IL MATEMATICO NAPOLETANO (2/5) – Seconda puntata sui luoghi di Renato Caccioppoli, in cerca della casa dov’è nato

La settimana scorsa eravamo andati a visitare, dentro l’università Federico II, la stanza del professore. Cioè eravamo partiti dal centro, da quello che, principalmente, era diventato da adulto. Oggi andiamo a cercare la sua prima casa, quella nella quale è nato, dov’è stato bambino, villa Caccioppoli, ncopp Capodimonte.

La principale traccia oggi ce la dà un libro (Gatto, Rigatelli: Renato Caccioppoli, nei Riferimenti). Dentro c’è la fotografia dell’Atto di nascita, che dice:

l’anno millenovecentoquattro, Avanti di me Avvocato … Uffiziale dello Stato Civile del Comune di Napoli San Carlo è comparsa Elena Papazafiropulo di anni ventinove, levatrice … la quale mi ha dichiarato che alle ore antimeridiane dieci e minuti trenta, del dì venti del corrente mese (gennaio, ndr), nella casa posta in Via Capodimonte numero Villa Caccioppoli da Giulia Sofia Bakunin fu Michele d’anni trentaquattro Dottoressa moglie di Giuseppe Caccioppoli fu Domenico d’anni cinquantuno Medico Chirurgo seco lei convivente è nato un bambino che ella mi presenta, e a cui dà i nomi di Renato Ciro Agostino. La dichiarante à [sic] denunciata la nascita suddetta per avere nella sua qualità assistito al parto della Bakunin ed in luogo del marito di questa perché impedito.

Bene, allora abbiamo un certo numero di informazioni:

La mamma, Bakunin di cognome, era di origini russe, anzi era proprio la figlia* di un russo anarchico famoso: Michail Bakunin, uno che non stava mai fermo in un posto, ha vissuto in mille città. Solo a Napoli, eccezione, ha trascorso due anni (1865-1867), tempo lunghissimo per lui, gli piaceva la gente ed il caffè della nostra città, era qui dicono che ebbe la sua definitiva maturazione anarchica e ci stava per tornare, se non fosse morto. La mamma, Giulia Sofia, si era diplomata al liceo Umberto ed era stata la seconda donna a laurearsi in medicina all’università di Napoli. Il padre era un chirurgo molto noto, professore agli Incurabili. (Poi, tra parentesi: il cognome della levatrice è impronunciabile e Caccioppoli, sono andato a vedere, era capricorno ascendente ariete).

Poi, riassumendo le informazioni più utili per oggi: l’indirizzo della casa è via Capodimonte, numero civico Villa Caccioppoli. Un numero civico un poco strano, ma evidentemente all’epoca era sufficiente per individuare il luogo, per fare arrivare la posta a destinazione.

Prima di partire guardo su internet, sulla mappa elettronica del mondo: via Capodimonte non è lunga, però di ville con quel nome di tracce non ce ne sono. Forse ha cambiato nome, l’unica cosa è provare sul campo.

La ricerca sul posto

Scendo dal pullman, via Capodimonte, fuori Porta grande del Real Bosco. C’è un bar. Vado a prendere un caffè, magari mi fa venire un’idea nuova, cerco un’ispirazione.

L’idea non mi viene, però chiedo al signore alla cassa. Scusate sapete villa Caccioppoli qual è?

Villa Caccioppoli? No, mi dispiace. Però mi porta all’ingresso e mi indica due signori fermi a chiacchierare che potrebbero saperlo. Hmmm neppure loro hanno un’idea precisa. Forse è la villa che sta più in basso, nella curva prima della Madre del Buon Consiglio, la chiesa grande.

Allora inizio a scendere.

Ma no, a istinto non sono convinto, torno indietro: meglio chiedere qui alla gente del quartiere perché più in basso non ci sono case e chiedere di nuovo non sarà possibile.

Entro nell’edicola all’angolo nel punto esatto dove finisce via Capodimonte e inizia via Ponti Rossi. C’è una signora dietro il banco.

Guardate dobbiamo chiedere a mio marito perché io non sono di Napoli, lui è della zona. E mi porta dall’uomo che stava all’ingresso parlando del più e del meno con una signora.

Il nostro ricercatore principale

Lui subito si entusiasma, gli vengono mille idee; ma la prima è guardare su internet con il cellulare. Trova le cose che avevo visto io da casa. Villa Caccioppoli, alcune notizie, ma niente indirizzo, soltanto il nome. Però non si perde d’animo: “Ma io sto nome me lo ricordo”, e continua a cercare; poi telefona a un amico della zona che sape tutt e fatti e secondo lui lo deve per forza sapere.

Nel frattempo dice alla moglie di guardare tra le ristampe di foto d’epoca che tiene in una cartellina nel negozio, dietro al bancone. Lui non perde tempo e intanto parla con quell’amico al cellulare.

Cerchiamo, discutiamo, poi la moglie dice: eccola: e tira fuori una foto gialla con scritto “Napoli-Porta Piccola, Capodimonte, villa Cacciopoli” con una “p” soltanto. L’ha trovata, e mi pare quasi incredibile.

La foto della villa

Guardiamo la foto e lui cerca di ricordarsi se ha visto quella forma e dove. Però un dato è importante: Porta Piccola. Allora la casa sta sull’altro lato del bosco, non da questo. Via Capodimonte forse una volta si chiamava anche quella da quell’altro lato.

Ringrazio assai, saluto, entro da Porta Grande, esco dalla Piccola e reinizio a chiedere a quelli su quest’altra sponda.

Dal lato di Porta Piccola

Per adesso nessuno sa molto. Poi vedo un signore anziano seduto lungo il marciapiede e gli faccio la fatidica domanda.

Il signore seduto sul marciapiede

Lui pensa un poco, parla, pensa, ascolta. Poi dice qualcosa. Nel frattempo dal negozio esce una signora, forse la moglie, e iniziano a parlare. Piano piano arrivano, discutendo tra loro, ad una ipotesi, cioè per la signora è un’ipotesi, lui invece è sicuro. Io sbaglio, e mi fido ma solo fino ad un certo punto.

Però seguo la loro traccia. Nel frattempo di nuovo chiedo, un po’ perché l’indicazione che mi hanno dato per me che non sono della zona è chiara ma non del tutto e un po’ per raccogliere magari altri elementi.

Dentro una cartoleria la scena in parte si ripete.

Questa volta è una signora sulla settantina che la ricerca la inizia dal suo telefonino. Quanto è diffuso oggi questo modo di cercare; è il primo posto che ci viene in mente se abbiamo qualcosa che ci manca.

Nella cartoleria

Esco senza molti indizi nuovi. Promettendo di tornare nel caso che la trovo, perché adesso anche loro sono curiosi di sapere se questo posto esiste e dove.

Fuori ad una salumeria, dalla vetrina, una donna mentre passo mi guarda incuriosita. Forse perché ho la macchina fotografica in mano e desto attenzione. Allora entro e chiedo pure a loro.

Bene, mi pare convinta, mi dà un’indicazione precisa e saremmo quasi arrivati. Vado sul posto, lì c’è effettivamente una villa famosa ma dopo poco scopro che non è quella. Però mi indicano il Liceo Sbordone, anche loro sembrano convinti e poi questa collocazione combacia quasi perfettamente con quella che mi aveva dato il signore anziano, all’inizio, lungo il marciapiede. Si trova all’inizio di via vecchia San Rocco, dal lato di via Bosco di Capodimonte che è quella che stiamo risalendo noi.

Vado, entro nel cancello della scuola, chiedo al custode. Sì, la villa è questa qui a fianco. Ci abitano ancora, una persona sola, provate a citofonare.

Eccola, la memoria del quartiere si è ricostruita, è riuscita a convergere, attraverso le teste ed i ricordi delle sue persone, verso questo luogo che gli appartiene. Citofono una volta, due tre, dopo la quarta fotografo dal cancello chiuso e vado via. Ma per ritornare.

Il viale d’ingresso di villa Caccioppoli

Tornando verso casa racconto a quelli a cui avevo chiesto e che erano curiosi, che la villa l’ho trovata, e gli do la posizione: quasi su viale Colli Aminei, proprio attaccata al Liceo Sbordone. Così magari abbiamo avuto anche noi una piccola utilità: di rinfrescare un ricordo del quartiere.

Ritorniamo sul posto

Poi dopo alcuni giorni ci torno. Busso, e la scena sembra uguale, non c’è nessuno che risponde. Chiedo di nuovo al custode della scuola, che ormai si ricorda. Ci consiglia di ritornare tra un poco.

E allora più tardi torniamo. Oh, adesso c’è un signore nel lungo viale d’ingresso, oltre il cancello principale, che sta potando le piante che in questo posto stanno ovunque. Gli facciamo segno da lontano, forse ci stava aspettando.

Si avvicina e gli chiediamo: Questa è villa Caccioppoli?

Sì è questa.

È nato qua il famoso matematico napoletano?

Mah, da quello che mi raccontava sempre mio padre, che curava prima di me questo posto,quando ci abitavano, Caccioppoli era nato in un’altra casa della famiglia. Mi pare… e cita un ricordo vago.

