BELLEZZA ALL’ALBA (3) – Sul monte Faito: escursione alla Croce della Conocchia

30 agosto 2018

Partiamo pure oggi alla ricerca di un poco di bellezza di mattina presto. Dopo Ieranto e il monte Epomeo, oggi andiamo a cercarla sui monti Lattari, quelli che percorrono tutto l’interno della penisola tra Sorrento e Amalfi.

Esattamente non sappiamo se è prestissimo della mattina di oggi o è tardi della scorsa notte. In autostrada traffico zero; sarebbe uno dei giorni di rientro dalle vacanze, da bollino nero, ma forse proprio con questa confusione temporale di date ci siamo smarcati. A Castellammare quasi saltiamo l’uscita tra sorpresa che già ci siamo ed eccezionale vista di notte.

Vico Equense dorme; e si inizia a salire. L’aria comincia a diventare fresca.

Siamo già un poco in montagna e… Ua’ che bella luna, è quasi piena e ha un colore caldo, sta per tramontare. ‘A facimme na fotografia? Appena finisco di dirlo compare una piazzola di sosta.

Se guardate la foto c’è una luna che lascia sul mare nero una striscia rossa. Siamo partiti per vedere bellezza all’alba del sole e per adesso fotografiamo un bellissimo tramonto del suo astro opposto.

Sul muro davanti ai fari dell’auto c’è un cuore grosso con scritto Per sempre, data 21/02; chi sa mo che scrivono, per chi e dove; speramme bbuone.

Continuiamo a salire lungo il fianco del monte, su un tappeto esattamente color asfalto tra due strisce bianche.

Sopra al Faito le macchine ci sono. Il villaggio è pieno. Forse questo posto si sta riprendendo. Saranno le ferie d’agosto, il caldo delle quote basse o la funivia dopo anni in funzione, si sta rianimando un luogo che raramente abbiamo visto abitato così fitto.

Poi si inizia a guidare in mezzo al bosco.

Arriviamo allo slargo sterrato dove si lascia l’auto per iniziare a camminare, ma è talmente presto che il buio è quasi perfetto adesso che la luna è bassa e non riesce a illuminare, e senza torcia non è il momento giusto. Allora saliamo altre due curve fino alla chiesa che sta proprio qui sopra; è San Michele Arcangelo, riaperta, dopo tre anni di restauri, a fine luglio scorso.

Il piazzale a fianco è ultra panoramico: appena uno scende dalla macchina viene preso dal freddo. Inimmaginabile da casa a Napoli ad agosto, meno male che la maglietta a maniche lunghe ce l’eravamo portata pur senza crederci del tutto; sta nello zaino e mo serve eccome.

Nella luce blu ci sono due sagome nere di monti: una somiglia ad un dente canino, triangolare, a punta, l’altra, squadrata, pare proprio un molare. Sono i nomi popolari di queste due montagne sopra al monte Faito: la seconda è la vetta più alta dei lattari ed il suo nome ufficiale è Monte Sant’Angelo (1444m slm), l’altra è il suo fratello appuntito, all’anagrafe montana è registrato come Monte di Mezzo.

Lo sfondo inizia ad andare nel rosso, il sole piano piano si fa notare.

Sul muro qui a sinistra, sotto la chiesa, c’è una parete di ricordi. Nomi di montanari e non, che amavano venire in questi posti in cerca di rifugio. Tra i nomi c’è quello di un signore che abbiamo conosciuto quando ancora andava per monti: era un uomo magro magro, silenzioso; lo avevamo incontrato dentro castel dell’Ovo, la sede bellissima del Club Alpino Italiano di Napoli, a mare. Be’ se stamattina sto qua lo debbo sicuramente anche a questo signore: è sua in gran parte la cartina che tengo nello zaino e anche l’ispirazione che animava chi per la prima volta, molti anni fa, mi ha portato qua sopra; allora lo citiamo, si chiamava Manlio Morrica.

