PICCOLE VIE DEI CANTI – Dal Vomero di villa Lucia all’università l’Orientale

Piazza Fuga la mattina alle otto. Questo giro inizia al Vomero, chi sa poi dove andrà a finire.

Oggi ci accompagna Mirella, un’altra amica da tanti anni. Adesso abita altrove ma ha vissuto a lungo in questo quartiere e da qui comincia il suo canto, il suo itinerario napoletano personale. Mo ve lo dico subito: fa la giornalista, secondo me ci aspettano cose curiose.

Siamo ancora fermi sulla piazza quando passa un signore col bastone, non messo proprio benissimo in arnese.

Mirella: Hai visto quel signore? È una persona molto particolare. Ha avuto alterne vicende nella vita, adesso verso piazzetta Mondragone fa delle piccole installazioni, secondo me interessanti, usando oggetti di recupero.

Si chiama Gennaro Pagnotta, lo chiamano Marenna, indovinate.

Eccolo finalmente. Inseguivo da tempo ‘sto signore.

A via S. Carlo alle Mortelle, se ci passate, fate attenzione: sui dissuasori lungo il margine destro della strada, scendendo, subito prima della chiesa con lo stesso nome, probabilmente troverete dei piccoli oggetti fatti con pezzi di giocattoli, con bicchieri di plastica, con qualsiasi cosa, c’ho visto anche dei frutti. Una sola volta avevo incontrato un uomo seduto, avevo avuto il sospetto che fosse l’autore ma non il tempo di fermarmi, o in quel momento l’apertura giusta, lo avevo solo fotografato un attimo. Per capire dovevo incontrare stamattina chi nel suo Canto ha la strofa che riguarda lui; e può ricrearlo.

Poi, a mezza voce: Ma tu il caffè nei bar lo stai prendendo?

Sì, ogni tanto.

Io non ci vado da mesi, quasi quasi.

Andiamo nel bar qui, a fianco alla funicolare?

La massima concessione è: Però da asporto.

Mi pare contenta di aver recuperato questo piccolo rito dei napoletani. Con la pandemia, ogni volta che interrompiamo una delle nostre abitudini, ci stiamo allontanando da quello che eravamo. Può essere il momento per cambiare un po’ strada volendo, basta non vivere solamente col freno a mano tirato.

Iniziamo a scendere per via Cimarosa.

Incrociamo un suo amico che accompagna il figlio a scuola. Ha l’espressione di chi sta partecipando ad una specie di evento prodigioso, la soddisfazione di chi ha appena vinto un’importante battaglia di una rivoluzione: la riapertura delle scuole.

Poi lungo via Scarlatti.

Mo penserete che è una strada troppo facile: che c’entra in un giro personale? dove uno non è che va a fare shopping ma racconta almeno un pezzetto della sua storia? Be’ la cosa è semplicissima, in un palazzo a metà di questa strada lei ha vissuto per anni.

Anche io che la conosco da tempo ho un ricordo legato a questo luogo, dove accadeva un fatto curioso: voi premevate il tasto del citofono a fianco al suo cognome e dopo una frazione di secondo sentivate dalla strada, sempre, mai che non sia capitato una volta, suonare una campana, chiara, forte. Se ripetevate l’operazione state pur certi che ricapitava di nuovo.

Il fatto è che avendo un padre piuttosto sordo, per suoneria aveva dovuto installare una campana di quelle che si usano nelle caserme dei vigili del fuoco.

Era un palazzo di proprietà dei Barberini, la famiglia romana, papale. Ma loro probabilmente ‘sto palazzo non lo avranno mai visto.

Nel frattempo mi racconta del quartiere Vomero come quello degli artisti, agli albori delle costruzioni ottocentesche nella zona e oltre. Pure di Ingeborg Bachmann, una grande scrittrice del Novecento, che aveva vissuto qualche tempo al Vomero alto. Il suo “Il trentesimo anno”, te lo consiglio, a me lo hanno regalato il giorno di quel mio compleanno.

Poi uno dei guizzi di fantasia curiosa di questa nostra guida di oggi: Ma a Villa Lucia ci sei mai stato?

No, non sono mai riuscito a entrarci, neppure un giorno che c’era la giornata dei luoghi aperti del F.A.I. non mi ero prenotato in tempo, non stavo nell’elenco.

Allora adesso proviamo.

Se non fosse che i selfie non so come si fanno vi farei vedere la contentezza della mia faccia in questo istante.

Andiamo verso il cancello.

Il portiere ancora non ha aperto.

Allora prova a chiamare un signore che abita qui dentro.

Stamattina siamo partiti troppo presto per disturbare le persone con le nostre idee brillanti estemporanee, e giustamente nessuno risponde.

Aspettiamo.

Dopo un po’ riusciamo a raggiungerlo, e con grande disponibilità il professore ci autorizza a entrare.

Iniziamo a scendere lungo i vialetti immersi nel verde.