Gli chiediamo se possiamo entrare a vedere com’è adesso la casa. Ma deve chiedere ai proprietari se danno il permesso, per stamattina, giustamente, non si può entrare.

Un po’ di delusione, e un poco di speranza.

Poi, fino ad ora, non ci hanno mai chiamato ad andare a vedere.

Però sapere in quale punto della città ha avuto inizio la storia di quest’uomo ci pare già abbastanza. Possiamo collocare dentro Napoli, l’atmosfera, la luce, l’altezza, il punto da cui ha visto e dal quale lo ha guardato il cielo in quel suo primo giorno.

E poi, se devo dirla tutta, la soddisfazione è che queste giornate ci hanno confermato che chiedere ai napoletani è un bel piacere, e che battono ancora di gran lunga pure internet, quando li metti in rete, anzi è molto più bella la parola insieme.

(Fine seconda parte, continua qui).

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

* È accertato da lettere dell’anarchico russo, che la reale paternità delle figlie dichiarate da Bakunin fosse, con Bakunin consapevole e dimostrante grandissima umanità e non attaccamento, dell’avvocato napoletano Carlo Gambuzzi. Vedi ultimo testo tra i Riferimenti sotto.

Riferimenti:

  • Ermanno Rea: “Mistero Napoletano”, ed. Einaudi, 1995.
  • Romano Gatto, Laura Toti Rigatelli: “Renato Caccioppoli. Tra mito e storia”, ed. Morgana, 2009.
  • Michail Bakunin, “Viaggio in Italia”, ed. elèuthera, 2013.
  • Atti Accademia Pontaniana, Napoli N.S., Vol. LXIII (2014), pp. 119-162 “Marussia Bakunin: una rilettura aggiornata della vita e della carriera. Nota del socio ord. res. Carmine Colella”

IL MATEMATICO NAPOLETANO (1/5) – Caccioppoli, alla ricerca dei luoghi del professore geniale

Da un po’ di tempo stiamo andando in cerca, come abbiamo già fatto per Giacomo Leopardi, dei luoghi napoletani di un altro personaggio molto interessante.

Un uomo altrettanto internazionale, poliglotta, sensibile e geniale. Solo che invece di guadagnarsi da vivere scrivendo poesie, campava insegnando matematica e inventando teoremi.

A pensarci bene neanche in questo, tra i due, la differenza è molta. Perché per creare un teorema ci vuole una grande capacità di volare alto per vederlo, d’intuito, e poi di scavare sotto terra, in profondità, per tirare fuori le prove che convincano anche gli altri, quelli che con l’intuito non ci riescono ad arrivare, la dimostrazione.

Renato Caccioppoli (foto dal web)

Si chiama Renato Ciro Agostino Caccioppoli, per molti ‘o genio o ‘o prufessore.

Su di lui hanno scritto tante cose. Ne sentivo parlare da molto tempo, poi ne ho trovato traccia in un libro bellissimo: “Mistero napoletano”, di Ermanno Rea, che mi ci ha fatto definitivamente avvicinare.

C’è anche un film famoso, del 1992, “Morte di un matematico napoletano”, di Mario Martone. Che però della vita racconta soltanto il finale. M’aveva lasciato una strana sensazione quel film, un gusto amaro. Probabilmente perché amaro era quell’uomo negli ultimi suoi giorni, e più pesante.

Poi, andando alla ricerca dentro ai libri, sopra le fotografie, mi è sembrato di vedere anche un altro uomo: sottile, sottilissimo, non ben piazzato sulla terra come quell’attore.

Dicono pesasse meno di cinquanta chili, che moltiplicato per l’altezza, uno virgola settantasette, fa una figura geometrica lunga e sottile. Il poeta Andrè Gide forse aveva colto questo quando lo aveva definito un’anima, ma anche l’uomo più intelligente di Napoli.

Renato Caccioppoli (foto dal web)

Sembra lungo e trasparente il professore, dentro questi libri, e così complesso da restare oscuro. Partigiano della pace, comunista senza tessera, senza mai farsi ingabbiare, leader naturale perché chi sta avanti chilometri agli altri, se non tiene la sua visione per sé soltanto, non può che guidare.

Ma procediamo piano, ché qua, per troppo entusiasmo, vi sto dicendo tutto nel verso esattamente opposto a quello giusto. Allora andiamo insieme, passo per passo, sulle tracce di quest’uomo ricco che aveva addosso sempre lo stesso vestito e camminava quasi solamente a piedi.

Via Mezzocannone 8

Partiamo da via Mezzocannone 8, la strada centrale, a Napoli, dell’Università “Federico II”. Qui c’è la sede storica del dipartimento di matematica e stamattina la andiamo a visitare.

Portale del ‘400, marmo nei pavimenti, dietro il vetro della guardiola c’è l’usciere, attento. Buongiorno, mi potrebbe dire dov’è la stanza del prof. Carbone?

Ha un attimo di esitazione; allora io: mi sta aspettando, ho un appuntamento. Però so solo il piano, non l’interno esatto.

Riprende fiato: in fondo a sinistra trova l’ascensore, al quarto piano trova i colleghi e può chiedere a loro con più precisione.

Entro. Dopo pochi metri c’è un busto molto grande, il cappotto ha le spalle troppo larghe, eccolo, non me l’aspettavo, sta già qua davanti a noi il professore, perché questo dipartimento adesso porta il suo nome: Dipartimento di Matematica e Applicazioni “Renato Caccioppoli”. Che fosse un genio lo avevamo capito, ma teneva davvero ‘na capa accussì enorme?

Il busto nell’atrio di Mezzocannone 8

Al quarto piano mi indicano una porta a vetri antica, grande, a forma di arco. Fuori bisogna bussare a un citofono moderno.

Forse sto posto mi fa troppa emozione: se non era per la ragazza del bar, che sta portando il caffè, stavo lì a spingere la porta invece che tirarla per altre due ore.

Finalmente oltre c’è un altro corridoio spazioso, lungo. E a sinistra, in fondo, una grande scritta in oro sotto un fregio di marmo: “Istituto di Analisi Superiore”; più in alto di questo non potevamo arrivare.

La porta si apre: spunta un signore placido in maglione azzurro.

Buongiorno, piacere professore.

Ci accoglie in questo ambiente rimasto com’era da molto tempo: le porte di legno, i pavimenti, le poltrone. E ci porta subito a vedere una cosa, il fulcro, il centro: la stanza personale di Renato Caccioppoli, professore, soprattutto di Analisi Matematica, in questa Università dal 1933 al suo ultimo giorno.

Sto fotografando troppo in fretta: troppe cose rare. Provo a rallentare.

C’è una scrivania di legno rosso dentro la luce d’oro, laterale, di questa giornata che avevano previsto di pioggia.

La scrivania del professor Caccioppoli

Fotografo, fotografo; ad un certo punto però mi pare che non sto acchiappando niente, di scattare a vuoto.

Allora glielo dico: però, professore, mi sembra una stanza in uno stile esattamente opposto, per quello che ho letto, a quello del professor Caccioppoli. Dicono tutti che era una persona molto alla mano, senza nessuna velleità formale; elegante, ma di un’eleganza … interiore per approvare questo stile forse un po’ di rappresentanza?

La vista dalla stanza del prof. Caccioppoli

E lui, in poche parole: sì, infatti io credo che lui qui si appoggiasse soltanto.

Ah ecco, sta poltrona l’avrà visto seduto chi sa quante volte. Però sul mobile a fianco c’è un busto, piccolo stavolta, e acuto, somiglia molto alle espressioni nelle foto che abbiamo visto in questi giorni, prima di partire.

Il busto nella stanza

Le stanze subito attigue invece sono nel suo stile. Scrivanie essenziali, una lavagna con sopra scritte delle formule, poi troviamo lo stesso pavimento identico di una delle case napoletane di Leopardi.

Queste sono le scrivanie degli assistenti, sono due stanze una di seguito all’altra: la distanza dalla prima scrivania era direttamente proporzionale, in qualche modo, alla vicinanza ideale al professore.

Allora ci viene in mente che quella alla quale siamo seduti adesso il professor Carbone e io, doveva essere la scrivania di don Savino Coronato, ‘o prevete, lo storico assistente e amico, sacerdote, di un professore comunista ateo.

Nell’ultima stanza c’è una bella raccolta di modelli.

Ecco, fino ad ora io pensavo che un modello matematico fosse una parola riguardante un pensiero immateriale. Mo invece i modelli fisicamente li vedo dentro queste vetrine: vedere per capire, capire per vedere, mi dice il professore. Ci si faceva prima un’idea generale di un “pensiero matematico” ma poi per cercarne i dettagli si faceva realizzare (molti di questi vengono addirittura dalla Germania) un modello reale, fisico, che si può toccare. Perché per certe geometrie complesse non si riesce a immaginare tutto.

Poi mi fa notare dentro le vetrine dei congegni meccanici. E mi dice: servivano per calcolare.