Poi saliamo le scalette verso la porta della chiesa. E un altro Ua’ ci scappa quasi: ci avviciniamo in silenzio, si intravedono le sagome di un uomo col bastone e di uno con la mitra dei vescovi che parlano con un terzo addirittura con le ali; siamo capitati a disturbare un conciliabolo di santi. Questa chiesa è legata a San Michele Arcangelo, Sant’Antonino e San Catello: sono loro che si staranno consultando sugli ultimi lavori di restauro della chiesa nata qui sopra dalle loro mani.

C’è silenzio quassù. Lo sfondo è blu con strisce di rosso e rosa; in mezzo al nero in basso ci sono le luci gialle delle case. Da un lato si vede pure la nostra montagna di fuoco cardinale, e una statua della Madonna accerchiata da tralicci enormi. Ha le braccia aperte e pare provare a parlare a queste antenne che pensano di essere loro i veri emettitori moderni di segnale.

La luce adesso è sufficiente per iniziare a camminare. Allora scendiamo di nuovo le due curve, parcheggiamo e stavolta davvero si parte. Il numero del sentiero è 350 e coincide per un tratto col sentiero 300, cioè l’alta via dei Lattari: una strada solo per camminatori che va da Cava dei Tirreni fino a punta Campanella, 90 chilometri tra le montagne.

Noi stamattina ne percorriamo un piccolissimo pezzetto, vorremmo andare sul Canino, da tanto tempo non ci siamo andati.

Il percorso comincia benissimo, senza fatica, scendendo. Una vasca da bagno raccoglie l’acqua della Sorgente Scorchie per far bere le capre. Fresca, se vi siete scordati l’acqua, qui la potete prendere.

Dopo poco il sentiero diventa pianeggiante, poi in lievissima salita. Ci supera un gruppetto di persone: l’ultimo della fila ha sulle spalle un cestino agganciato ad un bastone. Per raccogliere i funghi ci vuole quello: così le spore riescono a passarci attraverso per tornare al terreno e far nascere altri funghi.

È una roccia a strati, calcarea, a tratti pare di camminare sopra una torta millefoglie. Se state attenti mentre camminate ricompare ogni tanto in alto la sagoma precisa dei due denti.

Terzo Ua’ della giornata: il sole sta sorgendo, sbuca da dietro montagne e nuvole in lontananza; una scintilla vivissima aguzza affilata rossa.

Ci fermiamo ad ascoltare finché non diventa un disco completo. Poi riprendiamo a camminare. L’aria fresca adesso è più rossa.

Sulla destra c’è un’altra sorgente. Questa è più bella perché esce da un pezzo vecchio corto di tubo metallico e gocciola sua una tavola di legno per poggiarci il secchio. Si chiama sorgente Acqua Santa. A fianco al tubo, se ci fate caso, sopra al muschio, crescono piccole piantine con le foglie aperte. Sulle foglie ci sono puntini neri: sono piante carnivore con sopra povere formiche appiccicate. È la Pinguicula crystallina, o erba unta amalfitana.

Poi se ci fate caso ogni tanto vedete una conca nel terreno, molto regolare, qualche volta magari al centro adesso c’è cresciuto un faggio, però una volta questi fossi li usavano per fare il ghiaccio. Ci ammassavano dentro la neve presa tutta intorno alternandola a strati di foglie. Poi la coprivano di terra per farla conservare fino ai mesi caldi, quando portavano a valle i blocchi per il beneficio di chi poteva comprarlo.

Dopo un po’ il sentiero fa una curva. Seguendola verso destra si andrebbe sul Molare, ma noi stamattina vorremmo vedere il panorama dalla punta del monte Canino, e allora andiamo dritto. Pochi metri e un cartello inchiodato ad un albero ci ricorda che quello che viene è un sentiero pericoloso. Lo sapevamo ma lo abbiamo fatto in passato, molto tempo fa, oggi siamo curiosi di andarlo di nuovo a trovare.