Piante rigogliose; saranno curate ma hanno anche qualcosa di spontaneo, solenne, un’energia da felci giganti primitive. Sembra di stare in un punto del tempo che è un incrocio tra la villa Floridiana, di cui questo posto una volta faceva parte, e il parco giurassico dei dinosauri.

La giornata è umida, dopo un po’ a Mirella si appanna la mascherina dal di dentro, mai successo prima. Sarà che mi sta raccontando, ma soprattutto l’umidità trattenuta da tutte queste piante. Sugli alberi cresce il muschio verdissimo, anche sulle panchine di pietra.

Poi sbuca un angelo; poi una casa in uno stile tra il tirolese e il Signore degli anelli di Tolkien.

Ecco, voleva che vedessimo soprattuto questo.

Lamont Young -l’architetto geniale che a Napoli ha disegnato diverse cose strambe: il Grenoble, Castello Aselmeyer, villa Ebe, anche Castello Grifeo quel palazzo con la torre merlata tonda che ogni volta che mi affaccio dal belvedere della Floridiana sento dire: “che peccato, tutta lesionata” guardando la spaccatura finta, progettata per creare l’illusione del gotico e che invece desta spesso l’impressione sgarrupo. Per favore metteteci un cartello: “No sgarrupo, bensì finta frattura, solo per effetto scenico, così l’architetto ha voluto”– qui ha realizzato questa casa favolosa, di legno, dentro l’armonia delle piante.

Passiamo sopra un ponticello altissimo. e c’è tutto il golfo della città sullo sfondo. Mentre siamo fermi, passa in auto il professore.

Questo era uno dei luoghi di Napoli in cui moltissimi artisti ed intellettuali, negli anni, sono passati: Neruda, Viviani, Eduardo De Filippo, Caccioppoli, Togliatti; pure Robert Capa il fotografo famoso, sembra ci sia stato alla fine della guerra con l’esercito degli Alleati, probabilmente il giorno in cui aveva fotografato i funerali dei giovani vomeresi morti combattendo le Quattro giornate. Ecco un po’ del Vomero a cui si riferiva Mirella, mi ci ha portato dentro.

Iniziamo a risalire per uscire.

Adesso l’idea è di scendere lungo le scale del Petraio, dove sembra che stamattina stiano filmando e la curiosità sta sempre lì che ci cammina a fianco.

Ci avviamo ma passando per un’altro luogo importante.

Il primo anno del liceo per me fu un po’ l’aprirsi di un mondo. Sentivo un fermento di idee che alle scuole medie noi di quella generazione non vedevamo proprio.

Arrivavi alle occupazioni, poi, e sentivi quelli degli anni successivi arringare le folle. Ha detto proprio così: “arringare le folle”, è il suo gusto per l’ironia sulle espressioni troppo note.

Le chiedo di salire i gradini davanti al portone per una fotografia. E vedo l’emozione di quelli per i quali un posto è ancora sacro, come se non fosse passato un secondo. E poi oggi sono tre giorni che dopo la DaD lo hanno riaperto. È il liceo Sannazaro.

Scendiamo, anzi ci tuffiamo lungo la scalinata che c’è a pochi metri da qui, alla fine di via Donizetti. Se volete fare una capriola dentro il golfo questo è il posto più adatto.

Un pezzetto di via Luigia Sanfelice ed eccoci al Petraio. Che dirvi, i lettori di queste pagine le conoscono, non aggiungo altro.

Una ragazza vestita di colori tenuissimi, consunti, su una sedia di legno, in pausa sigaretta. Sono le riprese di un film sui De Filippo.

C’è la troupe dovunque, si riconoscono dalle radio appese alla cintura e dalla cadenza della capitale. Poi esce un signore con la barba e una giacca tutta rossa a righe che solo un attore.

Dai, continuiamo a scendere. Nel frattempo ci ha raggiunto un’amica di Mirella, Chiara.

Siamo sul corso Vittorio Emanuele Secondo.

Il pescivendolo che io passando avrei preso per un negozio come gli altri, camminando con Mirella diventa una galleria d’arte perché ha i disegni di un architetto molto noto. Nel frattempo prenota il pesce per il pranzo tra poco.

Questo negozio invece, vedi, meriterebbe un articolo a parte. Il proprietario ha inventato un gioco diventato famoso. Si chiama “Sinco”.

Nella vetrina potete trovare uno di tutto per la casa, sopra la porta c’è scritto pure “abbigliamento”.

Si affaccia sulla porta il proprietario, simpaticissimo, e lo fotografo, poi mi fa entrare per uno scatto alla copertina ufficiale del gioco e da quel momento non riesco più a tornare fuori sebbene dica una decina di volte che tornerò a vedere.

La prossima tappa è il Teatro Nuovo.

Per dove scendiamo?

Le scale S. Maria Francesca fanno al caso nostro.

Dopo poco c’è uno dei murales che in questi giorni sono al centro di discussioni. A me sembra un’occasione da cogliere per provare a far dialogare almeno un attimo le due parti della città che hanno paura una dell’altra. La città di sotto ha espresso questa immagine scrivendoci dentro la sua richiesta: Verità e giustizia. Cancellarla e basta vorrebbe dire negare la domanda invece di provare a rispondere.