Per esempio per calcolare l’area sottesa ad una curva (che si può chiamare pure “integrale”) si disegnava la curva su un foglio, poi mentre con la punta di uno di questi congegni si seguiva la curva disegnata, dall’altra parte un’altra punta tracciava su un altro foglio l’andamento numerico dell’area. I computer sono una cosa di pochi anni. Per molto tempo i sistemi sono stati altri.

Anche le fotocopie, ci dice il professore, fino a non molti anni fa non esistevano o erano rare e quindi si realizzavano di un libro gli “estratti”. Fascicoletti di un singolo argomento trattato nel testo. Così si potevano dare in prestito agli studenti senza rischiare che il libro venisse “perso”. E mi mostra una libreria di estratti dentro uno scaffale alto. Sopra, sotto il soffitto, una macchia di umido aspetta.

L’aula per le presentazioni scientifiche ai docenti

La porta per l’ingresso del relatore

Poi il professore ci porta a vedere la stanza dove si facevano le presentazioni scientifiche ai colleghi. È arredata con le sedute del coro del convento dei gesuiti che stava qui dentro. Perché qui siamo in quello che era la Casa del Salvatore, la Casa Madre dei Gesuiti fino al ‘700. Quando furono smantellati quei locali si riuscì a salvare questi arredi e portarli in queste stanze.

C’era una certa attenzione al colpo di scena, e infatti qui, vede, c’è una seconda porta. Quando il pubblico era seduto intorno, compariva il professore da quest’altra per la lezione.

Lui attribuisce anche a Caccioppoli, probabilmente, una tendenza a fare scena. Qualcosa di vero ci dev’essere se venivano ad assistere alle sue lezioni anche studenti di altre facoltà e persone che con la matematica non c’entravano assolutamente niente.

E ci racconta un aneddoto famoso che era studiato con premeditazione, non solo, ma ci assicura che questo, a differenza di altri di cui non si ha certezza, aveva fino a non molto tempo fa testimoni viventi.

Un giorno si presenta a sostenere l’esame col professore una ragazza. Be’, Caccioppoli, sebbene molto amato dagli studenti, non era affatto largo di voti e neppure di promozioni: allora ad un certo punto chiede alla studentessa di tracciare alla lavagna una retta, poi di prolungarla, poi di continuarla ancora perché si sa, la lunghezza di una retta non ha fine; poi la lavagna finisce e comincia il muro ma il professore è molto esigente: continui, continui. L’idea era di farla uscire, povera, senza essere stata promossa, in compagnia di quella retta.

E non finisce qui, l’evento ebbe una continuazione serale poco conosciuta. La studentessa in questione era nota a Caccioppoli in quanto figlioccia di un’assistente universitaria, Maria del Re, la cui casa era frequentata dal professore. Allora la sera il professore e la ragazza si incontrano casualmente in quella casa e pare che lui le abbia chiesto: “Lina, ti vedo abbattuta. Che ti è capitato?”. Sembra che Caccioppoli non amasse per nulla le persone che pensavano di ottenere dei vantaggi dalla semplice conoscenza personale e allora quella ragazza rientrando, forse, nella mente del professore, in quella categoria, ricevette un trattamento un po’ feroce.

Abbiamo telefonato nei giorni seguenti alla figlia della signora in questione. Ci ha confermato la cosa dai racconti della madre. Ha aggiunto però, per la precisione, che quel trattamento pare sia stato riservato a ben più di uno studente.

La vecchia lavagna orizzontale

Mo andiamo in giro per le aule di lezione, quelle più antiche. Ad un certo punto il professore si infila in una porticina, poi quasi al buio su per una scaletta. Pochi metri e usciamo in alto, sul fondo di un aula in discesa.

Una delle vecchie aule

È una delle ultime aule rimaste come allora. Chi sa che non sia esattamente il luogo in cui è successo quell’evento, perché dietro la lavagna moderna, che sale e scende in verticale, ce n’è una lunga lunga, orizzontale, e poi un breve tratto di muro, prima della porta, su cui disegnare.

La sala “Battaglini”

Sempre qui al quarto piano c’è anche la stanza utilizzata a quei tempi per le riunioni tra docenti, è la sala “Battaglini”.

La sala Battaglini

Entriamo e alle pareti ci sono i nomi dei matematici più famosi del mondo fino al ‘700 e oltre. Nel film di Martone, Caccioppoli, durante una riunione in questa sala, poiché non era interessato alle questioni economiche, prima si mette a leggere disteso sopra al tavolo che adesso abbiamo di fronte, poi ci si addormenta e ci rimane da solo. Ma non era mancanza di rispetto verso Giuseppe Battaglini, tutto al contrario, perché il “Giornale di matematiche” che Battaglini aveva fondato, Caccioppoli, insieme al professor Carlo Miranda, lo diresse proprio. Ecco forse lui badava alle cose importanti, recuperava sonno su quelle di normale amministrazione.

Andando in giro per questi ambienti in cerca di tutte le stanze ad un certo punto ripassiamo davanti ad un’antica libreria. Sul ripiano più basso, proprio sullo spigolo, adesso c’è appoggiato un pacchetto di sigarette che non c’era; fai che di qua nel frattempo è passato Caccioppoli e non l’abbiamo visto, lui che era un grande fumatore.

Poi scendiamo per queste scale coi gradini di piperno per andare a vedere un altro luogo, dentro questi stessi palazzi, in cui Caccioppoli era familiare, l’Accademia Pontaniana. Di questa Accademia non solo fu membro, ma subito dopo la fine della guerra fu tra quelli che si impegnarono di più per farla rinascere dalle ceneri dei bombardamenti.

Libri dappertutto in queste sale immense, eleganti. L’aria che si respira è diversa da fuori. Non siamo nel 2018, siamo senza tempo.

Ci sono anche due grandi sale per convegni. Una è l’aula magna. La sensazione, per un attimo, è di vedere le riunioni politiche degli anni ’50. Forse perché leggendo del professore, i racconti di quelle pagine, richiamano atmosfere uguali.

Appeso al muro c’è un ritratto di donna in una cornice d’oro. Quello è il ritratto della zia di Caccioppoli che si trova in molti libri, ci fa notare il professor Carbone: Maria Bakunin, sorella della mamma di Caccioppoli, era stata presidente di quest’Accademia addirittura.

Lo scalone della Minerva

Mentre percorriamo queste scalinate, da una finestra compare per un momento un altro luogo legato al ricordo del professore: è lo Scalone della Minerva.

Qui nel giugno del 1952, quando gli americani si erano impossessati del porto di Napoli con la loro Sesta Flotta e la gente e gli operai e gli studenti, in occasione dell’arrivo del generale Ridgway (il “generale peste” perché in sospetto di aver fatto uso di armi batteriologiche nella guerra di Corea), manifestavano contro la guerra fredda, Renato Caccioppoli era uno dei massimi esponenti dei Partigiani della pace.

Abbiamo scovato la pagina de l’Unità che lo racconta, è quella di martedì 17 giugno 1952. Ecco il brano che ci riguarda in senso stretto.

“…Il secondo episodio della giornata ha avuto a protagonisti gli studenti universitari napoletani che in numero di molte centinaia hanno manifestato per la pace e l’indipendenza nazionale distribuendo volantini e riaffermando a voce alta dinanzi allo Ateneo i loro sentimenti. Successivamente, mentre la Celere cingeva di cordoni l’edificio, una grande assemblea è stata tenuta sulla grande scalinata interna dove ha parlato il prof. Renato Caccioppoli, ordinario di analisi matematica e membro del Comitato provinciale dei Partigiani della Pace. La polizia non ha osato però questa volta dare l’ordine di penetrare nell’Ateneo e solo più tardi il prof. Caccioppoli è stato invitato in questura per un interrogatorio durato oltre due ore. …”

E così ci ricorda Ermanno Rea di quella stessa mattina: “all’università, accerchiata da cordoni di celerini, sulla grande scalinata interna si svolse un’assemblea molto affollata alla presenza del nostro professore-idolo: Renato Caccioppoli. In omaggio all’assolata giornata pre-estiva egli si offrì al nostro sguardo senza il suo amatissimo impermeabile bianco, la cui assenza ce lo fece apparire quasi implume. Nudo. Nonostante la giacca doppiopetto marrone. Ci tenne uno dei suoi ineffabili discorsi, ma insolitamente avaro d’ironia. Piuttosto duro, preoccupato. Del tipo “prepariamoci al peggio”. Dopo l’assemblea mentre se ne stava andando la polizia lo bloccò. …uomini in borghese… agenti… Soltanto a sera seppi che era stato trattenuto oltre due ore in questura dove, dopo avergli contestato passi del discorso svolto all’interno dell’università, lo avevano diffidato “a partecipare ad alcuna manifestazione non previamente autorizzata”.

Ecco perché il signore di cui stiamo parlando non era solo un matematico, seppure geniale.

Il Cortile delle Statue

Giordano Bruno nel Cortile delle Statue

Poi scendiamo ancora ed arriviamo in uno spazio enorme: è il Cortile delle statue. Ci vengono incontro appena appena, tra gli altri, Leopardi e Giordano Bruno.

