualcuno che sta tentennando, indeciso se spostarsi dalla città in un borgo simile a quello. Ho sentito che anche al paese, quella promessa che avevo fatto di raccontarlo, mantenerla era un dovere, bello.

Allora eccovi, se vi incuriosisce, quel diario.

Buon viaggio.

Giovedì 10 gennaio 2019, giorno uno

Quando venni a intervistare un mese fa Rosanna Di Stasi (qui trovate quell’articolo) rimasi colpito, non solo da lei, ma da tutto il paese.

Dopo i tanti visti dell’Italia interna, mi era parso che avesse in più qualcosa, non sapevo cosa. Ancora non lo so neppure stamattina. Forse esserci venuto e avere avuto una guida, esserci venuto non per guardare i muri ma per parlare con una persona precisa.

E a Rosanna l’avevo detto: ‘Sto paese vostro ha qualcosa che non ho incontrato prima, se riesco a gennaio vorrei tornare.

Eccomi in macchina.

Stavolta parto presto, evito la fila di auto dei lavoratori degli uffici, quelli che ancora vengono fatti spostare con tutto il corpo, e la mente magari si riservano di lasciarla a casa o di tenerla altrove. Ormai si potrebbe, nella maggioranza dei casi, lavorare semplicemente collegati tramite la rete. Spostare solo le informazioni, molte meno masse, e bruciare pochissimo petrolio. Io l’ho fatto per quasi due anni, dal 2010, da Napoli con l’ufficio in Olanda, anche discutendo via internet con gli operai che dovevano costruire davvero quello che avevo disegnato su un foglio di carta elettronico. Funzionava. (Questa parte iniziale del diario l’avevo scritta due anni fa, poco dopo essere tornato, l’ho lasciata identica perché mi sembra mostri come la pandemia serva anche a spingere il mondo a provare nuove strade, utili, senza perdere tempo).

Nelle foto del viaggio il colore dominante passa piano piano dal nero asfalto cittadino, attraverso il verde delle campagne, a qualcosa di misto tra l’azzurro cielo, il bianco della neve, il colore della pietra e l’incarnato delle persone.

Arrivo alle dieci in punto. Telefono a Rosi ma mi risponde Donato, il suo compagno, e mi spiega: Ciao Francè, si arrivato? Rosi s’è scordata il telefono a casa, ma la trovi nel Palazzo delle cento stanze.

La vado a cercare al palazzo fastoso in decadenza che lei ha voluto comprare con i risparmi di una vita in Germania per rimetterlo a posto e farne qualcosa di utile per i giovani felittesi, ma lo trovo chiuso. Vabbè, il viaggio è fatto di passaggi a vuoto che poi all’improvviso si riempiono di nuovo.

Appena Rosanna recupera il telefono si scusa cento volte e mi dà appuntamento in uno dei bar del paese. Anzi specifica proprio: Andiamo in un altro bar questa volta. Credo sia l’equilibrio, sottile, da tenere nei posti dove si vive a stretto contatto.

Eccola, arriva, come sempre, con un grande sorriso negli occhi e nella voce. Andiamo andiamo, ti offro un bel caffè.

Si sta caldi in questo bar grande. Stanotte da queste parti ha nevicato molto: in paese no, ma tutte le creste delle montagne intorno sono bianche.

Una montagna in fondo ha lo stesso profilo di un massiccio tirolese stampato nella mia memoria da molti anni.

Spiego a Rosanna la mia idea di fondo: vorrei vedere come si vive in un paese piccolo; provando in prima persona e ascoltando le storie della gente. Bene, allora cercherò di metterti in contatto con un po’ tutti. Ognuno avrà qualcosa che ti vuole dire.

State attenti a quando Rosi dice una cosa perché poi la fa sul serio: da quell’istante non m’è rimasto quasi più un attimo libero per capire cosa mi stava passando per la mente davvero.