Una signora del presepe, sopra la macelleria, da una finestrella che solo nella sacra rappresentazione può davvero contenere qualcuno.

Dopo un poco ecco il Teatro Nuovo.

C’era questo professore, all’Università, che mi fece innamorare del teatro. Io per un periodo era di quello che volevo scrivere.

Una volta qui venni a vedere tutte le repliche di uno spettacolo di Antonio Neiwiller, completamente muto, per osservare le piccole variazioni, involontarie o meno. Mi piacque moltissimo.

C’è un cuore sullo sfondo della foto che le faccio. Sarà comparso adesso, quando il teatro ha ascoltato questo suo racconto.

La prossima tappa è l’università L’Orientale.

Salendo verso piazza del Gesù si ricorda che qui c’è un barista di fiducia, prima stava in un altro bar poi si è messo in proprio.

Entriamo, eccolo, lo disturbiamo mentre sta mettendo ordine.

Ci vuole offrire il caffè ma soprattutto è l’unico che dice che tra i clienti che stanno tornando e un po’ di ristori: ‘sta stagione non è per niente da buttare, forse addirittura il contrario.

Un po’ di ottimismo ci ha tirato su più del caffè che ci voleva offrire.

Vabbè di S. Chiara non parlo, come faccio ad attribuirmi un posto che è uno dei più belli di Napoli credo per quasi tutti.

Questo sarebbe un coro più di un canto. Nei punti di incrocio delle mappe mentali di molte persone deve sentirsi una musica forte, come il brusio di una volta nelle piazze.

Giriamo per via Santa Chiara, quella che costeggia il muro del chiostro delle monache. Iniziano a comparire i mille disegni sui muri, come nel giro di qualche giorno fa con Salvatore Allinoro.

Sbuchiamo davanti all’università l’Orientale.

Mi ero iscritta qui perché avevo visto che Lettere moderne aveva esami più interessanti (storia del cinema, storia del teatro, antropologia) rispetto a Lettere della Federico II di quell’epoca.

Con alcuni professori ancora sono in contatto.

Al primo anno, la prima lezione che ho seguito all’università, un sabato mattina, quasi non ci volevo andare, e invece, come entrai, una folgorazione. Era il professore Alfonso Di Nola, storico delle religioni. Riusciva a collegare tanti mondi, letteratura, arte, presente, passato, era bravissimo, faceva appassionare. E quell’aula il sabato mattina era affollatissima. Poi, da quella prima lezione in assoluto, gli chiesi la Tesi di laurea.

Ecco un altro primo ingresso in un’aula che le ha dato un impressione forte e una direzione da seguire in futuro.

Mirella per alcuni anni, appena laureata, inizia ad insegnare.

Prima nella scuola media. Il primo giorno che arrivai, ero giovanissima, si avvicina un ragazzino e mi dice: “Professorè io sonco o figlio ‘e… ” e il nome del capopopolo della zona.

A ripensarci dopo ho capito che quello alla fine era un gesto di vicinanza, un’offerta di disponibilità, ma ero troppo giovane, un poco mi spaventai.

Poi passai ai licei, ma mi divenne chiaro a un certo punto che non era il lavoro per me.

Mio padre, professore, diceva sempre: “Io quasi non mi capacito: faccio una cosa che mi piace moltissimo e mi pagano pure”. Per me invece non era così, io volevo fare la giornalista. Allora un giorno vado a dare le dimissioni.

Professoressa ma forse volevate dire “Aspettativa”?

Forse volevate un cambio di sede?

Ah, proprio dimissioni? E mo vediamo come si fanno.

Insomma le ci è voluto circa un mese per fare questa cosa rarissima, sconosciuta a memoria d’uomo: le dimissioni dal posto di ruolo da professoressa.

Mentre mi racconta sbuca l’incrocio, il punto d’intersezione di due vie: il disegno che Salvatore aveva subito individuato con la firma, in un vicoletto qui dietro del centro, ve lo ricordate? Eccoci qui davanti, soltanto che lo vedo solo io, e neppure trovo più la firma, allora è vero che appartiene ad un altro canto e che si crea soltanto cantandolo.

Stiamo andando verso un altro posto: il Museo di Paleontologia, quello col dinosauro dentro, lo conosci?

Ah, l’ho visitato moltissimi anni fa, credo fossi al liceo o addirittura prima.

Allora andiamo.

Passiamo davanti al cortile delle Statue e Gianbattista Vico stamattina non c’è, sarà andato a comprare il giornale per vedere che sta combinando Draghi.

La porta è aperta, con Salvatore, e questa è un’intersezione vera, un territorio comune dei due personaggi, l’avevamo trovata chiusa, come ogni sabato. Il custode sull’uscio ci dice che però si entra solo su prenotazione.

Dai, magari ci ritorniamo un altro giorno.

Questa passeggiata avrebbe potuto continuare ancora per ore. I canti di quelli che scrivono per i giornali inizio a pensare che siano vastissimi, perché gli interessano un sacco di cose, appena sentono vibrare una nota restano affascinati.