Questa città è un pozzo senza fondo. Questa città puoi scavarla in eterno. Il professore mi accompagna fino al portone su via Paladino, poco prima c’è un’iscrizione in marmo: “a Papa Clemente quattordicesimo che con bolla del 21 luglio 1773 aboliva la Compagnia di Gesù…”.

Poi usciamo e, a sinistra e a destra, i basamenti dei pilastri ai lati del portone mi accorgo che erano quelli di un tempio. Di nuovo la stessa sensazione. Uno pensa di andare in giro per Napoli a scavare nel passato, e poi si rende conto che non la sta quasi scalfendo neppure.

Ci fermiamo qui per oggi in questa ricerca perché di luoghi da cercare del professore ce ne sono tanti. A presto, se volete, per un’altra parte di questa escursione.

(Fine prima parte, continua qui)

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Riferimenti:

  • Ermanno Rea: “Mistero Napoletano”, ed. Einaudi, 1995.
  • Ermanno Rea: “Il caso Piegari”, ed. Feltrinelli, 2014.
  • Romano Gatto, Laura Toti Rigatelli: “Renato Caccioppoli. Tra mito e storia”, ed. Morgana, 2009.
  • Renato Caccioppoli: hanno detto di lui”, a cura di Francesco Chiacchio, Flavia Giannetti, Carlo Nitsch. Università degli studi di Napoli Federico II, Accademia Pontaniana, COINOR, 2009
  • Caccioppoli intimo”, nota di Luciano Carbone e Maria Talamo. Rend. Acc. Sc. fis. mat. Napoli Vol. LXXVII, (2010) pp. 63-108.
  • Piero Antonio Toma: “Renato Caccioppoli, l’enigma”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2° ediz. 2004.
  • Tullio Saldaneri: “Il Gruppo Gramsci”, ed. Homo Scrivens, 2015.
  • Esther Basile: “Il giacobino di Monte di Dio”, ed. Homo Scrivens, 2017.

LEOPARDI A NAPOLI (2/2) – La seconda puntata sui luoghi napoletani del poeta

Eravamo rimasti, nella puntata scorsa, in questo nostro viaggio alla ricerca dei luoghi di Leopardi, accennando all’ultima casa napoletana occupata da lui e da Antonio Ranieri  (lo potete chiamare Totonno se pure voi siete poeti).

È la casa dove hanno vissuto più a lungo a Napoli, dal maggio del 1835 al giugno 1837, e si trova in vico Pero n°2. Affaccia su via Santa Teresa degli scalzi, poco sopra il Museo Nazionale.

Se guardate il palazzo da questa strada, all’incrocio con via Materdei, vedete la lapide che ricorda l’accaduto. È stata proprio questa iscrizione, vista una mattina, che ci ha suggerito l’idea di andare a cercare per Napoli Leopardi. Ed è il posto, durante questa ricerca, dove più spesso siamo stati. Adesso ci ritorniamo e, grazie alla cortesia dell’attuale proprietario, riusciamo ad entrare proprio nell’abitazione.

È una casa vasta, ma a noi, che non volevamo essere troppo invadenti, bastava scattare una foto dal balcone: la casa, sono passati quasi due secoli, è ovviamente cambiata e a noi del poeta interessa la visione. Nella foto vedete ripreso di lato il balcone dal quale si affacciava il conte, dà su via Santa Teresa. Sembra che amasse molto starsene qui affacciato a guardare fuori. Oggi forse, con il traffico delle macchine è meno pittoresco, ma se uno prova a ricostruire col pensiero come poteva essere senza il pullman che sta passando adesso, forse si immedesima un poco negli occhi del poeta.

Questa non è una casa qualunque, è stata l’ultima casa terrena di Leopardi, è qui che è passato oltre, il 14 giugno 1837, proprio oggi, 181 anni fa.

Allora ringraziamo molto il proprietario che gentilmente ci ha aperto pure se stava in vestaglia, e torniamo in strada.

Ma pensando a quell’ultimo giorno teniamo dentro un poco di silenzio. Cca ce vo nu cafè, il bar più vicino sta a pochi metri, sullo stesso lato del palazzo, sempre su via Santa Teresa, entriamo. Dietro al bancone ci sta un signore affabile coi baffi e gli occhiali rossi, ogni volta che siamo venuti in questo bar sulle tracce di Leopardi ci ha detto sempre qualche notizia, anche a lui incuriosisce ‘sto poeta. Alla moglie invece sta antipatico, ogni vota ca trasimme ci dice: si però Leopardi era tropp’ triste, una sola poesia sua è bella: “A Silvia”.

E noi ogni volta proviamo a difendere un poco la memoria del poeta: si ma “L’Infinito” per esempio, ve la ricordate? A me, rileggendola adesso, mi pare molto positiva, mi sembra la descrizione perfetta di un attimo di illuminazione.

Ma a giudicare dall’espressione della signora nun l’avimme convinta. Però almeno ce simme pigliat nu buonu cafè e distratti nu poco.

Poi ci viene in mente una domanda: ma Leopardi, quando usciva di casa aro’ se ne ieva?

Un luogo di sicuro lo ha visitato, abbiamo le prove. Si trova a piazza Dante, che a quell’epoca si chiamava ancora piazza del Mercatello: è la scuola del marchese Basilio Puoti, accademico della Crusca e compilatore anche di un bellissimo Vocabolario domestico napoletano e toscano. In quella scuola di belle lettere andava un giovane ragazzo che diventerà famoso, Francesco De Sanctis, e quel ragazzo in un suo libro così ci racconta:

Una sera egli (Basilio Puoti ndr) ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi … quando venne il dì grande era l’aspettazione … Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentre il marchese gli andava incontro. Il conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri, ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso. Uno degli <Anziani> prese a leggere un suo lavoro. Il marchese interrogò parecchi, e ciascuno diceva la sua. Poi si volse improvviso a me: “ E voi cosa ne dite, De Sanctis?” … Parlai una buona mezz’ora e il conte mi udiva attentamente, a gran soddisfazione del marchese, che mi voleva bene. …Quando ebbi finito, il conte mi volle a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse ch’io avevo molta disposizione alla critica…… Il marchese, che, quando voleva, sapeva essere gentiluomo, usò ogni maniera di cortesia e di ossequio al Leopardi, che parve contento quando andò via. La compagnia dei giovani fa sempre bene agli spiriti solitari. …” (1)

Insomma non solo c’era stato ma s’era pure divertito. (C’o vulesse ricere alla moglie del barista n’coppa Santa Teresa).

Ormai avete capito che dopo aver letto di sicuro siamo andati a vedere.

È il palazzo rosso che sta esattamente, su via Toledo, di fronte a Port’Alba. La facciata è imponente e anche il portone. Al primo piano sventola l’insegna di una Accademia del make-up, cambiano i tempi e i tipi di scuole, e ci viene da sorridere un momento pensando alla faccia del marchese Puoti che non voleva nomi altisonanti: voleva che la sua accademia venisse chiamata semplicemente studio. Entriamo oltre il portone, a destra c’è una scuola di tango, a sinistra una confraternita. Insomma palazzo Ruffo di Bagnara, costruito all’inizio del ‘600, restaurato dal fratello di Domenico Fontana, attaccato dai rivoltosi di Masaniello nel 1647, sede del Comitato Napoletano di Liberazione Nazionale alla fine dell’ultima guerra mondiale, ne ha viste, e continua a vederne, di tutti i colori. (3) Poi ci avviamo oltre il cortile, c’è una scala bellissima, ampia, dopo le prime rampe venite accolti da un gruppo scultoreo enorme. Negli angoli dei pianerottoli ci sono delle piccole sedute. Le fotografiamo chiedendoci se per caso Leopardi, salendo quella sera questa scala non si sia fermato qui un momento per riprendere fiato. Incontriamo due inquilini ma nessuno dei due sa dirci dove fosse quella scuola. Lasciamo a voi di indagare oltre, a noi per ora è bastato varcare quella soglia e salire i gradini in compagnia del conte.

Poi a Napoli arrivò il colera. E De Sanctis di nuovo ci racconta: “Le immaginazioni furono colpite; la paura rendeva irresistibile l’epidemia. … Non c’erano allora giornali; il governo col suo mutismo accresceva il terrore e provocava le esagerazioni. … La vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe, erano deserte”. (1) E quindi anche lo studio del Puoti per un po’ dovette chiudere, “…il marchese con tutta la sua famiglia s’era ricoverato in Arienzo”.(1)

E pure Leopardi e Ranieri per cercare di proteggersi dal morbo decidono di spostarsi in campagna, a Torre del Greco, nella casa di Giuseppe Ferrigni, cognato di Ranieri. Quella diventata famosissima per una poesia, Villa delle Ginestre. Sta in mezzo alla campagna, vicino al Vulcano, sotto.

Ci andiamo una mattina in circumvesuviana. Questo posto è così importante nella nostra memoria collettiva che la ferrovia gli dedica una fermata intera: Villa delle Ginestre. Scendiamo. Sul treno ci stava un milione di persone che andava a Pompei, a questa fermata siamo scesi soltanto noi. Subito fuori alla stazione, troppo amata da chi scrive sui muri, molto meno, sembra, da chi quei muri dovrebbe curarli, c’è il cartello con la storia della villa. Poi iniziamo a salire a piedi. Proviamo a cercare una strada secondaria, per pedoni, ma pur chiedendo e richiedendo ci spediscono tutti su un vialone largo buono più per le automobili; però almeno ci sono le indicazioni per la villa. A un bivio la strada comincia a farsi più stretta. Siamo quasi arrivati, si gira per campagne.

