NAPOLI DAL MARE – Da Pozzuoli a Largo Sermoneta lungo la linea di costa

8 giugno 2017

Napoli dal mare? E allora andiamo a vedere, stamattina, in un piccolo gommone, la costa da Pozzuoli fino alla capitale.

Ci porta un amico che è nato a Posillipo, il padre faceva il pescatore, aveva una barca di dodici metri e un chiosco a Mergellina: una vita inzuppata nell’acqua salata.

Da ragazzo gli dava una mano, nel pomeriggio, a calare la rete, di notte poi il padre andava col socio pescatore a tirarla su: sua madre invece a lui a fare quello a quell’ora non lo ha mai autorizzato. Adesso lavora nelle telecomunicazioni, dentro lo stabilimento panoramico per operai creato da quel genio di umanità che era Adriano Olivetti.

Stamattina abbiamo appuntamento alle dieci, vicino all’arco della porta di Pozzuoli sotto il ponte che va al Rione Terra. Arro presto come tutte le volte che mi sta a cuore e che qualcun altro è coinvolto. Pure la Cumana ha dato una mano, l’ho dovuta rincorrere dentro la stazione che stava addirittura per partire. Dentro c’è un sacco di gente direzione sole. Si vede dalle scarpe, dai vestiti corti con un sacco di spacchi e dalle borse delle donne un poco troppo gonfie per passeggiare. Scendo a Gerolomini e vedo le terme di Pozzuoli dall’ingresso laterale.

Passeggio con calma verso la porta antica. Mi faccio un giro a visitare la chiesa di Gesù e Maria; fuori c’è un signore anziano. Mentre gironzolo mi comincia a parlare e mi spiega un sacco di cose. Quando stiamo per uscire faccio per dargli qualche moneta ma lui resta sorpreso, non gli devo nulla: uno che fa le cose per gli altri solo perché gli piace.

Ma iniziamo la navigazione.

Il gommone sta dentro un piccolissimo porto, vicino al rudere mai finito di cemento che sorge dove alla fine del ‘600 era sorto un convento dei frati Cappuccini, poi uno dei ristoranti più famosi di Pozzuoli: “Vicienzo a mare”. Col bradisismo fu abbandonato e ne fu autorizzata dal Comune la ricostruzione come centro polifunzionale, ma il Demanio Marittimo lo dichiarò illegale. Oggi sta lì in posizione privilegiata ad impreziosire il paesaggio.

Il motore è perfetto, parte al secondo colpo.

Uscendo da questo piccolo anfratto già si vede la gente sugli scogli. Identica ai gabbiani, sta lì a prendersi il sole e l’aria, non tanto per fare il bagno, almeno per ora.

Prua verso est, direzione Napoli. La costa per adesso è quasi tutta di accumuli artificiali: pietre grosse che si ammassano vicine facendo finta di essere uno scoglio. Sopra ogni tanto c’è un puntino umano, anzi due o tre puntini messi uno a fianco all’altro. Dalla strada non si vedono, io non li ho mai visti, eppure ci sono, lungo tutto questo litorale, puntati verso il cielo, tra la terra e l’acqua per raccogliere un poco di energia solare.

Poi c’è il pontile lungo un chilometro, quello di Bagnoli. Ci passiamo sotto. A vederlo da vicino sembra di avvicinarsi sotto la murata di una nave dei pirati, un uncino pende appeso a una catena, come la mano del capitano cattivo. Un altro pontile subito dopo. Alla punta c’è un uomo. Allargando lo sguardo la linea prospettica è una: parte dall’interno, ci sta la fabbrica con le ciminiere, una, due, tutte su una linea, spuntano dal verde e da muri screpolati, scavalca barriere diventando linea di binari sopra una fila obliqua di mille pilastri verticali e arriva fino a qua, fino a questo ragazzo, in piedi, sull’ultimo pezzo di balcone che regge in mano un’altra linea sottile da cui parte un filo trasparente che finisce in acqua. Tutto ‘sto casino, tutte ‘ste costruzioni complicate grigie costose inquinanti, per poi ritornare umili sottili trasparenti a mare.