Passeggiata lungo un tracciato proposto da Mirella Armiero. Da piazza Fuga, lungo via Alessandro Scarlatti, via Cimarosa, via Puccini, via Donizetti, i gradini del Petraio, Montecalvario, via Santa Chiara, Largo Banchi Nuovi, via Giovanni Paladino.

Se avete anche voi una linea da camminare preferita a Napoli o dintorni e volete condividerla, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

PICCOLE VIE DEI CANTI – Dai pannelli fotovoltaici all’Hip hop, tutto concentrato in pochi metri dentro il centro storico

Mi compare sui social un suo post e mi ricordo: è parecchio tempo che Salvatore si era offerto di raccontarci il Canto del suo pezzo di Napoli, personale, verso il centro storico. Allora gli scrivo se stamattina (è uscito un po’ di sole dopo tanti giorni grigi) sarebbe disponibile per quel famoso giro.

Sì, guarda, chiedo un attimo conferma alla mia fidanzata e poi ti dico.

Benissimo.

Mi chiama dopo poco: Tutto a posto, il giro potremmo iniziarlo proprio da casa mia.

Perfetto, mi serve solo il tempo per arrivarci senza prendere metropolitane che in questi giorni contagiosi non mi vanno affatto. A piedi ci vorrebbe quasi un’ora… stavolta prendo la bici.

Salvatò allora mi faccio la doccia e scendo.

Ua’, ancora t’ea fa ‘a doccia?

Eh, vabbè ma mi ci vuole poco.

Va bene, allora nel frattempo faccio qualche servizio a casa, quando arrivi citofona.

Ottimo.

Dopo 45 minuti circa sono a piazzetta Arcangelo Scacchi, zona Quattro palazzi, vicino al citofono.

Qua fuori stanno azionando una di quelle pedane idrauliche per fare i lavori esterni agli edifici. Urlo nel microfono per superare il rumore che fa il motore di quel coso. Lui urla dall’altro lato per spiegarmi quale scala devo salire e a quale piano.

Mi apre il portone, e la bici non c’entra se non piegata in due: i portoni antichi di Napoli fatti per le carrozze enormi e per i lillipuziani in ginocchio, che entrino di lato, spingendo forte l’anta doppissima della porta di legno massiccio, durante le pestilenze con il gomito.

Entro in un androne calmo.

Non c’è più nessun rumore, anche i raggi di luce sono fermi.

Ascensore formato corridoio: la bici pieghevole entra solo in lungo, arrivati al piano non c’è spazio per ruotare st’aggeggio, devo uscire in retromarcia, strisciando le ruote che girano solo in un verso.

L’ultima rampa va fatta con la bici in braccio, poi arrivo su un terrazzo.

Bici in mano, terrazzo, cielo azzurro, castel Sant’Elmo che ride di me da lontano, due cupole vicine e l’eterno rettangolo stretto e lunghissimo del grattacielo alberghiero che per la prima volta nun sta annanz’ a niente di notabile nella foto del panorama.

Buongiorno, Salvato’, ma stai ancora co’ pigiama? Non ero io che nun m’er fatt’ ancora ‘a doccia?

Scusa ma so’ stato fino a mo a telefono con la mia fidanzata, stamattina so’ successi un po’ di problemi da mettere a posto.

Va bene, dai, non c’è fretta.

Faccio un caffè con la macchinetta napoletana, sta già pronta, però come sai ci vogliono venti minuti per farlo scendere e poi mi sbrigo.

“Venti minuti”. Scientifico proprio.

Allora tu nel frattempo sbrigati e la macchinetta la giro io.

Per i non esperti di macchinetta del caffè napoletana, anche detta cuccuma (quella che usa Eduardo de Filippo for’ ‘o balcone parlando col professore di rimpetto in Questi fantasmi), per ottenere il caffè da codesto meraviglioso aggeggio occorre, una volta che l’acqua all’interno sia arrivata all’ebollizione, capovolgerlo completamente per far sì che la suddetta acqua scenda per gravità attraverso la polvere di caffè, trasformandosi così nel liquido magico che si raccoglie nel contenitore di sotto.

Sì, nel frattempo ascoltati questo disco, è rap scientifico.

Rap scientifico? Non sono un esperto di musica ma questa non l’ho davvero mai sentita, voi mi confermate che esiste, è vero?

Ritmi sincopati intorno a particelle atomiche e composti chimici.

Ah, in tutto ‘sto bailamme mi so’ scordato di raccontarvi dell’impianto fotovoltaico; aspettate mo recupero.

Appena arrivato Salvatore mi fa vedere che sul tetto spiovente ci sono dei bei pannelli per la produzione di energia elettrica, sembrano nuovi. Lui mi dice invece che hanno più di dieci anni e sono probabilmente il primo impianto del genere al centro storico. La cosa era così nuova che la prima volta che chiese l’autorizzazione al Comune gliela bocciarono. Ci alimenta casa sua, quella dei suoi genitori qualche piano più sotto e dà anche energia alla rete elettrica nazionale che lo paga per il servizio svolto. Greta Thunberg qua sarebbe nella casa dei suoi sogni proprio.

