NAPOLI IN BICI – La pista ciclabile per ritrovare il forte di Vigliena e il ponte della Maddalena. Un pezzo di storia finora troppo lontano per arrivarci a piedi

Qualche settimana fa è stato inaugurato un nuovo tratto della pista ciclabile che percorre la città lungo la linea del mare. All’inaugurazione del tratto che già esisteva, dalla Stazione Centrale a Bagnoli, nel 2012, c’eravamo, in bicicletta. Oggi abbiamo la curiosità di andare a pedalare sulla sua sorella appena nata.

Un amico, la solita bici pieghevole, sabato dieci ottobre verso le undici iniziamo a pedalare.

Sta lungo la linea di via Marina, inizia all’altezza di corso Garibaldi, al primo metro di via Amerigo Vespucci.

Si pedala sulla destra, oltre un cordolo che separa dalla carreggiata per le auto e gli altri mezzi a motore. Inizia con un cartello blu questa lunga striscia arancione.

Mentre sto scattando la foto per immortalare l’inizio passa un ciclista, allora ‘o fatto è overo.

Dopo venti metri c’è un chiosco delle bibite che diventerà come i ristoranti americani dove ti servono dal finestrino dell’auto. Ti fermi in bici e a un millimetro il barista ti fa la spremuta d’arancia dissetante. Qualcosa si dovrà pure inventare dopo che s’è trovato ‘sta pista ciclabile esattamente annanz’.

Pedaliamo. Mano mano il paesaggio diventa sempre meno frequentato, a tratti pare desertico, a sinistra ci sono pure le palme.

Passiamo davanti al vecchio mercato del pesce. Dietro gli uffici dell’Agenzia delle Entrate. Un’edicola minuscola, in una casetta isolata, sta anche lei adesso lungo il percorso arancione. Sembra un misto tra la Porziuncola di San Francesco d’Assisi e le stazioni ferroviarie senza nulla intorno dei western di Sergio Leone.

Esce il proprietario: stiamo qui da cinque generazioni. Una volta, quando il mercato era aperto, qui c’era un sacco di gente.

Dall’altro lato della strada, davanti a quell’edificio chiuso, progettato da un ingegnere napoletano famoso, abitano una decina di persone di origine africana. Un filo di fumo, uno di loro sta cucinando.

‘Sto viaggio in bicicletta è estremamente interessante.

La solitudine aumenta e il sole è alto. Ci fermiamo in un bar perché potrebbe essere l’ultimo per parecchio tempo.

È enorme dentro, ha un buon cornetto e fa pure o ccafè targato con il marchio più prestigioso che teniamo a Napoli. Sarà stato pure ll’urdemo cafè ma c’è iut’ buono.

Poi mi viene in mente, non so come, che da queste parti ci dovrebbero essere il ponte della Maddalena ed il forte di Vigliena, due dei luoghi storici di Napoli che non ho mai visto.

Qui nel 1799 saliva dalla Calabria l’esercito della Santa Fede comandato dal cardinale Ruffo a cui il re di Napoli aveva delegato i pieni poteri per riprendersi la capitale del regno che i Cittadini avevano trasformato in Repubblica napoletana sul modello della Francia rivoluzionaria.

L’ammiraglio Caracciolo dal mare sparava cannonate su Ruffo dalle poche navi della flotta napoletana che si erano salvate dalla distruzione voluta dal re consigliato dagli inglesi, ufficialmente per non farle cadere in mano ai francesi, forse anche per sbarazzarsi di una flotta importante che poteva fare concorrenza a quella inglese nelle acque del Mediterraneo.

Il re era scappato a Palermo con tutta la corte, sulla nave di Nelson, Caracciolo lo aveva scortato. Poi l’ammiraglio era tornato a Napoli, non poteva più restare dalla parte di un re così codardo. Ed era diventato comandante della flotta repubblicana, forse in qualche modo suo malgrado.