Al Municipio

Usciamo dal bar e mi porta subito alla Pro loco a prendere un po’ di informazioni, compro anche una cartina dei sentieri della zona, sarebbe bello… non si può mai sapere.

Poi al Municipio; sta qui, affaccia sulla stessa piazza a pochi metri.

Ci entra non come faremmo noi a Napoli o in qualunque città grande, ma come se entrasse in una casa sua e di tanta altra gente.

Nell’androne e lungo tutte le scale non ci sono carte geografiche od onorificenze, ma molte foto di persone. Antiche, in bianco e nero, di famiglie intere.

Dentro il Municipio

L’appuntato dei Carabinieri sta nella prima sala al piano superiore, poi incontriamo Emilia.

Siamo venuti a cercare lei, perché col marito ha scritto diversi libri su questo paese. Ha molto da fare in questo momento, ma poi si ferma e inizia a raccontare degli archivi e degli studi sulla storia del luogo.

Nella stanza successiva c’è un armadio di ferro, di un colore blu, oppure verde, assomiglia a una vecchia automobile, ad un treno. In alto c’è scritto Anagrafe, in lettere saldate: ha fissato dalla nascita il suo scopo.

Un impiegato ci mostra i libri del 1800.

Sono di tre tipi, ci dice: Nascita, Matrimonio e Morte. Poi c’è un quarto tipo, sono gli Altri eventi.

Quasi non si ricorda più a che servono gli ultimi, li apriamo insieme. Ci sono registrate storie più complicate di quelle tre basilari. In alcune pagine raccontano di cose accadute sulle navi, in mezzo al mare; in altre di bambini portati ad altri perché gli facciano da padri e madri.

Scendiamo di nuovo e incontriamo subito, fuori, altre persone: la signora Franca, il professor Donato, poi scende Emilia. Iniziamo a discutere di Felitto e davanti al portone del Municipio nasce in pochi minuti un misto tra un’allegra brigata, un comizio e un gruppo di opinione.

Ogni volta che incontriamo qualcuno di nuovo Rosanna mi presenta: scrive per un giornale ed è venuto qui per vedere la vita nel paese, avrebbe interesse a parlare con ciascuno di voi.

E piano piano, ogni mano che stringo, mi sento un po’ più a casa, di fare un poco parte anch’io di questo posto.

Quando sono arrivato, ogni volta che ho incontrato qualcuno, gli si leggeva sulla faccia, o era solo una mia impressione: Chi sa chi è questo: è inverno, non è del paese, non è manco uno che era di qua e adesso vive fuori, si sarà perso. Poi camminando con Rosanna a fianco la loro espressione cambia molto.

S’è fatta ora di pranzo nel frattempo e Donato a casa ha cucinato la sua specialità: pasta e fagioli. Ci mette l’aglio schiacciato, il sedano, un pomodorino, ‘nu sacco re cose, chello ca trov… nu poco pure invento, poi ci cuoce la pasta dentro tutto insieme col coperchio. Si pranza in una tavola lunga anche con Anna, la sorella minore di Rosi, e Michele suo marito.

La casa di pietra nel centro storico

Nel pomeriggio poi abbiamo fatto altre mille piccole cose. La più importante è stata procurarci la legna e accendere il camino per riscaldare questa casa vuota in cui starò per dieci giorni. Lo ha acceso Rosanna che qui ha abitato, prima di sposarsi, a diciannove anni, ed emigrare in Germania.

Avevo chiesto di poter stare un po’ di tempo a Felitto, ma se possibile in una casa semplice, antica, dentro il centro storico. L’idea è vedere davvero, per quanto ci riesco, come si vive dentro i nostri paesi, senza lasciarsi troppo portare dalle parole che raccontano in giro.

A sinistra la porta di casa nel centro storico

Anzi adesso quell’idea ve la dico tutta.

