Eccoci al quarto giorno di questo piccolo diario dal Cilento, non sul mare ma dalle aree interne, da Felitto. Se volete sapere le cose dal primo giorno qui trovate l’inizio.
Domenica 13 gennaio 2019, giorno quattro
I muri della casa, man mano che passano i giorni, si stanno riscaldando, però anche stamattina mi alzo in un clima piuttosto freddo. Alle 8:20 esco dal letto, ore 8:22, ormai lo sapete: accendere fuoco prima di tutto.
Mi accorgo che il pezzo di legno più grosso rimasto da ieri sera nel camino, se ci soffio, in un punto ridiventa rosso. Faccio una fossetta nella cenere vicino, spezzo dei rami di erica secca, ‘u scantamanu, li avvicino a quel punto e soffio di nuovo. Prende fuoco!
Subito un altro po’ di legna piccola, anche di più doppia, la più secca che trovo, e dopo neanche due minuti ho la fiamma viva! Forse sto capendo piano piano come pensa il fuoco.
Mo posso mettere sul gas la macchinetta del caffè. Mi dispiace quasi che accendere questo non richieda altrettanta cura, un po’ di soffio.
Collego il computer a internet, via etere, tramite una scatoletta che mi sono portato. Il segnale non è forte ma funziona abbastanza, lento. Un’occasione per selezionare bene le cose da ascoltare e da dire, la piccola difficoltà come filtro per non affollare i nostri pensieri e quelli degli altri.
Apro uno dei quattro vetri in cui è divisa la porta di casa che dà subito, a piano terra, sulla strada, per guardare fuori e far respirare anche il fuoco.
Alle nove e trentanove sono fuori.
Perdo due minuti a fotografare un altro po’ di gatti dipinti sulle porte. Alle nove e quarantadue sono al Palazzo Migliacci. Chi sta teorizzando le 15 minutes towns, le città in cui tutto è a breve distanza, potrebbe prendere ispirazione in posti come questo. Forse anche per togliere luoghi presso cui recarsi, inessenziali, perdite non di minuti ma di ore.
Al Palazzo stamattina si continuano le riprese del film sulle lotte di liberazione.
Varco il portone e la scena è nuova: c’è mezzo paese in vestiti ottocenteschi, seduto, al trucco.
A tutti fanno un colorito più scuro, da gente che vive molto fuori, all’aria, al sole. A un signore, con la matita nera, stanno mettendo in faccia la barba di qualche giorno. Ci sono le donne con gli scialli, maglie, contro maglie e gonne ampie che nascondono tutto. Gli uomini coi cappelli e i mantelli scuri.
Poi compare un personaggio ancora oltre. Un uomo sulla settantina con la barba, i calzari fatti di cuoio lana e stringhe, sulla spalla lo schioppo, che non sai se è vestito in costume o esce di casa così tutti i giorni. Poi capisco che è uno che viene da fuori e che recitando da brigante passa molto del suo tempo, non solo qui oggi a Felitto.
La prima scena è con Michele e Giulio -quello che a tutte le feste che organizza con la Pro loco lo trovate ad arrostire salsicce dietro il fuoco- che appendono per strada una lampada a petrolio. Bofonchiando qualche protesta, non mi ricordo se contro il governo rivoluzionario o i Borbone, gli passano davanti Donato e Rosi.
Poi alla combriccola di oggi si aggiunge un secondo uomo armato con la barba, e i due formano una coppia formidabile. Ogni minuto che passa, guardandoli, ti scordi di più di vivere due secoli dopo.
Nell’androne del Palazzo la scena è che Marilena va ad aprire e i due si abbracciano e si comunicano notizie terribili e urgenti, per salvare il mondo.
Verso mezzogiorno torno a casa. Finalmente, per la prima volta da quando sono qui, metto a fare il sugo. Sotto l’acqua per la pasta accendo tra poco.
Le riprese alle gole del Calore
Dopo pranzo in macchina verso le gole del Calore.
Forse ne avete sentito parlare, è un posto abbastanza noto, sta in fondo a una discesa all’inizio del paese. Il fiume si è scavato tra le montagne un percorso dove c’entrano giusto giusto lui e un sentiero che gli cammina a fianco, in questi giorni poi ci andiamo, in silenzio, a vedere.
Arrivo nel prato largo che c’è vicino alla vecchia chiusa della centrale idroelettrica in disuso e trovo una specie di accampamento di brigantesse e briganti. Il regista sta spiegando ad un cerchio di donne come si dovrà svolgere la scena di danza. Ci sono anche i suonatori di tammorra, organetto e chitarra coi vestiti di quel tempo.
Donato nel frattempo sta accovacciato per terra, gioca ad accendere il fuoco. Segue l’istinto, Socrate avrebbe detto che sa ascoltare benissimo il suo demone. Con i capelli lunghi armeggia con la legna: a tratti pioviggina e fa freddo, bisogna riscaldare il mondo. Ne viene fuori una perfetta colonna di vapore di fumo. Si rialza soddisfatto dopo avere penato parecchio per accenderlo, con tutta st’umidità che c’è oggi qui intorno; si aggiusta i pantaloni con i polsi, come i bambini che si rimettono in piedi con le mani sporche dopo che hanno finito un gioco.
