MAPPE – Salita Cacciottoli. Da piazza Vanvitelli a piazza Montesanto in 27 minuti

Un percorso pedonale che purtroppo richiede ancora un poco di “coraggio” per essere percorso, ma ve lo proponiamo lo stesso perché speriamo che più lo si conosce e lo si utilizza, prima le istituzioni si convinceranno che questo sottile passaggio tagliato nella collina di tufo meriti di essere opportunamente manutenuto.

Vi porta dal centro del Vomero a Montesanto passando sotto via Girolamo Santacroce e sotto il corso Vittorio Emanuele. È un viaggio emozionante, purtroppo per una cinquantina di metri anche piuttosto sporco, in una sorta di “città di sotto”. Rasenterete il parco (mai finito) dell’ex Gasometro del Vomero ed il terzo ingresso (finalmente aperto!) del parco Viviani. Un altro sorprendente itinerario di questa nostra città “infinita”.

Qui la mappa interattiva

(Una descrizione completa del percorso e le foto le trovate nel nostro libro Napoli a piedi)

CALEIDOSCOPIO – Piccole note, “schegge subliminali” dalla Pedamentina a San Martino, da chi ci ha abitato per anni

30 agosto 2010

Metto in vendita la casa.

La tettoia della veranda, la guardo dai gradini della serra, è anche sghemba. Non solo sporca.

È proprio ondulata, come mare “di sotto”. Una sorpresa. Tremila euro, se va bene.

Guardo la notte, il giardino siluetta su cielo e città; non m’ero mai seduta sui gradini della serra.

Perchè me ne devo andare? la mia vita sui gradini della serra trova ombelicolo e spaccatura, insieme.

Cosa, più del giardino d’agrumi in notte ‘mbarsamata, potrà cantilenare di me a me stessa?

E Napoli pare mansueta. Pare sé stessa delle canzoni, che chiunque ci vuole stare dentro; e, manco a dirlo, ci può stare.

Basta non andarsene, e non andare per strada. Non è vero che solo i bancarielli di cocaina e kalashnikov. Non c’è bisogno di dire, pensare questo, sbagliavo. I giochi sono già fatti e peggiorano.

Se andrò in un’altra casa o in un’altra città: prima cosa, avere le piante di sapore e sopravvivenza, alloro, timo, basilico, menta e nepitella, rosmarino, salvia. Non sarà difficile. Invece, mi arrangerò per i limoni di sorrento; certo, sarò più timida a grattarne la buccia pure quando avranno assicurato che “non è trattata”.

Mi sveglio infine che fa giorno in grande nebbia. La città è velata, luci fioche di tangenziale.

Dal buio delle quattro un augellin bel verde canta, mentre cerco di riaddormentarmi, mentre m’accorgo che corpo e testa stanno sregolati dal poco riposo, mentre mi rassegno ad alzarmi.

L’augellino canta e ancora una volta come ogni volta rifletto d’aver fatto nullo progresso dall’augellin bel verde della nonna, dal brusio posticcio di “è forse l’allodola…”; continuo a ignorare a quale specie appartengano le creature che mi risvegliano dal mio giardino.

Grato. Come il cielo quando finalmente alzo il naso dalla suburra digitale. Il Cielo stellato, per fortuna mia, di Obelix e di Immanuel, ancora non cade. Anche se invano cerco di distinguere tra Piccolo e Grande Carro.

I futuristi italiani facevano grandi appuntamenti di città in città per presenziare dall’alto inaugurazioni dell’illuminazione elettrica notturna; i lampioni a gas si accendevano gradualmente, lorsignori futuristi vollero provare l’emozione di veder la città, quella o un’altra, accendersi d’un botto afono.

La domanda che si pone è se, e in che termini, nella città ‘postindustriale’ si percepisce la distinzione tra luce naturale e luce artificiale, tra illuminazione diretta e indiretta, se, e in che termini, la luce artificiale continua ad avere lo stesso effetto di shock visivo proprio della città moderna; quale è il ruolo, e quale il significato dei progetti di luce nella città postindustriale.

Cerco in rete e trovo qualcosa di vicino.