Nel frattempo s’accende un’altra sigaretta.

Salvato’ dai, se ti vai a sbrigare, altrimenti mo overamente si fa tardi.

Mentre entra in bagno l’acqua del caffè bolle. Giro l’oggetto cuccuma.

Poi vado a zonzo sui terrazzi a scattare qualche foto delle cupole e del castello.

Una delle cupole è in perfetto stato, con le maioliche verdi e gialle. L’altra è scolorita. Sono le chiese di San Marcellino e Festo e San Severino e Sossio.

Aspetta, ma laggiù ce n’è un’altra altissima e si vede pure la facciata triangolare… è il Duomo!

Salvatore esce dal bagno, il disco continua a cantare ‘sto rap universitario.

Poi si inizia a preparare il kefir al volo. Strizza, filtra, versa, rimette tutto a posto per la prossima volta i fermenti che producono una specie di latte yogurt.

Nel frattempo mi racconta la saga dei parcheggiatori della zona. I residenti hanno il privilegio di fare l’abbonamento per tutto il mese. Poi però anna pava’ pur’ ‘e multe di quando la macchina gli viene spostata, per ottimizzare, in sosta vietata.

Un giorno, da ragazzo, stavo giocando a pallone con i figli, arrivano quelli di Forcella che ci vogliono picchiare e il padre scende, per difenderci, con la mazza. I racconti di chi in un quartiere c’è nato e c’ha sempre abitato, rint’ ‘o stesso palazzo. E l’eterno libro della jungla metropolitana.

Ci pigliamm’ o ccafè. Buono.

Dai che forse ci siamo, si esce di casa.

Sto per aprire la porta dell’ascensore.

Ah, mi so scordato una cosa importante.

Resto sul pianerottolo e fotografo la corda scorrevole, con la carrucola, dei panni. Anche qua ancora ce l’hanno. Piccole vie dei panni, di tutti quanti.

Scendiamo, usciamo dal portone nella luce di questa giornata di sole.

C’è una scalinata con una grande scritta che sale in diagonale sopra un ponte. Ma noi al ponte ci vogliamo passare sotto.

Questo ai tempi dello scudetto del Napoli era tutto azzurro, dentro e fuori, adesso, se ci fai caso, vedi, qua, da sotto, l’azzurro resiste ancora.

Tutta la parte inferiore del ponte è di un azzurro tenuissimo. Il margine, se guardate bene la foto, è ancora tricolore.

Un ricordo vago di questo ponte azzurro carico ce l’ho nella memoria. Adesso è diventato di un colore più vecchio e più elegante. Anche l’immagine del santo che sta qua sotto, lungo il marciapiede di fronte, ha il fondo dello stesso azzurro. Convergenze universali verso il titolo di Campioni d’Italia.

A piazzetta Grande Archivio la chiesa di Santa Maria Stella Maris. I muri tutti scrostati di un finto gotico del Novecento.

C’è un signore che cammina nella stessa direzione nostra. Ci inizia a dare suggerimenti su cosa vedere qui vicino, ci deve aver preso per turisti, evidentemente sembriamo abbastanza curiosi. Tiriamo fuori due o tre frasi in napoletano per convincerlo subliminalmente che siamo della zona.

Davanti al bar seguente Salvatore intravede degli amici da fuori, ci fermiamo. Il caffè grazie ma lo abbiamo preso che sono solo due minuti.

C’è parcheggiata fuori una bici a pedalata assistita. È proprio dell’amico di Salvatore. Lui è curioso di tutte le cose scientifico tecnico ecologiche, lo avete capito, e va a fare il suo primo giro su una bici che ha anche un motore.

Torna entusiasta: Me la devo comprare! Oppure me la affitti qualche volta che ne ho bisogno al volo?

Continuiamo il nostro giro.

In un angolo, sul marciapiede ci sono tre persone che parlano tra loro. Una sta più in alto degli altri. Eh, sarebbe una statua a grandezza naturale, ma appare come più umana in questo istante, con quell’atteggiamento di partecipazione, sapete, quando con le mani intrecciate, a Napoli esprimiamo la sorpresa e un poco di dolore per i fatti gravi che ci stanno raccontando? invocando in un’esclamazione: Uh… e poi due volte esatte il nome di Suo Figlio proprio?

Poi saliamo sul ponte.

E un’altra volta, subito, da un santino adesivo sul vetro di una Cinquecento ultimo modello in un colore trendissimo: “Madonna del Rosario di Pompei, proteggimi”.

Un faccione tutto giallo, mascherato di nero, dipinto, anzi incollato sul muro. Ha un’energia vivissima anche se l’orecchio della carta scollata tradisce più di qualche anno.

Sul muro dall’altro lato della strada, mille sovrapposizioni di scritte di tutti i colori. Facce, simboli, a volte una lettera soltanto. Mi attraggono.

