DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (5) – Due anziani felittesi che ancora sanno come creare con poco e con le loro mani

Quinto giorno del diario dal Cilento, Felitto, d’inverno. (Qui trovate il giorno uno).

Lunedì 14 gennaio 2019, giorno cinque

Stamattina me la prendo comoda. Metto un po’ di vuoto in mezzo a tutte le cose che ho visto negli ultimi giorni.

Poi a pranzo a casa di Rosi e Donato. Qui conosco Rosita. È una giovane donna originaria di Roccadaspide, un paese vicino. Ha vissuto in Francia per studiare arte, ora è tornata. Sento che ha lo stesso fermento di idee che mi era cresciuto dentro stando tre anni in Olanda.

Poi nel pomeriggio con Rosi vado a trovare suo fratello Vito.

In visita a Vito Di Stasi

Un disordine apparente. Ma le fascine per fare i cestini sono raccolte a mazzi in ordine perfetto. Dritti, puliti, le canne i vimini. Sta in abiti da lavoro: la campagna, le capre, che sta tutto qui intorno.

Vito fa i cestini per vari usi, pure quelli piatti e ampi per essiccare i fichi.

Questi so’ com’ ‘u pane, si vendono facile, mi dice.

Il cestino per raccogliere i funghi, per le uova, piccolo o grande.

Mo devo fare quelli piccoli per dieci uova.

Di galline la gente ne tiene sempre meno.

Si muove piano, ma nessun movimento è sprecato.

Sta preparando le fascine di scantamanu, i rametti secchi di erica che sto imparando essere utilissimi per accendere il fuoco. Sono meglio della carta di giornale. Ieri ho scoperto che basta un po’ di brace della sera prima e prendono fuoco. Si è seduto su una sedia di paglia bassa bassa, al piano terra, fuori, e li spezza sul ginocchio, a lunghezze precise tutte uguali. Poi li lega in un mazzo con un filo con la nocca per scioglierlo comodi.

Io mi agito, e lui, seduto su quella sedia piccolissima nel frattempo ha fatto cento cose piano.

Poi entriamo in una casina a fianco. C’è calore e un profumo accogliente: profumo di casa buona, penso, ma non mi rendo conto. Mi inizia a mostrare i cucchiai lunghi e i forchettoni di legno che fa con le sue mani. Poi Rosanna mi fa notare che sopra le nostre teste, poggiati su una rete, ci sono i formaggi freschi ad essiccare. Ecco l’odore di casa, forse caso.

C’ha pure un grande forno a legna Vito, per il pane.

Stanno costruendo la scala nella casa grande nuova, ci sono i ferri dell’armatura e le tavole a forma di scalini pronte per accogliere il cemento.

Non gli manca lo spazio a questo signore anziano che sa fare un sacco di cose. Anche i ferretti per fare la pasta fresca caratteristica di questo paese, i fusilli felittesi: parte da un filo tondo di acciaio e lo rende squadrato, per far attaccare meglio la pasta all’uovo intorno. Poi lo inserisce nella confezione regalo: una canna sottile che lo conserva senza farlo piegare.

Ha i campi seminati a grano antico, gli alberi di fichi che fa essiccare al sole per l’inverno, i terreni dove va a raccogliere la legna. Di qualunque di queste cose gli chiedo inizia a raccontare con precisione estrema tutti i passaggi che si devono fare, come e quando. In questo apparente disordine dove io non vedo niente lui trova tutto quello che gli occorre.

Le pecore e capre stanno in giro e il cancello deve essere sempre chiuso. Lo chiude lui stesso quando con la macchina usciamo.

Torniamo a casa, scarichiamo la legna che Vito ci ha regalato.

A casa di zi’ Stefanina

Poi Rosi telefona a zia Stefanina, la signora che avevo conosciuto ieri durante il film sui briganti. Quella che saliva una scalinata ripida nel centro del paese e a chi le chiedeva se voleva aiuto aveva detto: Nce l’aggia fa i’ sula, m’aggia sfurzà, si no addivento veziusa. Anche oggi che andiamo a casa sua per vedere tante cose che fa, ribadisce il concetto: Devo lavorare sempre si no m’infiacchisco.

Ieri nel museo mi aveva fatto notare il fuso per filare e mi aveva detto che lei lo utilizza ancora, allora questa è la cosa principale che siamo venuti a vedere, e come si usa.

Siamo in tre con Rosanna e Rosita. Nel cortile di casa tiene una bellissima cinquecento, sul portabagagli sul tetto c’è ancora la legna che è andata a prendere, non è una macchina d’epoca, ancora fatica.

Ci accoglie, poi va nell’altra stanza, la porta d’ingresso la lascia un poco aperta, sempre, perché altrimenti troppo caldo addormenta e poi ‘o fuoco mangia ll’ossigeno.

Torna con una busta con dentro tutto il necessario. La lana grezza di pecora (che ormai molti pastori buttano perché non c’è più abbastanza richiesta dal mercato), cardata solo a mano, senza le spazzole, ché dice che altrimenti il filo nun vene buono. Sta avvolta intorno ad una canna la cui parte superiore è stata tagliata a strisce e allargata a forma di grande uovo, mentre la parte inferiore fa da manico. Poi c’è il fuso di legno con un gancetto metallico alla punta e un disco più sotto.

Tira un po’ di lana dalla matassa grezza senza staccarla del tutto, poi la passa dentro il gancetto del fuso e con la mano spinge la rotella lungo il fianco della coscia per metterlo in rotazione: è questo movimento che gira le fibre e crea da una pecora un filo di lana.