La terra è nera di Vesuvio, ci sono gli orti. Una signora sta proprio adesso nel suo campo a raccogliere i piselli. C’è qualche vite per pochi e qualche albero da frutti. Poi finalmente la casa: il cancello è semichiuso però si passa. Già il cortile è bellissimo, ampio, panoramico: si vede Capri nell’acqua. La porta a vetri è accostata ma basta usare la maniglia.

È un ambiente centrato, a forma di quadrato. Un gentilissimo dipendente del comune ci accoglie e ci lascia salire, siamo gli unici visitatori. La scala per il piano di sopra ha le alzate comodissime: sembra l’abbia disegnata il Vanvitelli che in questa casa è stato ospitato. Secondo me ha accentuato la prospettiva di questa scalinata, stringendola man mano che si sale in alto. Ricorda un poco quella della Reggia di Caserta, che vista da lontano sembra enorme ma poi a salirci ha i gradini bassi bassi e finisce subito. Poi finalmente la stanza del poeta.

Ci sono mobili dell’epoca, il letto con le tavole, la scrivania. Dalla finestra non si vede il Vesuvio. Ma il monte si sente in questo posto, è alle spalle, ma è come se fosse dappertutto. E doveva essere ancora più forte la sua presenza all’epoca perché era molto più attivo, di notte si vedevano le fiamme.

Poi da una scaletta corta che mentre salite sembra portare in cielo, andiamo sul tetto della casa: è una grande terrazza. da qui si vede bene che questa villa sta sulla linea esatta tra il Vesuvio e Capri, fuoco e acqua, dio Vulcano e Sirene di mare. Poi riscendiamo.

All’uscita il custode ci mostra una reliquia, qualcuno che il poeta lo ha conosciuto di persona: è il cipresso che sta qui a fianco alla villa. Vedete un cipresso particolare, sembra consumato dalla vita ma resiste, ormai è diventato amico del tempo.

Poi chiediamo al guardiano se c’è un’altra strada, pedonale, per tornare al treno e con grande gentilezza ci apre un grande cancello, dalla parte opposta dalla quale siamo entrati. Fuori c’è il basolato e le recinzioni delle altre campagne. Pini molto alti, larghi con il loro ombrello, fino a un vecchissimo cancello un poco sbilenco, usciamo e fuori c’è scritto Villa delle ginestre. Adesso sembra l’ingresso di servizio, era invece quello principale molto indietro nel tempo.

Continuiamo a scendere, seguendo le indicazioni ricevute dal custode: è una strada strana, corre tra due muretti neri, ci passa solo una fila di macchine, allora chi ci arriva per primo, suona il clacson per prendersi lo spazio e fermare chi viene dal lato opposto. Si torna tra le case moderne, poi per riprendere il treno c’è un’altra stazione, questa ha proprio un nome poetico, si chiama Leopardi.

Ma se è vero quello che dice il Ranieri: “nessun uomo al mondo ha tanto odiato la campagna quanto Leopardi la odiava, dopo averla tanto inimitabilmente cantata. …Napoli l’attraeva come la stella attrae il pianeta” (2) (pare di sentire Woody Allen che fuori da New York, anzi Manhattan, non riesce a campare), non ci meraviglia sapere che appena può, appena l’epidemia di colera sembra essersi calmata, chiede di tornare a Napoli. E allora torniamo pure noi nella Capitale.

Una delle volte che eravamo andati a bussare alla casa di vico Pero per prendere notizie, ispirazione, o vedere se ci facevano entrare, dopo eravamo andati pure al bar di cui già vi abbiamo parlato, si chiama bar Puoti, mo v’o ddicimme, chè non è un segreto.

Mentre prendiamo un caffè facciamo come al solito due chiacchiere col proprietario e come sempre esce in mezzo Leopardi. Il signor Puoti però stavolta ci fa: “lo sapete che il certificato di morte sta ancora nella chiesa qua dietro?”

Ah, e questa è una notizia che non avevamo ancora afferrato. Ci incuriosisce vedere un documento scritto quel giorno. Andiamo alla chiesa, parliamo col parroco, poi chiediamo i permessi necessari, e finalmente una mattina torniamo per vedere.

Il diacono ci sta aspettando, ha già preso dall’armadio il registro con su scritto “1837” e lo ha poggiato sul tavolo. È un librone rilegato in pelle, chiuso con lo spago, e scritto credo con la penna d’oca. Sulla sinistra una freccia tracciata a matita indica l’ospite illustre di cui in mille avranno chiesto. Sono tre righe esatte, in un italiano di un’altra epoca, separate da altre registrazioni fatte lo stesso giorno, 14 giugno 1837, soltanto da due linee orizzontali: andate a vedere tra le immagini, lo abbiamo fotografato.

Come sapete anche la tomba del poeta si trova nella nostra città, vicino a quella di un altro poeta, molto più antico e pure lui nato più a nord del nostro golfo, Virgilio.

Intorno alla sepoltura anche c’è parecchio mistero: Ranieri sostiene di essere riuscito, dietro molte insistenze, e l’intervento del ministro Delcarretto, a farlo seppellire nella chiesa di San Vitale, a Fuorigrotta. Altri sostengono che il corpo sia invece finito, a causa del colera che imperversava in città in quei giorni, nelle fosse comuni, nel rione Sanità, altri raccontano ancora altre storie.

Oggi comunque al poeta sorge un grande monumento, in un parco tranquillo, recintato di alloro. C’è anche la lapide che prima si trovava presso la chiesa di San Vitale, con la civetta simbolo di saggezza, e il serpente in circolo che ricorda il ritorno delle cose del mondo. Alla base del monumento ci sono dei fiori. Anche in questo posto di Leopardi c’è pochissima gente ma non è abbandonato.

Il parco continua verso la tomba del poeta latino. C’è l’altro ingresso della Crypta Neapolitana, la prima galleria che metteva in comunicazione Napoli con la zona di Agnano. Appena fuori c’è una iscrizione con versi di Leopardi che parla di Virgilio. Poi si sale una scaletta di tufo, e c’è un piccolo edificio a forma di cono. Subito fuori ci sono le iscrizioni antiche che dicono che qui si conservano le spoglie del poeta mantovano. All’interno c’è un braciere a tre piedi di ferro: ha dentro un ramo di alloro, quello dei poeti, che cresce qui attorno, e nel piatto stamattina ci sono tanti biglietti colorati, qualcuno ha scritto pure su quello del pullman: dediche a Virgilio ma pure a Leopardi. Il tempo mischia le carte per quelli che dentro la memoria delle persone conservano uno spazio. Sono dediche interessanti, commenti seri e battute di spirito, ce ne sta pure una in una lingua orientale fatta di ideogrammi: l’unica cosa che capisco è Virgile, la parola finale.

Siamo arrivati alla fine di questo nostro viaggio e vorremmo darvi un consiglio: se una domenica non tenete idea di dove passeggiare noi vi suggeriamo l’idea di partire da sopra al Museo Nazionale, di andare poi lungo via Toledo, verso i Quartieri Spagnoli, andare insomma da una casa all’altra a trovare il poeta, pure se non potete salire ché lui sta dormendo e Paolina, la sorella di Ranieri che lo accudisce, non vi farà entrare.

Se poi girate per Spaccanapoli, in via Domenico Capitelli 14, all’angolo con via Cisterna dell’Olio, c’era la bottega di Starita, l’editore napoletano dei “Canti”. Leopardi lo chiama “pidocchioso libraio, il quale… sicuro dello spaccio, ha dato la più infame edizione che ha potuto, di carta, di caratteri e di ogni cosa”. E quando uno non fa un lavoro fatto bene si sa prima o poi è destinato a chiudere. Oggi al posto del libraio trovate un negozio in cui potete entrare per farvi un bel panino: al posto della carta per libri trovate la carta per avvolgere la mozzarella.

Poi verso piazza Carità vi potete rinfrescare mettendo uno sopra all’altro 3 o 4 gelati, però non dite che è un’idea vostra perché l’ha inventata il conte nella Bottega del Caffè di Vito Pinto. Scendendo ancora vi potete fermare all’angolo di via Toledo di fronte a via San Giacomo, qua ci stava il Caffè Trinacria dove Leopardi sembra che chiedesse quasi più zucchero che caffè dentro una tazzina.

Insomma ve ne andate a spasso pensando ad un poeta che amava andare in giro per queste stesse strade.