La prima parte è molto bella, non so esattamente la causa, forse perché è poco percorso, o sarà l’aria e la luce di questo momento: per qualche secondo non sembra di camminare davvero ma di stare dentro le immagini di un libro che parla di montagne. La traccia a terra a tratti è abbastanza battuta, allora il sentiero è ancora percorribile, ci viene da pensare. Poi dopo un po’ la stessa traccia diventa meno marcata, solo un lontano ricordo di passaggi.

Ecco il punto dove c’è una specie di scalinata naturale. Era uno dei punti dove stare attenti. Iniziamo a scendere, in mezzo alle piante sugli scalini, col frusciare delle lucertole nell’erba secca, disturbate mentre prendono il primo sole. Facciamo pochi metri però poi il mio compagno di viaggio, che oggi c’ha un ginocchio non in grande forma, pensa che per stamattina forse non è cosa. E gli diamo ragione. Il sentiero è impegnativo, se uno sta al meglio si può fare forse, ma con qualche dolore è meglio ritornare. Una delle cose belle che insegna la montagna è a capire che a volte ci si può pure arrendere, anzi che al momento giusto farlo è la migliore vittoria.

E sì, e allora cambiamo programma: ce ne andiamo a vedere il sole sulla cresta, andiamo alla croce della Conocchia, da dove si vede in un colpo solo tutta l’ultima dorsale di questa catena che con un piccolo salto arriva fino a Capri.

Torniamo all’ombra nel bosco di faggi che dà il nome al Faito intero. Si prende la curva che avevamo tralasciato e poi trovate scritto tre volte Conocchia in segnali vecchi e nuovi nello stesso posto.

Uau di nuovo quando compaiono li Galli tra le pietre del bosco. Si cammina un altro poco e ci sono altre antenne vicino a una casupola. Sembra tutto in disuso. Tenete presente quando l’antennista sopra il vostro terrazzo vi dice che da casa vostra si prende meglio il segnale del Faito e non quello dell’eremo dei Camaldoli? Ecco, ci piace vedere la televisione, però poi se andate su queste montagne trovate un sacco di ferro in tralicci e antenne senza più motivo. Forse una bella ripulita di questo ferro inutile sarebbe una bella missione.

Si cammina un altro poco ma non è faticoso perché è quasi in piano, e poi i polmoni, tutto il corpo, stamattina sembrano contenti: st’aria pulita e fredda dopo il caldo mette tutto in funzione.

Ecco la croce, è di ferro, tenuta da tiranti. Molti anni fa era piegata dal vento. In questo istante ha la stesso luccichio del sole. Questa è la fine della camminata di oggi.

Stamattina ci sono un poco di nuvole, lì in fondo Capri si immagina quasi soltanto ma non ce n’è davvero bisogno, perchè la bellezza oggi su questa montagna sta ad ogni centimetro di distanza, si sente lungo tutto il percorso. Ci fermiamo a sedere su un pezzo di roccia al sole, si sta meravigliosamente a respirare soltanto.

Poi si inizia il ritorno.

Un po’ più in basso sento un fruscio e intravedo un signore. Dopo un minuto lo incontriamo. Ha il gilet e i pantaloni lunghi, il bastone con la torcia nel manico per camminare di notte, i baffi e la barba che stamattina non s’è voluto fare, doveva svegliarsi troppo presto per andare a funghi. È la prima cosa che ci dice quando lo incontriamo: funghi oggi non ce ne stanno tanti, chi sa forse è il fatto che il bosco non è più molto pulito, a terra ci stanno un sacco di tronchi. Aggio truat sulamente questi due aglietielli, accussì e chiammammo. E tira fuori dalla tasca tre o quattro funghi gialli con le lamelle grandi. Gli chiediamo di vederli, dentro il loro odore ci sta tutto un bosco.

Poi ci viene un dubbio: mo chi sa se, in questa stagione di funghi che ci sembra davvero eccezionale per abbondanza, lui ci ha detto la verità o semplicemente difendeva il territorio di caccia dagli intrusi.

