DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (2) – Incontri nei vicoli, una signora architetto, il carrozziere inventore e l’ultimo negozio nel centro antico

Continua il racconto da un piccolo paese dell’Italia interna, in Campania, in Cilento, a Felitto. (Se volete partire dall’inizio qui c’è il giorno uno).

Prima di iniziare però devo fare una breve considerazione.

Il diario di ieri finiva più o meno così: “La sera poi mi invitano pure a cena, stavolta a casa di Anna e Michele. In casa c’è una stanza vuota: il figlio studia a Modena perché, dice il padre, vuole diventare ingegnere alla Ferrari.”

Ecco, anche questo, come il traffico di quelli che intasavano le strade per andare a lavoro, è cambiato dopo l’arrivo del virus planetario. Una delle volte che, in questi due anni trascorsi da allora, sono tornato a Felitto, il figlio di Anna e Michele, Mario, l’ho conosciuto, adesso sta studiando da casa, quella stanza non è più vuota. Lo chiamano South working: lavorare, o studiare, dal sud per aziende che stiano altrove. È una cosa che se si hanno a cuore i paesi, adesso credo che si debba guardare attentamente. Qualche giorno fa mi sono accorto che se ne sta occupando anche il World economic forum, quelli di Davos 2021.

Ma adesso passiamo oltre, vediamo cos’è successo il giorno dopo.

Venerdì 11 gennaio 2019, giorno due

Stamattina la prima cosa che faccio è accendere di nuovo il fuoco. Qui, a gennaio, il caffè viene solo per secondo.

Stanotte ho imparato, me l’aveva suggerito ieri Anna, che una bottiglia di acqua calda nel letto è un sistema utilissimo: riscalda bene e per tutta la notte. Il cappello di lana con cui ho dormito non me lo sono ancora tolto; lo rivedo dentro lo specchio del bagno mentre mi faccio la barba. Neppure la calzamaglia e i calzettoni.

Fa freddo“, direbbe la moglie di Luca Cupiello, alcune volte.

Il campanile della chiesa madre in fondo

Spalanco le finestre, fuori c’è un sole bello. Il campanile della chiesa madre è a pochi metri; vicinissimi il tetto di tegole di fronte che sta nella foto di copertina, una piccola finestra di alluminio anodizzato e un balcone che non si capisce se è disabitato, perché ci crescono piante nelle crepe ma anche in alcuni vasi che ci sono.

Un altro abitante del centro

Mentre fotografo passa un signore; mi fa una certa emozione: allora non sono da solo in queste case. È l’unica persona che da ieri sera ho sentito camminare per le stradine del centro. Sono così strette e piene di scale che le auto non riescono a passare.

Adesso devo andare che ho appuntamento alle dieci con Michele.

M’incammino per i vicoli.

C’è un silenzio calmo, l’aria è pulitissima, frizzante, profumata anche della legna del fuoco. È come un grande abbraccio all’anima, che in qualche modo suo sta in silenzio ricambiando.

Il sole crea dei tagli di luce limpidi, allegri, caldi, sulle pietre fredde delle case. Ogni tanto spunta uno dei gatti disegnati sulle porte da una stessa mano, tutti diversi, colorati.

In una stradina, in fondo, intravedo qualcuno, allora tra i due o tre percorsi alternativi scelgo questo, gli vado incontro.

È una signora con i vestiti da lavoro e i guanti enormi. Sta armeggiando con la carriola per trasportare la legna a casa dal deposito, tra un viaggio e l’altro fa una pausa chiacchiere con la vicina che sta sull’uscio della porta a fianco.

Chiedo se le posso fotografare e, con una gentilezza piena di pudore, volendone sicuramente fare a meno, acconsentono. Poi mi chiedono chi sono, che ci faccio, è una inevitabile domanda in questi posti. Mostro il passaporto dell’amicizia di Rosi e tutto si distende ancora un poco.

Vado, altrimenti faccio tardi, ma visto che ormai sanno a chi appartengo gli dico che mi farebbe piacere, un’altra volta, parlare un po’ con loro. Va bene, non c’è bisogno di prendere appuntamenti, il centro storico è piccolo abbastanza da non perdere il contatto facilmente.

L’architetto

Buongiorno Michè.

Buongiorno Francè, stamattina face friddu. Andiamo al bar che ci stanno aspettando.

Salgo in macchina, pochi secondi e siamo al Bar Italia. Dentro ci sono già tutti: Rosanna, Donato, una nipote di Rosi: Angela, e Anna Pina, una signora architetto che oggi porta un grande cappello caldo con le falde.

Scopro dopo pochi secondi che, come Rosanna, ha un miliardo di idee e in continua evoluzione.

Dopo qualche minuto capisco che in realtà l’una senza l’altra non funzionerebbero altrettanto bene. L’idea di comprare la Casa delle cento stanze, la principale casa nobiliare del paese, Rosanna, da sola, non avrebbe avuto il coraggio di pensarla.

Anna Pina, da architetto, ma soprattutto da donna che ha una bella visione e vasta, delle cose di questa terra e di questo posto, le ha saputo trasmettere l’idea che quell’acquisto, ma soprattutto quella missione del palazzo, era possibile, bella, assolutamente da fare. Rosanna dentro quell’idea poi sa metterci la sua energia solare.