I fucili di scena messi a capannello. Una signora molto anziana, con le scarpe imbottite, lo scialle e l’ombrello, è ancora curiosa di cose nuove ed è venuta apposta per vedere cosa fanno. Qualcuno inizia a distribuire a tutti del tè caldo.
Poi arrivano due felittesi vestiti da preti. Uno è lo stesso che appendeva la lampada nella scena di stamattina con Michele, il cuoco eterno delle salsicce delle sagre. Inizia a benedire tutti con fare pacioso, sembra il fratone della banda di Robin Hood, e siamo pure in mezzo al bosco.
Si inizia a girare.
Tutte donne e due briganti danzano quasi in cerchio.
Dopo poco la musica prende tutto il posto. La scena si inizia a sfumare col reale o forse sarà il fumo del fuoco.
Donato deve aver colto la variazione: lo vedo, di scatto, muoversi verso il centro della danza: Aggia balla’. Il demone ha parlato a voce alta. Lo fermano dopo qualche secondo ma nelle riprese invece spero che sia venuto.
Il signore a cui stamattina stavano disegnano la barba con la matita, adesso sta con lo schioppo a fare la guardia, concentratissimo.
Poi tra le donne iniziano un gioco: vediamo chi si ricorda ancora l’uso di portare sulla testa il cesto. In due o tre ci riescono, qualcuna anche camminando più di qualche metro. E volete sapere una cosa? Anche quella signora ultranovantenne, che è venuta solo per vedere, prova per un poco quel gioco che da giovane ha sicuramente fatto moltissime volte seriamente.
Le riprese qui sono finite, rompete le righe.
Rosi tira fuori pagnotte e caciocavalli, poggiata sugli spalti di legno, inizia a tagliarne per tutti. Qualcun altro nel frattempo versa il vino rosso. Dopo un po’ inizia a piovigginare ma siamo ormai abbastanza allegri da non curarcene troppo.
Il ballo spontaneo delle donne nell’androne del Museo
Però adesso bisogna andare. C’è da girare altre scene in paese, nel museo della civiltà contadina di cui vi ho raccontato ieri. Si raccoglie insieme tutto e si mette nelle macchine. Appuntamento al centro storico.
Arrivo, parcheggio e inizio a camminare.
Dentro un vicolo del centro incontro di nuovo la signora anziana curiosa, vabbè mo ve lo dico, si chiama zi’ Stefanina, anche se l’ho saputo solo il giorno dopo, inizia a salire la scala ripida e un giovane le chiede se vuole un piccolo aiuto: Grazie ma aggia sagli’ io sula, ‘a si no addevento veziusa.
Che vi devo dire? Forse non si arriva a questa età così svegli e curiosi se non si è capito che ogni giorno bisogna sforzarsi almeno un poco.
Arriviamo nel museo, ve ne avevo già parlato: solo il palazzo vale già la visita, non è rifatto, è rimasto fermo.
Dentro c’è il parroco di Felitto, stavolta nelle riprese ci sarà un prete vero.
Mentre aspettiamo che arrivino tutti, ai Valcalore viene in mente di iniziare a suonare. Tempo tre secondi e le signore iniziano a ballare.
Arriva Rosi, mette piede nell’androne e in coppia con un’altra signora inizia a ballare ancora con le buste in mano.
C’è qualcosa che risuona dentro, adesso, in questo posto, in questo palazzo antico, in tutti, in questo momento. Meno male che è buio e che posso riprendere una panoramica del palazzo girandomi dall’altra parte altrimenti lo vedrebbero che sto diventando serio, troppo.
Forse si potrebbe ripartire, dove le parole non arrivano, dalla musica, nei paesi, per riaccendere il fuoco.
Dopo parecchio tempo saliamo le scale fino al primo piano.
Zia Stefanina si ferma nel corridoio a guardare le foto appese al muro. Quelle persone se le ricorda in vita, o alcuni parenti loro: Questa era la mamma di… e lo racconta a Marilena, una ragazza giovane che abita qui nel centro storico.
Poi va nella stanza dove sono gli strumenti per filare. Li prende e in quel momento smettono di essere oggetti di un altro tempo. Lei li usa ancora quasi ogni giorno.
Le riprese durano ancora, nelle strade del paese, fino a buio.
Il professore Donato dall’uscio di una di queste case di pietra se la prende coi filo borbonici e gli ricorda: Mo cummannamme nuje.
È stata una giornata lunga. finalmente torno a casa un attimo.
Poi esco di nuovo, mamma mia nei paesi dell’Italia interna non ci sta mai riposo. E si finisce come ieri, tutti da Peppe a cena.
Mo ditemi se c’è davvero bisogno delle sagre agostane per visitare un paese e stare insieme.
(Fine quarta parte, continua)
Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)