Poi potreste andare dentro la Biblioteca Nazionale, dentro Palazzo Reale: dice che mo è diventato un posto di moda, però voi magari andateci soltanto per vedere le sale bellissime, in silenzio, e farvi prestare un libro del conte Giacomo. La maggior parte delle opere originali, scritte di persona da lui, e moltissime sue lettere, sono conservate dentro queste sale. Poi potreste passare per Santa Lucia, salire al Pallonetto, perché Leopardi amava mischiarsi con la gente. Dopo potreste scendere a vedere il mare lungo via Caracciolo e andare a cercare la tomba sopra piazza Sannazaro. Visto che vi trovate andate a trovare pure Virgilio, dalla sua tomba si vede il mare e il castello sull’isolotto di Megaride. Il finale migliore, quello che secondo noi avrebbe fatto il poeta stesso, che amava mangiare, è una delle pizzerie della zona, brindando alla vita eterna della poesia bella.

Mo però aspettate un momento, vi devo raccontare un fatto curioso, nun ce pozzo fa niente:

Una delle volte che ero andato al bar Puoti, vicino all’ultima casa di Leopardi, non c’era il signore solito dietro al bancone, c’era invece una ragazza giovane: aveva un’espressione molto dolce e portava un cappello di lana che dava l’impressione di una forma antica. Per un attimo resto molto sorpreso: gli occhi azzurri con lo stesso taglio, il naso, pure la forma della bocca; non lo so, in qualche modo, ma sarò io di sicuro che mi so’ fissato, mi pare, di viso, identica al conte.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Riferimenti:

1 Francesco De Sanctis: “La giovinezza”, Guida Editori

2 Antonio Ranieri: “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, Arturo Berisio editore 1965

3 Palazzi di Napoli www.palazzidinapoli.it

LEOPARDI A NAPOLI (1/2) – Viaggio nei luoghi partenopei del poeta di Recanati: nei palazzi e nelle case dove ha vissuto

Uno dei poeti più grandi del pianeta, Giacomo Leopardi, nato a Recanati, nelle Marche, ha trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita a Napoli, e nella nostra città è “passato oltre” il 14 giugno 1837. Abbiamo pensato di andare a vedere dove ha vissuto, i posti dove ha abitato, le strade che più ha frequentato, amato o odiato.

E allora iniziamo da una prima traccia:

Io Luigi Minchioni, padrone di vettura in Firenze, mi obbligo di condurre da Firenze a Roma, per la via di Perugia, in sette giorni di Cammino, dovendosi fermare la prima volta a Levane, la seconda a Cortona, la terza a Perugia, la quarta a Spoleto, la quinta, a mezzogiorno, a Terni e restare il resto della giornata per vedere la cascata, il sesto a Civita Castellana, ed il settimo a Roma, i Signori Antonio Ranieri e Conte Giacomo Leopardi, in una delle mie carrozze tirata da tre delle mie bonissime bestie, con l’obbligo di doverli mantenere di vitto e alloggio durante il viaggio alle qui appresso condizioni, cioè: Circa mezzogiorno dovrò fargli dare una colezione alla forchetta, consistente in due piatti caldi, pane e vino ec., il pranzo la sera, con due camere divise, letti e lume nelle migliori locande con biancheria di tela fine nei letti. Saranno parimente a mio carico tutte le spese stradali, sia di barriere, passi di fiumi, ponti, ajuti alle Montagne di cavalli o bovi, che potranno occorrere in detto viaggio. … Resta fissata la partenza alle ore sei o sette antimeridiane di domenica prossima, primo settembre. I suddetti-dico-I suddetti Signori saranno padroni di tutto l’interno della carrozza suddetta e di un posto nel cabriolet. … Firenze 30 agosto 1833. Fatto in doppio originale da ritenersi uno per parte” (1).

È il “biglietto di viaggio” di Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri da Firenze a Roma, che però è solo la tappa intermedia di un trasferimento che ha per destinazione finale Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie di Ferdinando II di Borbone.

E a Napoli, dopo una sosta di circa tre settimane nella città del Papa, arrivano il 2 ottobre 1833.

Ma perché questo viaggio? Perché spostarsi da Firenze a Napoli?

La salute del poeta, che nel 1833 ha 35 anni, è già malferma, e i due amici già negli anni precedenti si sono spostati, a seconda della stagione, d’inverno a Roma e d’estate a Firenze. Gli inverni fiorentini sono troppo rigidi per la costituzione fisica del conte marchigiano. Napoli ha un clima molto più favorevole ma Ranieri è bandito dal Regno, perché in odore di carboneria. Poi finalmente per gli esuli politici napoletani, si apre la possibilità di tornare nel Regno e non è un ritorno che si possa rimandare all’infinito: o si ritorna subito o si incorre in un nuovo esilio. Ma il giovane avvocato napoletano tarda a decidersi e quindi gli tocca chiedere di persona il permesso al Re. Lo stesso Ranieri ci racconta quell’udienza del 7 dicembre 1832:

L’accoglienza fu assai umana anzi ospitale. Esposi, con giovanile affetto e verità, e però con persuasiva eloquenza, il caso mio. Ferdinando (di cui i cortigiani potevano fare il migliore degli uomini e ne fecero il peggiore), negli inizi, allora, non punto spregevoli del suo regno, ne fu non leggermente commosso; e ruppe in queste sacramentali parole:

Ella è libera, da questo momento, e di godersi in villa le gioie della famiglia, e dell’andare a riprendere a Firenze il suo amico, e del menarlo qui a rifarsi di quest’aria; e n’abbia per pegno la mia parola. E parole sacramentali furono veramente; poiché la sera stessa ne corsero i più recisi ordini a Delcarretto” (ministro di Polizia ndr) (2).

La primissima casa di Leopardi a Napoli

Finora solo documenti scritti, racconti di terzi, adesso andiamo a vedere.

La primissima casa di Leopardi a Napoli, quella in cui i due amici arrivano il 2 ottobre, si trova poco sopra via Toledo, ai Quartieri Spagnoli, in via Speranzella numero 22 (3). Dalla fermata Toledo della metropolitana linea 1 basta salire dentro i Quartieri: non la prima ma la seconda traversa parallela a via Toledo è via Speranzella, giriamo a destra ed ecco il palazzo. Scattiamo alcune foto poi dal portone esce un signore e gli chiediamo al volo: Buongiorno, scusate ma in questo palazzo ci abitava Leopardi?

Leopardi, ah non lo so, però mo vi faccio parlare con mia suocera che abita qua da tanti anni, venite, sta nel bar di fronte.

Entriamo, chiediamo a questo, a quello; giovani e anziani, ma nessuno sa questa notizia. Però sarebbero contenti pure loro, sono curiosi, di sapere di questa cosa con maggiori dettagli. Siamo curiosi pure noi e ci aprono il portone per vedere dentro. Un palazzo ben tenuto, non lussuoso perché i due amici provenienti da Firenze stavano scarsi a finanze ed i fitti a Napoli erano molto cari, ma molto decoroso. Qui il poeta e l’avvocato abitano solo un mese, proprio perché l’affitto è caro: non era facile trovare alloggi a Napoli in quegli anni se non con contratti per lunghi periodi.

La primissima impressione generale del poeta su Napoli è favorevole, infatti così scrive al padre solo tre giorni dopo il suo arrivo, il 5 ottobre 1833:“…la dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli”.

Non sappiamo esattamente il piano e l’appartamento occupato dai due amici all’interno di questo edificio: di questa casa si sa molto poco, addirittura Ranieri, nel libro in cui racconta i “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi” non se ne ricorda.

Nel suo racconto la prima casa napoletana è un’altra, che sta anche in questo stesso quartiere, non lontano da qui, e Ranieri così ce la descrive:

“era, credo, al secondo piano, alla cantonata della via San Mattia, dava sulla così detta Loggia di Berio, ad un oriente ed un mezzodì saluberrimi”

era, credo, al secondo piano, alla cantonata della via San Mattia, dava sulla così detta Loggia di Berio, ad un oriente ed un mezzodì saluberrimi, a pochissimi passi da Toledo, a pochi dal palazzo Reale” (2) al civico 88 (1).

Si trova alle spalle della Funicolare Centrale. Se andate in cerca di notizie su questa abitazione trovate qualcuno che sostiene che fosse dentro Palazzo Berio, il palazzo con la testa di cervo nel cortile che ha l’ingresso principale su via Toledo. Ma non è così, a trarre in inganno chi racconta questo è stata forse la frase: “dava sulla così detta Loggia di Berio” citata dal Ranieri. Bene, Palazzo Berio all’inizio del 1800 aveva alle spalle, sul lato opposto a via Toledo, un giardino e un loggiato. Ecco, la casa in cui abitò Leopardi affacciava su quel loggiato ma faceva parte di un edificio diverso (1).

E allora andiamo a vedere questa seconda casa napoletana del poeta marchigiano: saliamo dai gradini che si trovano a sinistra della Funicolare Centrale, poi giriamo a sinistra e dopo pochi metri siamo a destinazione. Vicino al portone, seduto quasi per terra, c’è il fruttivendolo che pulisce la verdura. Azzardiamo la domanda solita: ma in questo palazzo ci abitava Leopardi? Il poeta? E la risposta questa volta è nuova: si questa è una delle case in cui ha abitato, poi ce ne stanno altre…e cita quasi tutte le case, quasi nell’ordine giusto: l’amore per questa città si può trovare in qualunque angolo, pure il meno assolato.