Ci chiede da dove siamo saliti: ah sì nuie a chiammammo a porta e Faito. Lui abita qui sotto e da come ce ne parla sembra che i sentieri siano come le autostrade, a lui andando a piedi qua sopra non servono, non servono tracciati per percorre un posto che è come le vostre tasche. Salutiamo e riprendiamo a camminare in questa mattinata che ci sembra calmissima.

Ancora fresco, profumi, idee buone, ci regala questa montagna stamattina. Camminare oggi non pesa, anzi solleva.

Poi in auto di nuovo verso valle. Solo prima una sosta al bar panoramico nel villaggio qui sopra. Ci piace scambiare due chiacchiere e dare un piccolissimo contributo all’economia di quelli che lavorano in alto, lontani dalle città, a quelli che si sforzano di stare un poco più vicini al cielo; il caffè e i dolci sono ottimi. Poi il ritorno a valle, nel tepore di agosto.

Se avete voglia di fresco di montagna non lontano da casa, il Molare, o la Conocchia sono un buon posto, si cammina meno di un’ora ad andare, altrettanto a ritorno. Se non andate all’alba potete arrivarci addirittura senz’auto: in circumvesuviana fino a Castellammare e poi da lì in funivia. Prima di andare guardate le previsioni del tempo e la cartina del percorso, attrezzatevi un minimo, ricordatevi di lasciare il posto come l’avete trovato o più pulito di prima, e poi buona escursione.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BELLEZZA ALL’ALBA (2) – Sulla vetta dell’isola d’Ischia: il monte Epomeo

11 agosto 2018

Nella prima di queste passeggiate all’alba eravamo andati alla baia di Ieranto, una piccolissima spiaggia all’estremità sud del golfo d Napoli. Stamattina andiamo a nord, all’altra estremità dello stesso golfo, e non andiamo in spiaggia ma su una vetta, piccolissima pure: a Ischia, sul monte Epomeo.

Se a Ieranto c’è chi dice che vivessero le Sirene, l’Epomeo è la punta di un vulcano sommerso. Ma non un vulcano qualunque. Secondo i greci antichi qui sotto c’è imprigionato Tifeo, l’unico essere che sia riuscito a catturare Zeus, il padre di tutti gli dei.

E poi le vette hanno un fascino forte e i vulcani sono posti potenti. Il suo nome sembra che derivi dalla parola epopào = luogo dal quale si vede intorno: in sostanza il panorama, arrivati in cima, non dovrebbe mancare. Allora se siete disposti a svegliarvi presto pure stamattina, diciamo poco dopo le cinque, quando appena appena il cielo si sta facendo chiaro, iniziamo.

C’è ancora mezza luna sospesa in alto, sopra al balcone della casa da cui scendiamo, e un accenno di alba sullo sfondo della luce di lampadina della casa di fronte.

Siamo a Fontana, il Comune più alto dell’isola d’Ischia: è da qui, proprio dalla piazza principale, che parte la stradina (poi diventa, più sopra, sentiero) che porta, in meno di un’ora, sulla vetta dell’isola.

All’inizio, adesso, si sale ripidi su una piccola strada asfaltata, via dell’Epomeo, a doppio senso, dove una macchina sola ci passa solo se stai molto attento. La salita in totale non è molta: tre chilometri; il dislivello per arrivare ai 789 della vetta, circa quattrocento metri.

Dopo un po’ incrociamo un’altra strada, sempre asfaltata, più larga, viene sempre da Fontana ma un po’ più in basso della piazza del paese, le due possibilità di salita qui diventano una quindi non vi preoccupate, non dovete girare da nessuna parte, dovete solo continuare in salita.

A destra e a sinistra fino ad ora c’erano case costruite una azzeccata azzeccata all’altra, adesso si allargano a ville. Qua sopra l’aria è fresca, e non solo adesso che è mattina presto: rispetto a giù, a uno qualunque dei Comuni a livello mare di quest’isola, ci saranno almeno cinque gradi in più di fresco e di calura in meno.

Saliamo piano, con calma, proviamo a seguire lo stesso ritmo della luce che non aumenta molto, mantiene solo in cielo delle striature di rosa leggere.