Raccontano a loro modo qualcosa. Ogni centimetro quadrato dei muri del centro storico di Napoli dice una parola, il centimetro a fianco aggiunge la sua e viene fuori un racconto di molti, una specie di Odissea, il coro greco.

Su una saracinesca, dipinto: RiciKlan.

Sai: “riciclare” come atto ecologico ma anche “Klan” come quelli di camorra.

Sospetto che l’autore di questa sia proprio Salvatore perché me ne fa una descrizione precisissima.

Il Museo di Paleontologia col dinosauro, a Largo San Marcellino, oggi è sabato, è chiuso.

Poi un portone di ferro tutto colorato, vivace, con al centro Napoli in rosso.

Questo è di Gola, se guardi in basso a destra c’è scritto “Ti amo”, con un cuore. Era per la sua ragazza, poi mi ricordo che si sono lasciati.

Dal portone del Cortile delle Statue si vede, adesso fa parte dell’Università ma qui fino al ‘700 c’erano i Gesuiti, in fondo, Giambattista Vico un poco afflitto.

La pietra di piperno cilindrica all’angolo del palazzo è dipinta a metà tra un totem e un Picasso.

Poi giriamo verso il lato chiuso di via Giovanni Paladino.

Qua di notte è l’angolo per rapporti “frettolosi” e droghe non altrettanto leggere.

Salvatore, della vita diurna e notturna di questi metri di città dà la sensazione di sapere tutto. La chiesa è aperta.

Qui una volta al mese fanno una messa per una Madonna particolare.

Non è esattamente il suo genere, di questo non ricorda tutti i dettagli, mia nonna ci veniva spesso. Però possiamo entrare e chiedere a qualcuno.

È la chiesa del Gesù Vecchio. Appena varcate la porta vi esplode in faccia tutto il barocco del mondo.

Un signore ci dice che l’undici del mese si fa quella celebrazione che dite.

È la Madonna di don Placido. La statua che sta sopra l’altare maggiore la raffigura. Don Placido di cognome faceva Baccher, era il fratello prete di Gerardo, tra gli organizzatori della congiura dei Baccher, appunto, a favore dei Borbone, durante la rivoluzione del 1799. Questa Madonna gode di grande venerazione, ogni 11 del mese si celebra la Messa solenne.

In mezzo ai mille segni su un altro muro, quando gli chiedo: E questo chi lo avrà fatto? Mi trova in un istante la firma incollata dell’autore con tutti i riferimenti. Io non l’avrei trovata prima di mezz’ora.

Specialità greche. Poi “Bucopertuso”.

Lo sai? gli stessi proprietari hanno poco più avanti un altro locale: si chiama “La fesseria”. Non so se cogli l’assonanza stilistica.

Sto centro storico stamattina pare grondare ormoni da ogni commessura della pietra.

Questo lo hanno fatto come dedica per un ragazzo che è morto qualche anno fa, faceva parte del collettivo della Mensa occupata.

Questo è di uno che oltre che il writer fa anche il DJ. Lo sai l’Hip hop ha quattro specialità: la breakdance, il writing, il Djing ed il rap. Lui ne ha fatto parte.

Poi una specie di animali primitivi semi-umani e metà dinosauri, con gli occhi grandi tragicomici e alcune croci. Sono Cyop e Kaf. Ne avevo visto una processione lunga lunga sul muretto al corso Vittorio Emanuele e mi aveva fatto pensare all’intuizione collettiva del morbo che stava arrivando. Qualcuno sostiene, e io in qualche modo lo capisco, che in fondo è proprio così che lo abbiamo creato, invocandolo. Il mondo diventa come lo immaginiamo, nel profondo: “lo sogniamo” forse è più esatto.

Il locale notturno scuro scuro pure a mezzogiorno ha per vicino un tabernacolo col crocifisso.

Il muro scrostato sopra una porta mostra i mattoni di argilla messi in verticale anzi un poco storti. Ogni cosa in questo punto del mondo segue regole locali, puntiformi, la prima idea che viene è che le usano solo in questo posto.

All’angolo di via Donnaromita c’è una sagoma bellissima di donna. Sembra accennata soltanto e invece poi ci trovi tutte le sfumature del volto. Sembra quasi un fantasma, ha il foulard in testa, dignitosa pensa camminando guardando per terra. Una via di mezzo tra le cose che disegna Banksy e quelle di Ernest Pignon-Ernest.

Dopo diavoli rossi, facce quasi horror, un paio di scheletri, Questo è la firma, guarda, non ti perdere il cappello nella foto, sbuchiamo a piazzetta Nilo.

In tutto non abbiamo fatto che qualche centinaio di metri.

Ah, guarda, ci sono alcuni amici. Mo te li presento.

Ci avviciniamo e ci sono una donna e due signori senegalesi.

Poi Salvatore si ricorda che deve telefonare alla fidanzata. Ti lascio un attimo a parlare con loro, voi raccontategli il vostro centro storico.