E non solo ci fa un po’ di storia ma chiama il collega che subito citofona alla signora nel palazzo per vedere di farci entrare.

Anche questo non è un palazzo ampio: sembra, come pure quell’altro di via Speranzella, a dimensione di poeta marchigiano, piccolo, con una scala quasi a chiocciola, un poco attorcigliata su se stessa. Qui la ricostruzione storica, sulla base del ricordo di Antonio Ranieri, ci dice esattamente quale fosse la casa abitata dai due amici, allora bussiamo proprio alla porta. La signora ci risponde dall’interno che lei abita qui da poco, non sa chi ci abitava prima. Vabbè tiene pure ragione, noi andiamo in giro a cercare di poeti ma uno pure vo sta in grazia e Dio rinte a casa soia.

Anche in questa abitazione i due amici rimangono solo pochi mesi: non ci fu grande simpatia tra il poeta e Rosa Lang, la padrona di casa. Una mattina Leopardi racconta all’amico di averla vista, di notte, introdursi nella sua stanza e rovistare tra le sue cose, in particolare dentro una cassetta in cui il conte tiene i suoi pettini. Probabilmente la signora era in cerca di medicinali. Dopo pochi giorni infatti esprime il sospetto che il poeta sia malato di tisi e vuole cacciarlo dall’appartamento.

Soltanto Ranieri riesce ad inventarsi qualcosa per rimanere almeno un altro poco. Va a prendere a casa niente di meno che il medico di Leopoldo di Borbone, zio del re, Principe di Salerno: il Dottor Nicola Mannella che abitava a largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito) “nel Palazzo del vecchio Principe, che è quello a destra di chi guarda il Palazzo Reale”, cioé Palazzo Salerno. Il medico aveva già visitato il poeta due volte in passato, conosceva già la realtà della malattia ed era uomo troppo onesto per dire il falso; però viene a visitare il poeta in casa e assicura alla proprietaria, con una formula degna di un grande diplomatico, che “quale che fosse potuta essere l’indole della malattia, essa non sarebbe mai potuta entrare ancora in un periodo contagioso”.

Ma i due amici riescono a strappare alla signora Lang, di poter restare solo fino allo scadere del mese di fitto, devono comunque cercare un’altra abitazione e grazie all’interessamento del Margàris, fraterno amico di origini greche di Ranieri, trovano, dal 10 dicembre, una nuova sistemazione al secondo piano del civico 52 in via Nuova Santa Maria Ogni Bene.

Siamo ancora una volta non lontani, nella stessa zona, a Montecalvario, però una cosa caratterizza questo nuovo indirizzo: è la casa che Ranieri definisce “le più vaste e belle stanze ch’io vedessi al mondo, le quali a poca distanza da Toledo, dominavano tutto il Golfo”.

Palazzo Cammarota

Qui ci potete arrivare facilmente in due modi: o da via Toledo per via Portacarrese a Montecalvario, di fronte allo slargo di via Ponte di Tappia, dove sta la libreria Feltrinelli, e alla nona traversa girate sulla destra, oppure scendete da Corso Vittorio Emanuele per la scala di San Pasquale, e così già vi potete affacciare dall’alto e assaporare un poco il panorama.

Arriviamo e c’è già una bella differenza: a fianco al portone finalmente c’è un cartello che dice “Palazzo Cammarota, residenza di Giacomo Leopardi”; ecco, un minimo di memoria e di riconoscimento. Superato il portone anche una iscrizione in marmo racconta la presenza, in ben due abitazioni dello stesso palazzo, del poeta marchigiano. I due amici in questo edificio hanno abitato in due appartamenti: dal 10 dicembre 1833 al 4 maggio 1834 al secondo piano e dal 4 maggio 1834 al 4 maggio 1835 al primo piano nobile, nella stessa verticale, quella di sinistra salendo la scala principale.

Al secondo piano adesso c’è uno studio medico. Arriviamo una mattina in cui c’è ambulatorio e aspettiamo l’ultima visita. Il dottore è ben lieto di mostrarci l’abitazione e di raccontarci. Ci mostra il punto in cui sembra ci fosse il tavolino su cui il poeta scriveva, proprio davanti al balcone. Questo è il panorama che Leopardi descrive nella sua lettera al padre il 5 aprile 1834: “…io sono passato a godere la migliore aria di Napoli abitando in un’altura a vista di tutto il golfo di Portici e del Vesuvio, del quale contemplo ogni giorno il fumo ed ogni notte la lava ardente” (4).

Il pavimento ci dicono che sia ancora quello originale, o almeno di molti anni. Le travi del tetto pure devono aver visto il poeta vivere in questa casa: sono immerse in intonaco nuovo, spuntano da un breve tratto di contro soffittatura, in mezzo a faretti per illuminazione, ma risalgono a più di due secoli fa e fanno ancora benissimo il loro lavoro. Dopo aver letto dei riferimenti del poeta e di Ranieri eravamo molto curiosi di vedere il panorama e la sorpresa è bella quando capiamo che si è conservato quasi intatto nonostante gli anni. Se non fosse per quell’albergo-grattacielo che spezza in due la vista del Vesuvio, sarebbe quasi come a inizio ‘800. Ci dice il proprietario che la salvezza non è casuale perché questo palazzo gode da secoli dell’ “altius non tollendi”, il diritto di non avere vicino, davanti, palazzi così alti da ostruire il panorama. Ma in questo appartamento Leopardi e Ranieri hanno tre stanze per sé ma sono in coabitazione con altri: hanno comune sala, anticamera e cucina. Allora dopo alcuni mesi passano al primo piano avendo a disposizione l’intero appartamento (4).

Poi c’è un’ultima casa in cui il poeta ha vissuto a lungo a Napoli, sta poco sopra il Museo Nazionale; però la storia di Leopardi nella nostra città è molto lunga, allora mo ci pigliamo una pausa e vi diamo appuntamento, se volete, ad una seconda puntata di questo racconto alla ricerca delle tracce napoletane del poeta di Recanati. A presto. (Fine prima parte, qui trovate la seconda parte)

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

 

Riferimenti:

1 Carlo Raso: “Giacomo Leopardi a Napoli”, Il Rievocatore.

2 Antonio Ranieri: “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”.

3 Angela Pinto in: “Giacomo Leopardi. Da Recanati a Napoli”, Macchiaroli Editore, Napoli 1998.

4 Carlo Raso: “Una sconosciuta abitazione napoletana di Giacomo Leopardi”.

NAPOLI IN BICI – Siamo andati a Gesualdo a visitare l’atelier di un “sarto” di biciclette

Settembre somiglia un po’ ad un secondo inizio d’anno: abbiamo addosso l’energia dell’estate, le giornate sono ancora belle, c’è voglia di muoversi, fare, provare a iniziare cose nuove, magari a pedalare.

E allora siamo andati a scovare in provincia di Avellino, a Gesualdo, un signore, un artigiano, che dagli anni ’90 costruisce biciclette con le sue mani. Quando gli abbiamo telefonato, una delle cose che ci ha detto: non troverai macchinari, gli strumenti che uso di più sono le lime, l’unica macchina che ho è un trapano a colonna perché i fori senza non li so ancora fare.

La filosofia ci sembra interessante e allora lo andiamo a trovare.

Il navigatore ci porta davanti all’indirizzo ufficiale, però al posto di un ciclista troviamo un grande negozio: Abbigliamento Forgione. Il cognome sarebbe quello ma, si sa, nei paesi se lo passano in molti. Allora telefoniamo per avere altre coordinate. Sì, allora esco e ti vengo incontro fa Vincenzo dall’altro capo del filo.

Dopo un secondo, dal negozio di abbigliamento esce lo stesso signore che avevamo visto sulla foto del sito. Sarto di biciclette allora proprio, pensiamo.

“Buongiorno, piacere, Vincenzo, ci andiamo a prendere un caffè prima di cominciare?” E dopo due metri siamo in una grande piazza luminosa, pulita, bianca; con la fontana e il panorama sulla valle sotto. Si inizia a parlare, poi si esce e il caffè non c’è bisogno di pagarlo subito, qui nessuno è straniero a nessuno, ci sarà un tempo più adatto per saldare.

Torniamo verso il negozio. Fuori c’è appoggiata al muro una mountain bike, è la bici personale di Vincenzo; l’ha costruita un sacco di anni fa: “ogni tanto aggiorno qualche componente, ho aggiunto i freni a disco ultimamente, però il telaio è sempre quello. La lascio sempre fuori, tutto l’anno, per vedere cosa succede alle intemperie alle bici che faccio”.

Entriamo. Ci sono mille vetrine con i vestiti esposti. Ha un poco il sapore, i colori, dei negozi di una volta. “Ho ereditato questo negozio dai miei genitori, e continuo a lavorarci; fino a quando non avrò sufficiente sicurezza dall’attività delle bici. Diciamo che siamo già a quel bivio. La decisione credo che non tarderà molto”.

Poi iniziamo a salire le scale nel negozio: al primo piano ancora vestiti. Verso il secondo la luce inizia ad aumentare; sulla parete lungo l’ultima rampa c’è scritto “COLUMBUS”: invece di stoffe questa è la marca dei tubi italiani per costruire bici più famosi del mondo.