Quando passiamo vicino, sopra, a una di queste case, parte da dentro al giardino come un suono di galoppo attutito: attratto dal fruscio vedo con l’angolo dell’occhio la corsa del cane della villa sotto. Hmmm, se abbaiava era meglio, sta solo correndo, senza fiatare, non mi pare un segno buono. Vabbuo’ verimme che succere, se il cancello è aperto, se arriva fino a qua e cu’ quale genio.

Lui nel frattempo è un movimento rapido, il galoppo sul terreno mo è un graffiare di zampe sull’asfalto liscio: ci raggiunge correndo, ci supera, arriva al bordo della strada, fa na specie di giravolta e ci ritorna incontro, si solleva in corsa e me mette e zampe ncuollo a modo di saluto.

Fiuuuu, tutt’a posto. Se siete curiosi lo vedete nelle foto: è un bel cane, rosso fulvo, abbastanza grosso, tiene collare e tutto; adesso noi camminiamo e lui insieme a noi avanti qualche metro.

Tutto sembra andare per il verso giusto, tanto che adesso un cartello già dice che i chilometri non sono più tre ma soltanto uno e mezzo. Non sappiamo se crederci, ci sembra troppo presto ma forse l’alba ci aiuta ed è vero che abbiamo già camminato metà percorso.

Il cane nostro continua a seguirci, evidentemente aveva molta voglia di camminare stamattina e, appena sveglio, il primo che passa, si sarà detto, lo abbraccio e lo seguo fino in capo al mondo. Ogni tanto, cioè quasi sempre, va avanti, però poi si ferma e ci aspetta; se non ci vede arrivare gira indietro la testa. Poi appena siamo a tiro riprende il trotto, annusa qua e là l’erba ai bordi della strada, qualche volta marca il territorio e la umidifica un poco.

Andiamo più avanti e incontra qualche amico. Il paese è piccolo, sono quattro gatti, qua si conoscono tutti ed evidentemente, dal fatto che non abbaiano per niente, si capisce che pure i cani molti non sono.

Arriviamo ad un altro bivio, andando a destra si arriverebbe dopo poco ad una postazione militare e non si potrebbe proseguire oltre, a sinistra invece si sale verso la cima del monte. Proprio al bivio, in mezzo a queste due scelte, c’è il primo punto di ristoro di questa camminata, però è ancora troppo presto e quindi il caffè se non ve lo siete già preso a casa non c’è altro modo.

Proprio sotto l’insegna del bar c’è una vecchia foto con un uomo su un asino e la vetta della montagna sullo sfondo. Fino ad un po’ di anni fa si saliva col ciuccio: trovavate dei contadini, d’estate, che vi chiedevano se per caso non avevate voglia di salire comodi, e mentre voi stavate in sella magari loro pure, accompagnandovi, si tenevano alla coda per non stancarsi troppo.

Oggi gli asini non ci sono, però credo che se chiedete potete salire a cavallo. Salendo ancora qualche minuto infatti passiamo davanti ad un altro punto di ristoro: a destra c’è la casa, e fuori, anche adesso che è chiuso, c’è un cestino dal quale potete prendere in prestito un bastone per fare la salita. L’unica cosa che vi viene chiesta è di restituirlo a missione finita. Di fronte, sul lato sinistro della strada, oltre un cancello di legno si intravedono le stalle. Sulla parete di tufo verde hanno intagliato a bassorilievo la testa di un cavallo.

La strada, di cemento, comincia a farsi un po’ più stretta e dissestata, sono le fasi successive per trasformarsi poi in sentiero. La vegetazione si fa sempre più vicina e fitta.

Sulla destra un altro punto di sosta, sembra un rifugio alpino per le linee del tetto e i tronchi interi usati per costruirlo. A fianco, per completare il paesaggio di alta montagna, ci hanno piantato pure tre abeti.

Finalmente finisce il cemento, da qui in poi si cammina nel bosco, sul tufo polverizzato sceso dalle pareti di roccia verde di lato.