Poco dopo c’è un terzo pontile, più basso, qui non si può passare sotto a meno che stamattina non c’avete un sommergibile. Ai lati si vedono ancora appesi i parabordi per far attraccare le navi, stanno messi in croce, sembrano enormi morbidi ideogrammi giapponesi. E anche qua c’è un puntino, con la maglietta rossa, con la canna antenna per captare qualcosa da sotto la superficie.

Poi spuntano sull’acqua i giovani dell’ILVA. Vogano su tre barche da canottaggio, si allenano. La fabbrica l’hanno chiusa e smantellata negli anni ’90 eccetto poche cose di archeologia industriale, il circolo invece è ancora vivo, e continua a remare. La prima barca a vela, oggi ne vedremo poche.

Ed ecco Nisida. Un pezzo deve essersi staccato un giorno, uno spicchio sottile e altissimo, lo chiamano lo Scoglio di Ponente ma potevano chiamarlo Faraglione.

Nisida è un vulcano con al centro l’acqua, un vulcano di mare. Dentro c’è la barca della Polizia Penitenziaria, oggi è il 2 giugno, non si entra neppure con le canoe, due li vediamo uscire quando passiamo.

Allora andiamo verso terra, per passare sotto il ponte che collega quest’isola a Bagnoli. Avvicinandoci ci vengono incontro quelli che in barca cominciano ad uscire. I pontili galleggianti che allestiscono qui d’estate sono già pieni, ed a quest’ora i motoscafisti girano la chiave, rotta su Procida, tutti sincronizzati. Se avete visto la tangenziale alle otto della mattina allora è come se ci foste stati.

Il mare per noi col gommoncino sembra quasi agitato, ogni tanto dobbiamo stare attenti a prendere bene le onde: oggi non c’è vento, le fanno i motoscafi.

A metà ponte si trova un arco basso. Per farlo non hanno usato blocchi sagomati a cuneo ma mattoni sottilissimi, magri e tantissimi in modo che nessuno di loro si accorgesse che stava curvando. Ci passiamo comodi e siamo oltre Nisida, prima di Trentaremi.

Un pescatore sta fermo nella barca più piccola del mondo. Sembra una di quelle che usano nei ristoranti come ornamento, per fare scena con dentro le reti e i gusci di conchiglie. Lui l’ha prelevata e l’ha messa in acqua, pure il motore è piccolo e sembra occupare metà dell’imbarcazione.

In alto si vedono i pini del parco Virgiliano, sotto una spiaggia con sopra le persone. Una galleria dal mare verso l’interno, scavata dentro la montagna gialla e col rivestimento in cemento, con l’impianto elettrico e una balaustra di ferro a chiudere. Chi sa al Virgiliano cosa ci sta sotto.

Siamo a Trentaremi, quasi alla Gaiola. Compare un gruppo folto di canoe. Sono pure in tanti ma non danno fastidio. Sono piccoli e si guadagnano onestamente, a braccia, ogni metro di panorama.

Navigano davanti a tante aperture nella roccia di tufo, alte, squadrate. Appartenevano alle strutture della villa Pausilypon. Quella costruita da un ricco romano e che era così bella che dopo la sua morte passò addirittura all’Imperatore.

Alla Gaiola un arco congiunge i due isolotti. È così sottile che sembra disegnato. Sotto ci entra esattamente la chiesa di Santa Maria del Faro.

Dopo un po’ dall’acqua sorge una casa vecchia, sembra una costruzione abusiva. No, un momento però, ha i muri romani. Altro che casa abusiva, è ancora un pezzo della villa dell’Imperatore. Lo chiamano Palazzo degli Spiriti.

In basso c’è una finestra murata. Dentro c’è un buco e mentre passiamo vediamo entrare dei ragazzi. Su questo palazzo ci sono varie leggende: alcune la legano alle arti stregonesche di Virgilio mago, altre a una zecca clandestina di falsari turchi che per tenere lontani i curiosi appendevano teli bianchi alle aperture come lenzuola di fantasmi.