Arriviamo in una specie di torre, la luce è chiara dal pavimento, dalle finestre e dagli specchi tutt’attorno: doveva essere una sala per misurare gli abiti; mo qui si prendono misure di ciclisti. Lungo le pareti ci sono diversi trofei vinti, prima nelle gare regionali su strada, poi di mountain bike.

Proprio al centro della stanza c’è la dima, cioè il banco per costruire i telai. È fatto da una serie di supporti metallici che si possono spostare. Su questi supporti si ammorsano i tubi di acciaio secondo la geometria che viene fuori non solo dall’idea di bici generale ma soprattutto dalle vostre misure personali.

Si prendono le misure del cavallo, come per i pantaloni; poi della tibia (perché, dice Vincenzo, è facile misurarla dall’osso che sporge mentre la misurazione del femore sarebbe imprecisa: non si vede da dove inizia esattamente), e dallo sterno alla pianta dei piedi. Da queste misure, con le opportune sottrazioni, si hanno tutte le misure di base per cucirvi la bici.

Però attenzione, poi il taglio finale dipende anche da che tipo di ciclista siete: se vi serve per fare gare oppure viaggi, se avete una mobilità articolare più sviluppata e siete propensi a stare più piegati in avanti, con il busto più basso, per fare meno resistenza all’aria, oppure preferite andare più piano ma stare più dritti e guardare il panorama.

Poi i tubi stessi che servono per formare il telaio possono essere scelti tra varie serie. Nel catalogo ci mostra i nomi: Xcr, Spirit, Life, Zona… si differenziano per la qualità del materiale. È sempre acciaio, che oggi sembra un materiale vecchio, ma proprio perché lo usiamo da secoli si è fatta moltissima strada nella sua evoluzione. Le caratteristiche meccaniche, cioè la resistenza alla rottura e la rigidezza (la capacità di deformarsi poco quando gli viene applicato un carico), ma anche altre, nel tempo sono molto migliorate.

Questo è dovuto agli elementi chimici che si aggiungono nel creare il materiale ma anche al trattamento termico del materiale stesso. Cioè con certe sequenze di riscaldamenti e raffreddamenti, nel giusto ordine e con la velocità che serve, si riescono a variare le caratteristiche del tubo finale.

E poi l’ultima finezza che si sono inventati per fare le bici: questi tubi non hanno spessore costante; all’esterno sembrano dritti ma all’interno sono più o meno sottili nelle diverse zone a seconda dove serve o non serve.

Ok, d’accordo, se oggi volete una bicicletta la più leggera possibile, allora una in carbonio, ben fatta, pesa un po’ di meno. Un telaio in carbonio pesa intorno ad un chilo, con l’acciaio io riesco ad arrivare a circa un chilo e quattrocentocinquanta.

Benissimo, però ricordiamoci che il peso è importante praticamente solo in salita, e soprattutto che una bici in carbonio non si fa su misura esatta, perché si costruisce dentro degli stampi e non si può fare un nuovo stampo per fare solo la bicicletta vostra, costerebbe davvero troppo. Quindi se acquistate una bicicletta in carbonio potete scegliere tra varie misure ma non potete avere una bicicletta tagliata su di voi tubo per tubo.

Ecco: sempre più sarto, pensiamo noi. È la stessa differenza che c’è tra un vestito nelle taglie XS, S, M,L … e uno fatto dal sarto sulle vostre misure.

E poi la rigidezza del telaio in carbonio, se da un lato migliora le prestazioni perché trasferisce tutta la potenza dei vostri muscoli alla bici, senza perdite per deformazioni, dall’altro diminuisce il comfort. Quindi se dopo 90 chilometri vi inizia a far male la schiena, la potenza meccanica che potete esprimere diminuisce molto e il risultato finale inverte direzione.

C’è anche un altro aspetto da considerare: l’acciaio, una volta che la bicicletta non può più servire, è un materiale riciclabile, mentre la carboresina, che è un misto di un materiale plastico e fibre sottilissime di carbonio, si può solo buttare.

Ancora un altro aspetto è probabilmente la delicatezza dell’oggetto finale. Quando un tubo in carbonio subisce un urto, per esempio per una caduta accidentale o con una pietra (soprattutto se parliamo delle mountain bike), all’interno del materiale, tra i vari strati che lo compongono, si può creare una piccola frattura, invisibile dall’esterno, contrariamente all’acciaio dove se c’è un danno, da fuori si vede. Però quella cricca tra gli strati di carbonio sta lì e col tempo tende ad ingrandirsi, poi quando il carico un altro giorno salirà oltre una certa soglia, può all’improvviso aprirsi e spaccare la bici in due.

Quindi ok, se siete un campione allora usate la bicicletta alcune volte e poi ve la cambiano o almeno ve la controllano attentamente. Ma se siete un ciclista più che altro amatore, o che fa viaggi, forse l’acciaio è il vostro materiale.

Sul tavolo davanti alla finestra ci sono dei fogli di carta con dei disegni a colori: questa è la bicicletta che ha voluto essere costruito un pilota di una compagnia di linea, ha voluto gli stessi colori e grafica dell’aeroplano che guida. Non ho nessun problema a fare biciclette su richieste così precise: non ho un campionario di colori. Basta che il cliente mi dica qual è il colore esatto che vuole, il codice, e io quello utilizzo per verniciare. Spesso mi chiedono di avere una grafica precisa, oppure delle scritte particolari sulla bici, una frase, un nome, e possono scegliere anche lo stile del carattere da usare.

C’è una bicicletta poi, tra quelle in catalogo, che mi incuriosisce molto, perché è scomponibile, cioè si può dividere in due pezzi: così entra in un trolley, siete sicuri che viaggia protetta e la potete imbarcare in aereo come un bagaglio ordinario. Gliela chiedono quelli che viaggiano molto.

Però a pensarci potrebbe essere anche una buona soluzione se uno a casa, per tenere la bici, non ha molto spazio: la taglia in due e poi quando deve usarla cerca di ricordarsi in quale angolo della casa aveva conservato la seconda parte. Si chiama Valigetta, se andate sul suo sito ne vedete alcune.

Ah, il signor Forgione non fa pubblicità ai suoi prodotti, dice che gli costerebbe troppo. Gli fa piacere invece condividere sul suo sito le fotografie e le impressioni dei suoi clienti. Lui pensa che la cura che mette nel creare una bici lo può fare andare avanti. Il prodotto viene bene (lo garantisce a vita al primo proprietario, ma lui dice che la bici è talmente su misura che venderla è del tutto innaturale) e gli consente di tenere i suoi prezzi bassi, molto più bassi di marchi famosi.

Un’altra caratterista delle sue biciclette sono le saldature: utilizza un procedimento e un materiale (ad alto tenore di argento) che gli consentono di usare una temperatura bassa di saldatura in modo da non danneggiare l’acciaio dei tubi. Poi le rifinisce, tanto che nel telaio finito scompaiono quasi.

Sul banco da lavoro ci sono un sacco di pezzetti, sono quelli che si saldano ai tubi per connettere le ruote della bici, oppure quelli che servono per costruire la forcella anteriore, alcuni li acquista da catalogo, altri se li fa costruire su disegno suo (come i forcellini posteriori smontabili).

Tra questi pezzi non ci sono però le congiunzioni, quei raccordi che alcuni marchi usano agli incroci tra i tubi. Perché per saldare con quelli, dice, la temperatura sale e quindi non si possono usare gli acciai migliori; e poi con le congiunzioni non si è più liberi di cambiare l’angolazione dei tubi con libertà totale. Alcuni marchi blasonati le usano ma in realtà sono utili per semplificarsi il lavoro, e non è quello il primo scopo che lui vuole.

Le sue bici hanno quasi tute le forcelle con i foderi curvi; quelle moderne hanno i foderi dritti, secondo lui semplicemente perché si fa prima a farle, qualcun altro sostiene che diano una maggiore sensazione di controllo in curva. Di sicuro per costruire quelle curve ci vuole più cura e quella piega aiuta ad attutire le buche. Ci ha descritto come fa per evitare che durante la piegatura si creino imperfezioni sulla superficie del metallo. E nelle parole si sente la cura.

Siamo stati a chiacchierare piacevolmente con questo artigiano per più di tre ore e di curiosità e domande ne avremmo ancora. Però forse un’idea del personaggio, che usa la bici ogni domenica, e che se avete una bicicletta storta che valga la pena ve la raddrizza pure, speriamo con queste righe di averla data.

Eccovi il suo sito se vi interessa una bici fatta davvero in Italia, non col Made in Italy azzeccato su telaio costruito in Cina. La bici, mezzo ecologico per eccellenza, se la comprate dall’altro capo del mondo e bisogna bruciare un sacco di petrolio per portarla da noi, forse quando vi arriva parecchio senso per strada lo ha già perso.

Invece la sensazione è che quando venite ad acquistare una bicicletta dal signor Forgione, molto probabilmente uscite con un mezzo a due ruote e con una nuova bella amicizia, quella del costruttore.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)