Così come stavo addormentata, in pettola, mi affaccio dall’alto ai giardini del porto, il pontile è un’imbarcazione in movimento, su cui si muovono turisti, un bimbo una bimba i loro genitori, io stessa; li sento parlare: nemmeno pugliesi, sono turisti casertani, l’orizzonte del nostro porto si è ristretto.

Il cielo è giallo, pieno di uccelli a due a tre a stormi, svolazzano o vanno in picchiata; di ciascun gruppo tento individuare il nome ma riesco solo a: “poiane” “folaghe” pappagallini”. Sono bellissimi; chiamo i bimbi, che li guardino. Non sono tutti marroncini passeracei, di uno vedo il piumaggio bianco azzurro, di un altro la mascherina verde e marrone intorno all’occhio, di altri terragni le code di fagiano e pavone.

L’acqua riflette le torri del castello; la bimba sta a cavalcioni del parapetto dell’imbarcazione, sento forti tonfi di caduta nell’acqua, non sono gli uccelli in picchiata, ma paracadutisti in esercitazione, piccoli aerei stanno bassi su Mergellina, noi e gli uccelli tra Beverello, Castel dell’Ovo e Mergellina.

Il castello riflesso è come Castel Nuovo, il cielo giallo tropicale uniforme. Guardo in giù, c’è una terrazza ingombrata da tubi, è un giardino in manutenzione elettrica, non riesco a datare secolo e durata della manutenzione, mi pare disdicevole che non sia completata ora che è stagione di turismo.

Spingo la barca a riva, con gran fatica, ma i bimbi sono su un’altra, anzi bimbi padre e barca loro sono spariti.

La madre ed io, in affanno, ne andiamo chiedendo ai funzionari e organizzatori della gita, impiegati di questo porto che ora è Castello di Capodimonte, stanze di terra decrepite; ci ignorano, sbarrano luci e porte: “E’ l’una, si chiude!”. Scalmano nella loro indifferenza: “dov’è il dirigente”. Compare un omino, è lui il dirigente, vuole ammansirmi: “lei non può rivolgersi così a queste persone, lavorano qui da otto generazioni sono i figli dei figli dei figli…”

“Appunto!” gridavo disperata, ficcavo le unghie nei muri e grattavo: “sono come vermi vermi in questi muri”.

Il giardino d’agrumi è uno dei terrazzamenti più bassi della collina di San Martino e circonda la casa in cui abito sulla via Pedamentina, una scala su cui, pochissimi, viviamo un altro tempo, la scansione contemporanea dicendo “convivenza con il livello più basso del sistema”. L’insediamento borghese è commovente; ci sono gli stranieri, gli artisti, perdurando il tessuto di sempre, il durissimo sfrantumariat.

I bambini del vico fecero sassaiola sulla dottoressa che scendeva con il neonato in braccio, il tufo passò fra le due teste. Urlò, risalì di poco e li affrontò, sempre col pupo in braccio, riuscendo quasi a sorprenderli. Già s’erano affacciate, corsero, scesero tutte le madri dei sassatorelli e si misero tra loro e lei, facendo a lei, sassaiola d’insulti, a loro, esempio e ripristino di legge; né vincitori né vinti. Il tufo era un blocco irregolare di 20 centimetri.

Bellezza di eccessi, una fogna divina. Il cielo è dappertutto, negli occhi, alle ginocchia, sopra le spalle, sulla testa; il vulcano, la città in perenne dettaglio, il porto. Le anse della Pedamentina intrecciano anni feroci, non scalfiti dal poco Ottocento. L’energia, il possibile sviluppo è sospeso, rubato dai cadaveri delle segrete del castello, che arrivavano sin qui. E male si saran portati anche i monaci, queste erano terre loro.

La maledizione più forte sta in un tempio greco nascosto sotto uno dei palazzi ottocenteschi, “ma no, l’unica chiesa è quella abbandonata in fondo al vico”. Balle, visibilità sopraggiunta. Io resto convinta, l’ho sognato.

Dal Trecento la scala appartiene al Castello e alla Certosa, ai cui ingressi principali, unica tra le scale della collina, era ed è la strada più diretta, consistenza urbanistica lancinante, immutata, ingovernabile. Meglio ignorarla.