Sullo Scoglione c’è la gente sulle sedie sdraio. E c’è pure una barca gialla, attraccata allo scoglio, che fa da ristorazione: “Chiosca Carolina” (il nome è una licenza poetica, tutto al femminile).

I lettini di alcuni stabilimenti famosi, sulla costa di tufo, sono così in pendenza che per dormirci bisogna aggrapparsi. Parecchi sono vuoti: qualcuno si sarà addormentato sul serio.

Ecco villa Rosebery, una delle tre residenze del Presidente della Repubblica Italiana. Ha l’attracco riservato dietro la scogliera e un uomo sta di guardia lungo il muro grigio. Sembra di risentire la storia antica dopo pochi metri: come quella di Pausilypon, anche questa villa, costruita da qualcun altro, finisce in mano al comandante in capo. Evidentemente lungo questa costa c’è così tanta bellezza che chiunque può ci viene ad abitare.

Passando oltre incrociamo una barca di quelle che si affittano a Santa Lucia, la riconosciamo dai colori e dal numero 1, si chiama “Miez’ juorno”. A bordo ci sono solo due persone, sembrano marito e moglie forestieri avventurosi in barchetta a percorrere tutto il golfo.

Per passare davanti a questa scogliera in sicurezza, dice la nostra guida, poiché se si sta all’interno dello scoglio di Pietra Salata il fondo è basso , bisogna rispettare una regola segreta: navigare tenendo allineati nella visuale quella cupola enorme laggiù e il grattacielo che spunta dietro: il Jolly Hotel e S. Francesco di Paola.

Si vedono ancora persone su ogni scogliera, piccola o lunga, sotto ogni palazzo. Sono frequentissimi e pochi, solo due o tre per volta, quelli che sotto casa hanno la discesa a mare personale: padre e mamma col neonato in braccio appena fuori da un cancello altissimo, una coppia di signore prende il sole alla fine di un pontile chiuso, un signore bello rotondo sta indeciso sopra una scaletta che finisce in acqua.

Siamo a Riva Fiorita. Qui girano la famosa soap opera napoletana, e stamattina abbiamo un perfetto posto all’aria ma da pochi minuti si è velato il sole.

Un cantiere navale sta dentro una grotta con la stessa forma dell’antro della Sibilla cumana. Ha due ingressi, lontani, collegati da un vano lungo, tutto dentro la collina. Fuori ad ognuno c’è lo scivolo per far salire e scendere le barche.

Poi arriviamo nel posto di oggi, quello che aveva dato l’idea a tutta questa escursione. Volevamo vedere la fontanella, anzi la sorgente che con un tubo porta l’acqua minerale a chi naviga, direttamente sulle barche, senza che scendete. Dentro il porto privato di villa Lauro ci sono già quattro o cinque barche, ed ecco la sorgente. Prendo l’acqua dentro la borraccia e sento che diventa fredda man mano che si riempie. È fresca, ha il sapore leggermente frizzante, pochissimo, solo un accenno, sembra la nonna della Ferrarelle, che ha perso lo smalto giovanile ma è molto più sottile.

Ci allontaniamo tre metri dalla banchina e buttiamo l’ancora dentro l’acqua bassa. Arriva una gozzo di legno che porta due turiste a bordo. Uno dei marinai scende a prendere l’acqua anche lui. Se non lo sai questa fontanina neppure la vedi: è solo un tubo, nuovo di acciaio inox. La lastra di marmo c’è ma la scritta è volata. I gabbiani la conoscono, uno atterra per bere. Ogni volta fa una sorsata col becco e poi alza il collo per farla scendere.

E finalmente, fermi all’ancora, dentro questo porto piccolissimo e tranquillo, addentiamo il panino con le polpette al sugo. Il signore del chiosco Carolina quando l’abbiamo comprato non ci poteva pensare che non ci volevamo pure il contorno: “Peperoni, funghi, neppure melanzane?”