Gli orientali sostengono che siamo costituiti di tre cose: corpo, mente ed energia oppure, loro dicono, voce. Ecco io direi, per semplificare: corpo, mente e passione. L’idea che ho da qualche tempo è che, come noi, pure i posti in cui abitiamo, che creiamo, le città e i nostri paesi, hanno gli stessi tre elementi di base. E allora, se i paesi dell’Italia interna, come ormai li chiamano, hanno problemi di spopolamento, forse uno o più di quei tre elementi sta soffrendo.

Se uno chiede in giro perché i paesi stanno scomparendo, la prima risposta, ci scommetto, è: Ccà nun ce sta lavoro, cioè di quei tre elementi sarebbe, secondo loro, il corpo quello che ha problemi.

Ma a me ‘st’idea non mi convince proprio, ho il sospetto che siano gli altri due i punti più deboli del gioco adesso. Che siano la mente cioè il progetto, e l’energia, la passione di stare nel paese, i punti deboli di questi posti in questo momento della nostra storia.

La mente perché non sviluppa abbastanza idee nuove, e questo soprattutto perché la passione, il cuore, dice, in fondo: quelli “buoni” stanno tutti fuori, nelle città grandi, chi rimane qui, nei paesi, è soltanto chi è rimasto sul fondo. In sostanza: il piccolo paese è (ma forse con questa pandemia le cose stanno rapidamente cambiando) fuori moda.

Ecco, mo che ve l’ho detto, continuiamo con la storia; poi vedremo, alla fine, se di questa domanda avremo trovato almeno un poco conto.

Dicevamo di questa piccola casa.

Quando ci sono entrato per la prima volta ho capito che era esattamente quello che intendevo. Rosanna a volte pare che fa un sacco di chiasso, dice mille parole, ma non le sfugge mai il senso di quelle che le dite voi. La casa è disabitata da tempo, e siamo a metà gennaio, per renderla accogliente bisogna farci, per ore, il fuoco.

Il camino con la bocca piccola

Abbiamo preso la legna da casa sua nuova dove vive adesso, vicino alle Gole del Calore. Però quella che abbiamo preso dopo, nella Casa delle cento stanze, è molto migliore: prende subito fuoco. Lei lo prevedeva, perché sta lì in cantina, al coperto, abbandonata insieme a quella enorme casa, da circa il 1970.

Rosi mette un po’ di legna grossa, poi in mezzo, sotto, ci mette quella fina, loro la chiamano scantamanu, perché se uno non sta attento si taglia un po’ le dita con questi sottili rami, eleganti, di filigrana di erica secchi. Per dare la prima scintilla usa l’accendino e un po’ di carta di giornale.

Il camino è talmente freddo che pure lei che questa operazione l’avrà fatta in vita sua già un milione di volte, il fuoco si è spento, deve ripeterla di nuovo.

Poi quando il fuoco ha preso aggiunge altra legna e, piano piano, tira un po’ fuori quella che si è già accesa bene.

È un curioso modo di fare il camino, almeno io non l’ho mai visto.

Però a pensarci ha ragione. La legna accesa, se rimane dentro, porta la maggior parte del calore, attraverso il comignolo, all’esterno. Se invece la mettete sulla bocca riscalda molto di più la stanza, mentre solo il fumo viene aspirato con forza dal tiraggio fuori. Credo sia un modo escogitato soprattutto quando da queste parti di soldi ce n’erano davvero pochi e ogni minimo spreco aveva molto valore; e torna utilissimo anche oggi che abbiamo capito che meno bruciamo energia, meglio sta il pianeta fuori.

La sera poi mi invitano pure a cena, stavolta a casa di Anna e Michele. In casa c’è una stanza vuota: il figlio studia a Modena perché, dice il padre, vuole diventare ingegnere alla Ferrari. Lo capisco e non dico nulla di più di quello che già sanno: io sono ingegnere pentito, ho già confessato ai magistrati.

I giorni sono dieci: il racconto, se vi piace, continua. Con calma, come nei paesi.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)