Così ci racconta quegli avvenimenti Alexandre Dumas ne “La Sanfelice”.

Il cardinale capì che mai si sarebbe riusciti a forzare il passaggio del ponte finché i suoi uomini fossero stati sottoposti al duplice fuoco del forte di Vigliena e della flottiglia di Caracciolo. Per prima cosa bisognava impadronirsi del forte; poi, con i suoi cannoni, sarebbe stato possibile colpire la flottiglia.

[…]

Come abbiamo detto, il forte era difeso da centocinquanta o duecento calabresi agli ordini del prete Antonio Toscano. Il cardinale mise tutti i calabresi di cui disponeva agli ordini del colonnello Rapini, anch’egli calabrese, e ordinò loro di espugnare il forte a qualunque costo.

Scelse dei calabresi per combattere contro altri calabresi perché sapeva che, fra compatrioti, la lotta sarebbe stata mortale. Le lotte fratricide sono le più terribili e le più accanite.

[…]

Vedendo sventolare sulla porta la bandiera tricolore, leggendo la scritta sotto: “Vendicarci, vincere o morire!”, i calabresi, ebbri di furore, si scagliarono contro il piccolo forte muniti di asce e di scale. Alcuni riuscirono a scalfire la porta a colpi di ascia; altri arrivarono fino ai piedi delle mura a cui tentarono di appoggiare le loro scale; ma si sarebbe detto che, come l’Arca santa, anche il forte di Vigliena provocasse la morte di chiunque lo toccasse. Per tre volte gli assalitori tornarono all’attacco e per tre volte furono respinti lasciando il terreno intorno al forte disseminato di cadaveri.

Il colonnello Rapini, ferito da due pallottole, mandò a chiedere aiuti. Il cardinale gli inviò cento russi e due batterie di cannoni. Queste vennero piazzate immediatamente, e in capo a due ore il muro presentava una breccia praticabile. Allora fu mandato un parlamentare, che propose la resa in cambio della vita.

Leggi quello che sta scritto sulla porta del forte:” rispose il vecchio prete “Vendicarci, vincere o morire!”. Se non possiamo vincere, moriremo e ci vendicheremo”.

Dopo questa risposta, russi e calabresi si lanciarono all’assalto.

[…]

Per due volte furono respinti e ricoprirono con i loro cadaveri il passaggio che portava alla breccia. Una terza volta tornarono alla carica, e in testa c’erano i calabresi. A mano a mano che i loro fucili erano scarichi, li gettavano via; poi, con i coltelli in mano, si riversarono all’interno del forte. I russi li seguivano, trafiggendo con le loro baionette tutto quello che si trovavano davanti.

Era uno scontro silenzioso e mortale, un combattimento corpo a corpo, in cui la morte si mostrava in piena luce, con gli uomini avvinghiati così strettamente da sembrare che si stessero abbracciando.

Frattanto, poiché la breccia era ormai aperta, gli assalitori crescevano continuamente, mentre gli assediati cadevano uno dopo l’altro senza poter essere sostituiti. Di duecento che erano all’inizio, ne restavano appena sessanta, e quattrocento erano i nemici che li accerchiavano. Essi, però, non temevano la morte; erano solo disperati al pensiero di morire senza vendetta.

Allora il vecchio prete, ricoperto di ferite, si rizzò in piedi in mezzo a loro e, con voce che venne udita da tutti:

Siete sempre decisi?” chiese.

Sì, sì, sì…” fu la risposta unanime.

Nel medesimo istante, Antonio Toscano si lasciò scivolare nel sotterraneo dove c’era la polvere da sparo, avvicinò a un barile una pistola che aveva conservato come estrema risorsa, e fece fuoco. Si udì una spaventosa esplosione, e vincitori e vinti, assedianti e assediati, furono coinvolti nello stesso cataclisma.”*

Sto cercando se vedo la statua famosa.