Dentro villa Lauro il signore della barca a fianco, mentre i figli e la moglie stanno a prendersi il sole, sta immerso in acqua fino all’addome e raccoglie la cima dell’ancora con infinita calma, saggio, si vede proprio che lui qui c’è venuto solo per fare questo.

Un pontile corto, squadrato, familiare e dietro una scalinata nota, S. Pietro ai due frati, quella che abbiamo fatto a piedi poche settimane fa scendendo da via Manzoni lungo Salita Villanova oggi la guardiamo dall’altro lato.

Un altro cantiere navale, sembra in funzione, o forse sono solo barche che stanno a deposito invernale, sta scavato nel tufo. Dovrebbe essere il “Cantiere Navale Marina di Posillipo” di cui avevamo visto l’insegna lungo la strada omonima, scendendo a piedi dopo Villanova e sembrava del tutto chiuso, morto, finito.

Il nostro amico a un certo punto fa segno verso la costa verso un palazzo giallo, poco più in alto del livello del mare, sulla linea obliqua di via Posillipo. “Li abitavo io. Scendevo da casa passando dentro il palazzo di un mio amico e arrivavo sulla spiaggia; scendere per il palazzo delle monache era pericoloso, se ti acchiappavano ti facevano nuovo.

Da lì a nuoto fino a villa Lauro, giocavamo a “scannapopolo” per tutta una giornata, un misto di calcio e pallanuoto: a calcio quando eri sulla spiaggia, poi pallanuoto nell’acqua in mezzo, e di nuovo calcio quando eri sull’altra sabbia da quell’altro lato. Chi era stanco cedeva il posto a un compagno. “Scannapopolo” perché c’era una sola regola: era che qualunque cosa si poteva fare”.

Poi un po’ più avanti, davanti a villa Martinelli: “Qua, lo vedi? mettevano le porte galleggianti. Potevi giocare a pallanuoto con chi c’era. Una volta stavo tirando a porta, aspettavo il momento che il portiere scendesse dopo ch’era salito per parare il colpo. Io aspettavo e lui non scendeva mai, aspettavo ancora, ma lui era più forte”. Era Mario Scotti Galletta, il portiere della Nazionale.

Palazzo Donn’Anna, il palazzo che da terra non siamo mai riusciti ad entrare. Dal balcone all’angolo Raffaele La Capria, lo scrittore, diceva che si tuffava direttamente in acqua, era il balcone di casa. La nostra guida di oggi dentro il palazzo ci teneva la barca. “Sul lato destro guardando verso terra c’è quell’apertura. Lì si entrava o si entra e dentro c’era uno spazio enorme, la sabbia e decine di barche”.

Poi: “Lo vedi quel palazzo rosso? Mio fratello aveva la fidanzata che abitava lì, la veniva a prendere con la barca da quella scaletta”. Uah bellissimo, Venezia col Vesuvio, ci viene da pensare.

Sono storie che mischiano acqua e terra, poveri e ricchi, lungo una linea poco definita, mista, un bagnasciuga di coabitazione.

Più avanti c’è il Circolo Posillipo, stamattina ci sono i soci anche loro a prendere il sole sopra la scogliera e i figli alla nostra destra, poco lontano, che si allenano con l’istruttore ad andare a vela su barche piccole e veloci girando attorno alle boe.

Altri pochi metri e c’è largo Sermoneta, e il porto piccolissimo. Posillipo è disseminata di questi piccoli ridossi. Dentro ci sono le famiglie sulla spiaggia con gli ombrelloni e i ragazzi che saltano tuffi. Saluto la nostra guida di oggi, lancio le scarpe a terra e metto il piede sulla banchina di pietra.

I ragazzi giocano a prendersi in giro e una ragazzina risponde a un altro, sveglia, tranquilla, aguzza: “Sono dei Quartieri”.

La sensazione, tornando a casa, è di avere navigato lungo una linea porosa, lungo una spugna di tufo, metà acqua metà solida; come la salsedine, che non è liquida ma neppure sale.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)