Ci sediamo al tavolino del bar. ‘Sta Via dei canti si sta intersecando con il nostro Giro del Mondo. Gli racconto di quello che stiamo facendo stamattina e anche dell’altra idea. Gli chiedo se hanno posti senegalesi da suggerirmi a questo punto.

Verso Piazza Garibaldi e a Forcella trovi la maggiore concentrazione di senegalesi, anche se sono distribuiti dappertutto. Anche i negozi tipici sono in quelle zone. Poi ci sono le moschee ma non sono gestite da senegalesi, in una l’imam è proprio napoletano.

Salvatore lo conoscono bene, almeno uno dei due.

La sera lui sa sempre cosa c’è di bello dove e quando.

Poi arriva un signore a chiedere i soldi per un caffè. Alì allora glielo fa portare sulla panchina qui a fianco.

Stiamo già a chiacchierare da un bel po’ e Salvatore sta sempre nell’angolo a parlare a telefono, fitto fitto.

Dopo mezz’ora saluto i miei due ospiti e gli vado incontro. Lui si scusa ma la telefonata è importante. S’è rotta la macchina della mia fidanzata e forse ha bisogno di aiuto. Allora lo saluto. È un itinerario perfetto in fondo, da una telefonata coniugale a un’altra il cerchio si è chiuso.

Mi ricordo, solo dopo alcuni minuti mentre camminavo in mezzo alla gente, che stamattina qui c’ero venuto pedalando.

Vado a prendere la bici nel posto di partenza. Il cerchio adesso, anche nella testa mia, si è davvero chiuso.

Passeggiata lungo un tracciato proposto da Salvatore Allinoro. Da piazza Arcangelo Scacchi, lungo via del Grande Archivio, via Lucrezia D’Alagno, via Ferri Vecchi, via Arte della Lana, via Bartolomeo Capasso, vico San Marcellino, via Giovanni Paladino, vico Donnaromita, fino a piazzetta Nilo.

Se avete anche voi una linea da camminare preferita a Napoli o dintorni e volete condividerla, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

PICCOLE VIE DEI CANTI – Da Antignano al Museo Archeologico lasciandosi guidare dallo sguardo sui dettagli

Ventidue luglio, ore diciassette, appuntamento davanti alla chiesa di San Gennaro ad Antignano, quartiere Vomero.

Ciao Maria, mamma mia da quanto tempo…

Un saluto un po’ a distanza, obbligatorio in questi giorni, e iniziamo a camminare, mentre io cerco di spiegarle meglio quest’idea strana che tengo.

Fa piuttosto caldo, almeno per me che devo avere origini montane, che sopra i ventisette gradi sostanzialmente soffro. La spiegazione mi viene fuori storta, ho opportunamente confuso la cosa, ottimo.

Maria però è pragmatica, non si scompone, e riusciamo ad andare tranquillamente avanti. Allora le inizio a chiedere perché per lei questo itinerario è importante.

Qualche anno fa, France’, era un anno pesante: problemi di salute dei miei genitori, e i pensieri quotidiani erano diventati più assillanti. Mi capitava di dover percorrere spesso questa strada per andare a lavoro. Allora ogni volta, camminando a piedi, cercavo di concentrarmi, di guardare fuori per distrarmi. Questa strada, devo dirti, in qualche modo mi ha salvato.

Ecco la linea del canto.

Tre minuti fa, stiamo scendendo lungo via San Gennaro ad Antignano, al terzo passo, senza dire niente, sia Maria che io avevamo guardato in alto per un istante. C’è un piccolo busto del Santo, antico, esposto qui, all’aperto, che segna il punto esatto dove avvenne per la prima volta il prodigio dello scioglimento del sangue. Abitava qui Eusebia, la donna che lo aveva raccolto nelle ampolle. Poi non dite che il Vomero non è un quartiere identitario. Ecco un piccolo pezzetto di Napoli vera che si modifica raccontando.

Poi passiamo davanti ad un lungo murale, una striscia di vernice colorata su uno sfondo nero.

Credo di avere le foto, fatte col telefono, pezzo pezzo, di tutto questo muro. Mi ha ispirato.

Maria lungo questo tragitto, nel tempo, ha fotografato. Poi ne è venuta fuori una serie di immagini che lei completa aggiungendo altri elementi, in una specie di collage elettronico.

Questo tratto iniziale non è bello, lo facevo e lo faccio camminando rapidamente.

Non c’è spazio nella sua descrizione per i tratti che non ha visto veramente. È un racconto sottile ma non finto.

Qui, oltre la finestra di questo palazzo, c’era la mia scuola elementare.

Allora per lei credo sia anche un po’ un viaggio nel tempo.

Continuiamo a scendere.

Ogni tanto mentre camminiamo la fotografo, a rilievo su questo suo sfondo.

Qualche volta mi fermo a guardare qualcosa che a lei magari non la prende.

Dei girasoli finti, in alto su un balcone di un palazzo ruvido. Lei mi fa: Che tristezza mi fanno quei fiori.