Provo anche io, anche Rosita, ma ci riesce malissimo.

Ci vuole circa una giornata per fare ‘nu bellu gomitolo ma poi dipende da uno quanto ci lavora tra un servizio e l’altro da fare in campagna oppure a casa.

Poi da due fili, attorcigliandoli, ne fa uno più forte e con questo, a ferri, in questi giorni si è fatta due maglie di lana, con lo scollo a V, senza maniche. Sentia nu pocu de friddu e me li facia. E ci fa vedere, tirandola un attimo su dal collo, quella delle due che in questo momento porta addosso.

Poi ci chiede se vogliamo castagne, panettone, cafè. Io vorrei le castagne perché sono curioso di vedere come le cuoce sul fuoco.

Ce vo’ sulo nu poco de tiempo. Si m’u date putimo fare tutto.

Tira fuori con un ferro il treppiedi dal fondo del camino, stava già lì, appoggiato in verticale oltre il fuoco acceso. Poi va a prendere la padella bucata per le caldarroste.

Torna con le castagne congelate, altrimenti non si conservano. Le butta dentro la padella senza incidere la scorza. Dice che se la fiamma all’inizio della cottura è alta non scoppiano. Pure lei come Vito sa risparmiare i gesti, eliminare le azioni inutili che teniamo solo noi a fare giri a vuoto dentro la nostra testa.

Ha ragione: aumenta il fuoco con la fiamma viva aggiungendo erica secca e ogni tanto gira le castagne col ferro per i tizzoni, e quelle non scoppiano.

Dieci minuti e sono cotte.

Ottime. Si sbucciano facilmente, non scottano neppure, forse entra abbastanza freddo dalla porta aperta.

Poi ci porta i fichi impaccati: due fichi secchi aperti ed accoppiati con in mezzo il finocchietto e le noci.

Nel frattempo è arrivato anche il compagno di Rosi, Donato. Si accorge che in alto stanno appesi dei salami.

Zia Stefanina: So’ sausicchi

Donato: Benerica!

Rosi: Zia Stefanina li fa lei, taglia tutto col coltello, a mano.

Donato: Chist’è salame!

Rosi: Zi’ Stefani’, addu l’ha’ cumprata ‘a carne?

Zia Stefanina: Addu Rosetta. Secondo me ha accisu pure stasira, vogliu anda’ a verè rimani si me ne ra ancora.

Siamo in tempo di macellazione del maiale.

Rosi: Il 17 gennaio è S. Antonio. Lo sai come si dice da noi?: A Sant’Antuono ogni puorco è buono.

Donato: France’, sai cosa si faceva una volta a carnevale?

Si radunava un gruppetto di ragazzi, ci si travestiva e si andava a bussare alle porte. Quando da dentro chiedevano “Chi é?”, si rispondeva “Sauzecchia”.

Poi si entrava e si faceva qualche balletto, ‘na piccola esibizione. E si riceveva qualche salsiccia in dono.

Insomma un “dolcetto scherzetto” fatto più carnale.

Una volta girato tutto il paese si era raccolta una cesta grande, piena di salsicce, ci si riuniva e si mangiava tutti insieme, bevendoci sopra molto vino.

Zia Stefanina si sta preoccupando che non abbiamo mangiato abbastanza castagne e fichi e ci porta il panettone, artigianale, che le ha regalato la figlia. Poi sono troppo curioso e quando dice che lei fa il pane col lievito madre nel suo forno a legna vorrei proprio assaggiarlo, anche io il pane a casa lo faccio, e allora glielo chiedo. Porta una pagnotta nuova, grande, bella, e un caciocavallo.

Dopo il dolce del panettone ‘nu poco di formaggio proprio ci vuole.

Mo c’aggiu fattu ‘u pane, gelava proprio; c’aggiu misu na jurnata. M’aizai e quatt’ a notte, nun criscia, picchì facia friddu: nc’era nu vientu de terra siccatu.

Lei sa, senza averlo dovuto leggere in nessun libro, che il vento di terra, da nord est, il grecale, che viene dalla Siberia, da noi è freddo e secco. I meteorologi poi si sono inventati che il motivo sia che prima di arrivare qui ha scaricato tutta l’acqua sul versante adriatico, appena ha iniziato a salire di quota lungo gli Appennini nostra spina dorsale.

Prende questa enorme pagnotta, di taglio, con la mano sinistra, se la appoggia in petto e col coltello lungo, stretto nel pugno destro, in piedi, tirando verso di sè, taglia le fette grandi.

È un gesto semplice, bellissimo, sacro, che non vedevo da molti anni. Il pane lo si abbraccia tagliandolo.

È un pane morbido, tondo, giallo dentro, cresciuto benissimo.

La foto di quel gesto non l’ho fatta perché la batteria della macchina fotografica ha avuto il garbo di scaricarsi da alcuni minuti, lasciandoci ascoltare e mangiare in pace.

La mattina faccio colazione con quello che resta la sera; se restano un poco di castagne…

Ci ripenso e collego le due cose quando ne sono rimaste sei e lei sta dicendo: vabbuò mo nun c’è rimastu nente. E Donato prende quelle finali.

Vive da sola, la vengono a trovare spesso le figlie, guida ancora (90 anni) quella sua vecchia cinquecento con sopra il tetto il portapacchi per portare dal bosco la legna.

Sto buono, solo nu poco di solitudine, m’ha fatto molto piacere chi siti venuti.

(Fine quinta parte, continua)

Testo e foto ©Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)