La missione, per chi non ha letto ancora quel primo articolo su Rosi è, come mi aveva detto: Se riuscissimo a fare in modo che almeno un giovane, anche uno solo, dei nostri, non fosse costretto ad andare via dal paese.

Poi Michele mi porta in giro a conoscere altre persone. Sta in ferie per qualche giorno e invece di spenderle per sé queste sue ore, le regala a noi curiosi che veniamo da fuori. In questo paese, se devo dire adesso alla fine di tutto, mi pare questa grande generosa accoglienza il loro più grande patrimonio.

Andiamo in macchina, poco lontano. L’ultimo tratto è in un vialetto di campagna.

Il carrozziere inventore

C’è un capannone, entriamo e c’è una specie di gigantesco carrozziere ed inventore buono.

Insieme al nipote di Rosanna, Giuseppe, ha messo su un’attività con la quale portano in giro, dove li chiamano, tutto il necessario per insegnare ai bambini le regole del codice stradale.

Macchinine, semafori, segnali e strisce pedonali sono già pronti su un carrello da rimorchio. Lo trasportano e montano un piccolo circuito stradale. Per spiegargli l’idea, invece delle parole li fanno guidare.

Si vede lontano un chilometro che Tommaso queste piccole auto le costruisce con passione. Le fa somiglianti a quelle vere, tra i modelli hanno anche la vecchia 500 e il maggiolino tutto matto. Le proporziona a occhio. Il suo capolavoro, di cui va molto fiero, lo sta creando ancora, è la F40, la Ferrari.

Tommaso e la F40

Mi porta a vederla sopra l’officina: la carrozzeria è quasi completa, per ora è grigia di stucco, va rifinita nel colore del fuoco.

Poi mi mostra un’altra idea: la bici cucina.

L’ha studiata nei minimi dettagli, anche quelli del codice stradale, ed è pronto a farne altre versioni secondo le richieste del cliente: numero di fuochi, frigorifero, pure un forno per le pizze si può mettere. Sorride, muove quelle sue mani grandi e dice: già ho studiato tutto.

S’è fatto tardi, è ora di pranzo, parlando parlando.

Le spalle al camino

La tavolata è lunga anche stavolta: Anna, Michele, Rosi, Donato, c’è pure Angela.

Una cucina come se fossi a casa, anzi meglio, un bel bicchiere di vino prodotto a poche centinaia di metri da qui da un giovane agronomo, iscritto a Filosofia, con le idee chiarissime e molte, che andremo a trovare un altro giorno.

Poi imparo che il posto più caldo d’inverno a tavola in paese è quello con le spalle rivolte al camino. Il gatto di casa lo sapeva già da molto tempo. Si accoccola sulle gambe di chi se ne sta seduto più tranquillo più vicino al fuoco.

L’ultimo negozio del centro storico

In uno dei pochi momenti in cui tornavo a casa, non il primo giorno ma solo verso la fine di questo secondo perché Rosi o la sorella Anna mi invitano a pranzo e a cena quasi con l’insistenza di mia mamma, vado a fare finalmente la spesa. Ho la cucina a disposizione, troverò il tempo per cucinare almeno un giorno.

Nella prima strada c’è la porta di legno dell’unico negozio rimasto nel centro antico, già per questo, anche se non dovete comprare niente, merita una visita.

Entro ed è una scena il cui primo ricordo sta… ecco, nella mia infanzia calabrese: la salumeria di paese che spero ci sia ancora in tutto il mondo. Una stanzona unica, il pavimento di una volta, gli scaffali lunghissimi sui lati, qualche scatolo di cartone con le cose, mille confezioni diverse, una persona che sta ad ascoltarti dietro il bancone in fondo. Si chiama Angelo.

Inizio a chiedergli la pasta, il caffè, mi ricordo di comprare il pane, la birra… ah, l’olio.

Ti posso dare l’olio di semi ma l’olio di oliva nunn ‘o tengo.

Cioè, fatemi capire, siamo in un paese assediato dagli alberi di olivo e ‘sta salumeria che tiene tutto, forse pure un pezzo di Vespa Piaggio, gli chiedo l’olio e: “Nunn ‘o tengo?”.

La ragione, mi spiega, è molto semplice: qui l’olio ognuno si fa il suo, spremendo le olive del suo campo, nisciuno ‘o compra ‘o negozio. Perfettamente logico.

Poi, a un certo punto, parlando: Il negozio se fosse per me lo avrei chiuso, lo tengo aperto soprattutto per mia mamma che mi ha preceduto in questo lavoro. Più una tradizione di famiglia che una fonte di guadagno. Ecco chi era la signora seduta che avevo intravisto la volta precedente che ero passato un secondo.

Ogni tanto mentre parliamo entra qualcuno a comprare qualche piccola cosa al volo. Alcuni pagano subito, altri poi fanno un unico conto. Io penso di aver preso tutto… i biscotti. Esco e mi sembra di aver visto un altro pezzetto, imprescindibile, del luogo.

Mo vado a casa a mettere tutto a posto. A presto con il seguito del racconto.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)