Dopo poco c’è un bivio nel sentiero; strano che non sia segnalato da nessuna indicazione. Il nostro cane è andato a sinistra e ci sta aspettando, a destra di sicuro si va sulla vetta; però a pensarci se non c’è un cartello e se il cane va dall’altro lato, forse semplicemente o sinistra o destra poi ci si ricongiunge sullo stesso percorso. E allora andiamo appresso al cane.

Di sicuro questo lato è più panoramico, si apre una grande vista sul mare dall’alto.

Sull’acqua c’è la striscia rosa che il sole fa sul mare a quest’ora. Ma no, no; guardando meglio è l’ombra di una grossa nuvola bianca verticale, colorata dal sole che oggi qua ha deciso di giocare di sponda.

Le felci delimitano il bordo del sentiero. A destra invece è un bosco di castagni. Compare pure la Pietra dell’Acqua, proprio davanti in fondo. I due bracci camminano paralleli, poi però ci pare che si inizia a girare troppo distante: la cartina dei sentieri l’abbiamo lasciata a casa, in giro qua sopra non c’è a chi chiedere, forse ci conviene ritornare indietro. Sì, ritorniamo sui nostri passi, ancora segnati nella polvere di tufo. Il cane escursionista ci segue pure.

Torniamo al bivio e prendiamo l’altro sentiero. Qui il percorso diventa sempre più bello: è un tappeto giallo-verde chiaro, scavato dai piedi, dagli zoccoli dei muli e dall’acqua di ogni pioggia dell’anno. Ai lati è abbracciato dal verde del muschio e delle piante che cresce sulla roccia di tufo, verde, non gialla: è il segno distintivo, il vezzo di indipendenza di quest’isola per ricordarci che non siamo a Napoli centro, che qui il mare bagna di sicuro il posto perché in questo posto quella roccia vulcanica che nasce gialla poi, stando immersa per secoli, ha cambiato colore.

A tratti sotto i vostri piedi potete trovare addirittura dei piccoli gradini bassi, scavati dai contadini dell’isola per evitare di scivolare con la pioggia a chi ha due zampe o quattro. Le pareti sono vicine, alte, tolgono un poco di luce ma aumentano l’abbraccio del bosco.

Dopo una svolta ecco il tratto finale: la vetta si intravede a qualche centinaio di metri in alto in fondo, e adesso si cammina come fareste su uno scoglio, non c’è più polvere di tufo ma una roccia grossa uniforme compatta, sempre coi solchi di chi ci passa da secoli: siamo su un largo monolite asciutto.

Tre cartelli dei sentieri ci informano che da qui è possibile andare a piedi fino a Forio, o a Santa Maria al Monte; che da Fontana finora sarebbero dovuti passare circa 40 minuti e che alla vetta finale di minuti ne mancano cinque.

Da qui il sentiero diventa a tratti molto stretto: è un canale di acqua dove i piedi non c’entrano uno a fianco all’altro, ma se dovete camminare il prossimo piede tanto lo dovete mettere avanti.

Sulla destra una porta di legno, pure questa ancora chiusa, porterebbe al bar ristorante che sta proprio in vetta. Il sentiero comunque sale anche senza passarci dentro.

C’è ancora una cosa curiosa prima della punta. Un campanile imita, appena sotto, uno spuntone di roccia. È la chiesa di San Nicola, ha soltanto la piccola facciata costruita, tutto il resto è scavato nella tufo, sta qua già da prima del 1459.

Ci affacciamo dai vetri della porta: il pavimento è bellissimo di riggiole consumate dai passi. Dello stesso identico verde di tutta quest’isola: è come se lo avessero preso da qui per dipingerla tutta. Dentro i banchi sono talmente semplici che sono diventati sedie di legno. Qui su si era venuto a ritirare un uomo d’armi, il reggitore del presidio militare dell’isola Giuseppe d’Argouth, nel ‘700. Era scampato a un agguato vicino a questa vetta e tenne fede al voto fatto per salvarsi di restare qui da vivo visto che non c’era morto. Le celle del monastero stanno dietro la porta a sinistra guardando l’ingresso della chiesa. Fino a qualche anno fa potevate dormirci. Ora sembra che quelle piccole stanze ricavate dentro il cuore del monte siano chiuse, aspettando una nuova gestione. Se siete fortunati però e ci capitate nei giorni in cui ragazzi del servizio civile le tengono aperte, potete almeno visitarle, insieme alla chiesa. Il bar più sopra, proprio vicino alla cima, invece funziona, ma solo se non ci andate come noi di notte.