Eccola oltre quell’albero: San Gennaro con la mano alzata verso il Vesuvio che ferma la lava. Stamattina su questo ponte non c’è nessuno a parte noi due ciclisti e un’auto parcheggiata. Il traffico da un lato è bloccato da un nastro bianco e rosso a strisce.

Diventa uno spazio ampio, un punto dove il tempo forma un lago.

Questa statua sta qui dal 1768, a ricordare che l’anno prima aveva fermato la lava del Vesuvio che stava arrivando, ma non è dimenticata. Un lumino a batteria sta acceso ai piedi del santo. Sul marciapiede alla base del monumento oggetti, una specie di presepio, pure ‘o mbrello, di qualcuno che vive qui intorno.

La strada sale, al colmo si trovano le due statue, poi si inizia a scendere. Sotto ci passava il fiume Sebeto, questa era la zona del suo estuario che richiedeva diversi ponti oltre la Maddalena, quello dei Granili e dei Francesi.

Un cane dal balcone di una casa ad un piano costruita proprio sul ponte ci abbaia. Uno scooter sorretto da due mattoni di tufo ha perso al momento la ruota davanti.

Poi riprendiamo la nostra guida arancione nella storia.

Adesso si pedala a fianco ai binari del tram. Dal lato opposto della strada c’è l’altra pista ciclabile per tornare a Napoli.

Un attraversamento sulle strisce pedonali e la pista adesso è sul marciapiede. Chiediamo conferma a un negoziante.

Sì, sì, è di qua.

Dopo pochi metri passiamo a fianco ai tavolini, pedalando sotto l’ombrellone del bar.

Un altro attraversamento pedonale in direzione San Giovanni. Poi perdiamo le tracce. C’è una salumeria giusto qui davanti. Esce un signore e chiediamo se sa dove continui la pista ciclabile.

Finisce in questo punto, qui è già San Giovanni a Teduccio.

Mi pare informato ‘sto signore allora gli chiedo del forte di Vigliena.

Sì, sta proprio qua dietro.

‘Sta pista ciclabile non serve per andare a San Giovanni: serve per entrare dentro il nostro passato.

Strada deserta, ma chi sa? forse solo perché è sabato.

Un edificio che è la realizzazione di quello che si dice “Cattedrale nel deserto”: la ex Cirio, una fabbrica di cemento armato ma coi merletti delle cattedrali gotiche e i vetri rotti.

Pochi metri ed ecco sulla sinistra i resti di quel forte.

Me lo aspettavo ancora più negletto, almeno c’è una recinzione, c’è anche un cartello che racconta in poche parole gli avvenimenti di quei giorni. La struttura è parzialmente crollata ma ce ne sarebbe ancora da vedere di ricordi.

Magari adesso che in questo luogo ci si può arrivare facilmente, in bici, vuoi vedere che qualcuno pensa che si debba davvero riaprire l’accesso a quella storia?

Nella salumeria, per ringraziare in qualche modo l’idea millenaria dell’oste che accoglie lungo i cammini del mondo, sento che qualcosa la devo comprare. È troppo presto per un panino allora compro solo due piccole birre.

Iniziamo a ritornare verso la capitale, i resti del Castello del Carmine, poi quelli del vado con lo stesso nome.

Sosta a piazza Mercato, che ha visto molte violenze legate a quei giorni. Non resta che brindare con quelle due birre comprate dalle parti del forte a questa città capitale di un mondo, a questi uomini che non vogliono smettere di pensare che la ragione sia sempre solo da una parte. Di avere così tanta paura di soccombere che vanno in cerca della morte.

Poi dentro la chiesa di Sant’Eligio, con fuori quel suo orologio così grande perché ha misurato il tempo di moltissime cose, nel silenzio che rimbalza sotto gli archi gotici, un poco di pace si ritrova.

Se in questi giorni di pandemia volete fare un giro senza stare in mezzo alla folla, forse questo è un buon percorso per muovere il corpo pedalando e la memoria tra le pagine dei libri di storia.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)