Anche in provvedimenti salvifici, il Legislatore sembra paventare il concetto di Rilevanza Storica e Urbanistica, e qualora lo espliciti ha cura di non agganciarvi il dettaglio, per esempio: “Pedamentina a San Martino”; nelle svariate deliberazioni si susseguono sintesi generiche quali Vincolo d’Insieme per l’intera Collina di San Martino e Zona di Notevole Interesse Pubblico (1954), Zona di Castel Sant’Elmo e Zona di Notevole Interesse Pubblico (1956), Castel Sant’Elmo con la Certosa di San Martino e relativa collina (1995), la Collina del Vomero con San Martino (1998).

Il Comune delega il ritiro munnezza a mezza scala, ogni quindici giorni rimuove i cocci e le munnezze – un tappeto – lanciati dal piazzale; sotto elezioni espianta le erbacce. Punto.

Cielo e alberi vicini, l’alba mi arriva nel sonno con un suono gentile. Non è il cinguettìo degli uccelli a svegliarmi: è prima, è come se la luce avesse un suono non percepibile che sintonizza lentamente il mio corpo prima che io apra gli occhi. Poi percepisco il cielo muoversi, mi alzo, tutto sembra ancora il grigetto azzurrando indistinto e fermo, invece più chiaro azzurrando si muove al giorno, un nuovo giorno, carnale, dal cielo.

Dove ci sono palazzi alti, mi perdo. Se vado a dormire dove il cielo è lontano, ricomincio a dare i numeri.

Devo tenerne conto per la nuova casa: contadina dislessica, gli ansimi televisivi dei dieci piani rotanti, sia pure con ascensore e cortile interno, mi uccidono o mi rendono moralmente inaffidabile, comunque invisa a me stessa.

Come posso andare in un cortiletto detto giardino in mezzo a tutti quei tufo-cementacei che gli tengono la mano in capa? la finestra con le sbarre, la stanza da letto affacciandosi sulle sbarre del garage di fronte?

Quanto ci metterei a sentirmi davvero infelice?

E d’altra parte come posso restare qui nel giardino troppo grande che mentre s’apre sulla città mi sfugge di mano con disonore?

Non scendo quasi mai in città. Però il 25 Aprile, siamo andati con il cugino americano al bar che mi ha “insegnato” Niha quando son tornata; al molo inondato di sole, sole forte, aperitivi, turisti, famigliole, fidanzati, pescatori del dì di festa. Tutta la giornata è stata un salire e scendere di casa, in mezzo alla folla e al sole. Tra un’attesa e l’altra mi sono anche seduta al bar azzeccato alla funicolare dell’Augusteo, stavo bene, guardavo la gente, le cacche spiaccicate sulle aiuole incolte ma le palme erano frondose e basse con foglie larghe e piene che oscillavano su giù piano piano, sciosciavano qui-ovunque nel Mediterraneo, chiare e dolci. Che caspito di posto intraducibile pure a se stessi. Privo di decoro, non distante da alcun orrore, allegro. Bevevo schweppes, a piccoli sorsi.

A dicembre ho messo in vendita la casa, a marzo ne l’ho tolta. Ho offerto stanze in ospitalità a questo a quello, disdicendo quando accettavano. In primavera, prima delle elezioni, è cominciato il Grande Spettacolo per le Allodole, munnezza in fiamme, sommosse acquetate in televisivi successi e spot; la diossina ha cominciato a spirare, di notte soprattutto, e tuttora.

La televisione me l’ero già “tolta”, non se ne poteva più, rischiavo pure di morire abbruciata di sigaretta depressa; pago il canone perché tanto non c’è disdetta che tenga: quelli sono come la munnezza, ti trovi in mano alla gestline/equitalia pure se non t’hanno mandato le bollette e non hanno ritirato da sei mesi , ti ipotecano la casa anche per euro sei.

Sono stralunata e precisa, e tengo un problema, di più ma due ossessivi:

– come parlano come scrivono quelli che parlano per opporsi alla mappazza mediatica.

– molti di loro continuano a datare l’aspetto locale della Tragedia al tempo fra le due elezioni del Sindaco di Napoli 1992 -1997, quando tutti sapevamo e sanno che senza patti con la camorra da mai si governa Napoli, figurati in pieno tormentone Mani pulite; ma i ciurletti continuavano a parlare di “questione morale” a Napoli, manco fossero Berlinguer prima dell’ammazzamento di Moro.