Mentre sto per fotografare mi accorgo che al primo piano a cercare sole c’è una signora anziana, seduta sul balcone, non soltanto gli altri fiori.

Si passa sotto un grande ponte.

Un signore, dritto, alto, in piedi, fuori al balcone suo, in mezzo a questo grigio dell’ombra, di una luce di fotoni misto polvere.

Poi appare la prima facciata di palazzo con sopra un mosaico. Ecco, da qui diventa bello.

Sono i palazzi decorati insieme alla metropolitana Linea 1, dell’arte, alla stazione di via Salvator Rosa.

Ernesto Tatafiore, “Diderot Filosofia”

Ha diversi anni questa idea di museo diffuso, per tutti, “obbligatorio”, da visitare ogni giorno spostandosi, e vive.

Questo contrasto tra gli archi in mattoni e quei palazzi di sfondo è bellissimo anche.

Sono i resti di un ponte romano e Icaro che per il caldo di oggi gli si sciolgono le ali di cera e precipita lungo la parete del palazzo più alto.

In alto a sinistra: Mimmo Rotella, “Il volo di Icaro”

I ragazzini che giocano a pallone per un attimo stanno seduti in fila sul muretto.

Fanno anche loro un’opera d’arte, diffusa, in movimento, aperta a tutti, soprattutto in questo momento in cui ci stiamo allontanando.

Poi c’è la facciata di un edificio con una pioggia di raggi dorati in diagonale. Ci abitava l’autore di ‘O sole mio, Giovanni Capurro.

Scendiamo ancora lungo la stessa linea che nel frattempo ha cambiato nome due volte: via della Cerra, poi via Salvator Rosa, e Maria ogni tanto mi indica un punto. Adesso il murale sorto spontaneamente intorno all’ingresso di una scuola.

Il Vesuvio poi spunta in fondo.

Ci avete mai fatto caso? Laggiù, oltre piazza Mazzini, questa nostra montagna cardinale si solleva altissima, almeno il doppio dell’altezza solita, sembra il monte Fuji.

Poi ci dobbiamo fermare proprio. C’è sulla sinistra, quasi di fronte al Liceo Vico, una chiesetta rossa, incastonata dentro un vicolo. Ha porte e finestre murate, ma la luce sembra che ne abbia un riguardo speciale, la illumina di più, più viva, qua intorno, di tutti quanti.

A Maria fa così effetto che non può evitare di scattarle la millesima foto, senza saperne la ragione, una per ogni volta che ci passa davanti.

Si chiama Santissima Trinità alla Cesarea, è chiusa dal terremoto del millenovecentottanta, tra pochi giorni quarant’anni.

Poco più giù, sul lato opposto della strada:

Lo vedi quel palazzo con l’azzurro? Di collage con lui ne ho fatti molti.

È un azzurro leggerissimo, consumato come i muri, gli infissi, forse anche l’aria e la palma che gli si muovono intorno.

Immagine di Maria Leone (tutti i diritti riservati)

Poi ci infiliamo in una strada che conosco, sarà l’incrocio con un altro Canto che ho raccolto, via Santa Monica. Qui c’è la scuola singalese più grande di Napoli, l’ho vista per la prima volta durante il mio giro del mondo.

Ah, ecco perché quando ci passo incontro sempre questa corrente veloce di ragazzi vestiti tutti uguali, eleganti.

Poi, all’incrocio tra via San Giuseppe dei Nudi e via Mancinelli il punto forse più importante, la nota acuta di questo racconto.

Guarda quel tabernacolo: mi affascina.

Il puttino di gesso, in alto, se ci fai caso ha solo due vuoti al posto degli occhi. È uno sguardo un po’ inquietante. Anche la cornice rettangolare che adesso sembra bianca, se la fotografi è sul celeste. Risalta molto.

La Pop art, forse qui si sarebbe sbizzarrita alquanto, sarebbe piaciuto moltissimo secondo me a Andy Warhol. Ridendo

Al posto di Marilyn Monroe, se lo avesse visto, forse avrebbe fatto quest’altra serie, colorata altrettanto.

Sbuchiamo sopra il Museo Nazionale, la Galleria piccola che ha di fronte.

È stato un viaggio sottile, curioso, tanto sottile da diventare involontariamente intenso. Lungo le impressioni di un’architetta che ha voluto lasciarsi suggerire emozioni soltanto dalle forme.

Quando ci salutiamo, Maria, che questa linea la percorreva in solitaria con la musica negli auricolari, mi dice: non parlo mai così tanto.

Forse andare in giro, camminando, insieme, guardando quello che ci sta intorno, parlando, è una cosa che non facciamo più molto spesso, un tipo di comunicazione che ci manca.

Forse sono molto più sottili di quello che pensassi queste piccole vie dei Canti.

Passeggiata lungo un tracciato proposto da Maria Leone. Da piazza degli Artisti, lungo via S. Gennaro ad Antignano, poi via Della Cerra, via Salvator Rosa, via Santa Monica, via San Giuseppe dei Nudi.

Se avete anche voi una linea da camminare a Napoli o dintorni, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)