Continuiamo a salire, ormai manca proprio poco. Ecco spuntare da un’altra recinzione di campagna un nuovo compagno a quattro zampe. Sembra la copia un po’ più anziana del nostro: stessa taglia, colore, solo non ha collare, è un po’ più sporco e quando camminate non si sposta davanti.

Comune di Serrara Fontana: Attenzione pericolo di caduta per fondo sconnesso e sdrucciolevole ricorda il cartello nuovissimo poco prima degli ultimi metri. Ci affacciamo sull’ultimissimo tratto ed ecco un’altra sorpresa buona: una balaustra protegge l’unico pezzetto che era un poco rischioso di tutto questo tragitto. Si sale una scalinata corta di scalini intagliati, scansando i cani che si fermano davanti e siamo, adesso, davvero arrivati.

Siamo sulla vetta, in piedi dentro un metro quadrato scavato, con le panchine naturali e il parapetto, tutto di tufo. Praticamente siete su quel piccolissimo cocuzzolo che vedete pure da Napoli, quella punta che in fondo al panorama segna con la sua sagoma precisa il fatto che quella è Ischia, l’isola lontana grande. Lo si vede da molte parti della città, adesso ci siete seduti sopra.

A pensarlo che è così piccolo viene un poco di paura. Si sta seduti su una specie di vertigine, forse perché dovunque ti giri il panorama comincia a pochi centimetri, massimo un metro: fa un gradino in basso lungo un piccolissimo spicchio di vigne, un secondo sopra un grande bosco e poi sprofonda vuoto verso la costa.

Le case da qui si vedono solo in fondo. Qui su venivano per rifugiarsi dalle incursioni dei saraceni; mo che i pirati stanno soprattutto in alto loco, le case sono scese vicinissime al mare.

Affanna con la lingua da fuori, a un certo punto respira molto veloce, forse si è addormentato e sta sognando, il nostro accompagnatore di questa escursione. Ma appena faccio un mezzo movimento che somiglia a uno che si sta alzando lui si sveglia all’istante, apre gli occhi ed è pronto a scendere. Ma io mi stavo solo muovendo, sì in realtà avevo pensato di scendere ma come si fa ad andarsene da qui così presto? Restiamo ancora a guardare lontano. Stamattina ci sono un po’ di nuvole in giro altrimenti si vedrebbero Ponza e Ventotene. Di sicuro si vede quasi il cento per cento della costa dell’isola: Lacco Ameno è facile da riconoscere perché ci sta il fungo, Casamicciola quindi è quella a destra a fianco, se ne vede giusto il braccio del pontile esterno. Forio con la chiesa del Soccorso. Poi c’è tutto il lato che guarda verso il continente: Procida sta qua sotto, Monte di Procida nella foschia in fondo.

Si sta freschi in questa sedia altissima; seduti in bilico sulla vetta del mondo.

Ora iniziamo a scendere. La luna si vede ancora ma senza bagliore. Adesso è il turno del sole e noi torniamo nel mondo più in basso. Con la nuova luce ci accorgiamo che i ricci delle castagne stanno già sui rami, che pure capperi e more crescono lungo il bordo del percorso.

Se state in vacanza a Ischia, avete voglia di un po’ di fresco e di guardarvi intorno, bastano un paio di scarpe da ginnastica e fare il primo passo, poi questo sentiero vi condurrà da solo.

Se poi volete sapere la fine della storia: il cane ci ha accompagnato anche per tutto il ritorno. Ci ha aspettato fino al punto esatto in cui stamattina ci aveva rincorso.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)