Queste due ossessioni temo che siano collegate, non solo nella mia mente, nei fatti.

Metto l’acqua a scorrere in giardino, i balconi aperti: l’estate circola di luci vocianti dalle finestre aperte.

Il ragazzo di su vuole “solo insalata di pomodori”, la ragazza che affaccia sul vecchio arancio scotoletta e frigge co’ ‘sto caldo – sento la mano battere sulla panatura e pure l’olio che strasfrigola – urlando ai pupi di non urlare; nel vico chiamano al rientro i figli come io chiamo i gatti, uguale: infatti all’inizio i bambini mi facevano il verso ad ogni nome di gatto straneggiandosi di classe, censo e specie e sociologia. Alla fine, s’acquetarono in narrativa: “signora dei gattini” urlavano per ogni pallone da recuperare a qualsiasi controra del giorno e della notte.

Dormo in cucina, il gatto sulla testa, la micia sui piedi; il cane irrequieto sul tappeto, vuole tornare nelle stanze del centro casa, io no. La cucina accoglie e ristora la mia condizione di migrante, nomade, bracciante della casa.

La camera da letto offre un riposo “totale”, senza interruzioni né memoria, ma al terzo giorno si fa limaccioso, qualcosa tira giù, lontano ed entra nei sogni e poi negli stati d’animo; con buona pace del mio feng shui for dummies, continua a non essere una buona camera da letto.

Forse perché – a parte la cantina – sta nella parte più bassa di questa casa puzzle e dai livelli sfalsati; o forse per la storia dei due poveretti morti “durante un bombardamento” mentre raggiungevano il rifugio, cioè proprio la nostra cantina, sotto la camera da letto; c’è ancora una strana porta-finestra affacciata nel vuoto.

Non riuscivo a capire l’intrico di vecchi e nuovi passaggi; e soprattutto come qualcuno potesse essere stato ucciso dalle bombe in questo punto preciso dove le bombe non sono cadute; ho cercato e così mi sono imparata: bombardamenti 1943, poi gli aerei scendevano bassi per mitragliare.

La cantina è la fabbrica più antica della casa; coeva al castello, o di poco posteriore, dice il mio amico indicandomi dall’esterno il tipo di tufo e le arcate che proseguono anche sotto il giardino. Ci hanno abitato come in delle grottelle, per secoli. Poi, vario deposito. Durante la guerra, rifugio: dal viottolo una scala stretta portava all’imboccatura (la porta-finestra); su quella scala furono falciati. Più o meno, sotto il nostro letto.

Dentro, la cantina è tutta a volte; una, sotto la stanza da letto, era murata: la facemmo aprire, ci fermammo subito ma i guai erano già cominciati.

Avremmo potuto continuare, di seguito ce n’era un’altra sotto il giardino e poi dopo piegando verso la collina, avremmo trovato le cisterne e sotto altre cisterne. Di chi è tutta questa roba?

Quando scendo in città dalle scale, tre gradini precisi dopo la casa che fu della fata vecchietta, la mia mente sta erogando pensieri scuri: paura di inciampare, pensieri di morte mia o altrui, senso che il nero della città è troppo per consentire vita onorevole. Non me ne sono accorta subito e continua a ripetersi.

La scala in quel punto si prende uno scarto di pochi gradi sulla pendenza, una vertigine d’incertezza tra finestre e portoncini sempre chiusi – subito dopo i gradini piegano decisamente a destra.

Al punto di confine, dove appena si comincia a intendere la città e se ne intravvedono i palazzi, la scala piega, io sento freddo e temo mettere il piede in fallo.

Mi alzo per cambiare posizione al battente della finestra sporgendomi in tutta la profondità del muro, il Castello saetta tra le finestre di fronte e la mia, moltiplicandosi su vetri chiusi, doppi vetri aperti e battente. Resto con lo sguardo a mezz’aria. Questo gli Spagnoli non l’avevano previsto! Nessuna delle costruzioni antiche affacciava verso il Castello.

Le nuove, Ottocento e Dopoguerra, sì e se ne rimbalzano l’icona in frecce silenziose, schegge subliminali.

Altro che Crocifisso nelle aule.

Testo di Maria Laura Petrone, foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)