LEOPARDI A NAPOLI (1/2) – Viaggio nei luoghi partenopei del poeta di Recanati: nei palazzi e nelle case dove ha vissuto

Uno dei poeti più grandi del pianeta, Giacomo Leopardi, nato a Recanati, nelle Marche, ha trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita a Napoli, e nella nostra città è “passato oltre” il 14 giugno 1837. Abbiamo pensato di andare a vedere dove ha vissuto, i posti dove ha abitato, le strade che più ha frequentato, amato o odiato.

E allora iniziamo da una prima traccia:

Io Luigi Minchioni, padrone di vettura in Firenze, mi obbligo di condurre da Firenze a Roma, per la via di Perugia, in sette giorni di Cammino, dovendosi fermare la prima volta a Levane, la seconda a Cortona, la terza a Perugia, la quarta a Spoleto, la quinta, a mezzogiorno, a Terni e restare il resto della giornata per vedere la cascata, il sesto a Civita Castellana, ed il settimo a Roma, i Signori Antonio Ranieri e Conte Giacomo Leopardi, in una delle mie carrozze tirata da tre delle mie bonissime bestie, con l’obbligo di doverli mantenere di vitto e alloggio durante il viaggio alle qui appresso condizioni, cioè: Circa mezzogiorno dovrò fargli dare una colezione alla forchetta, consistente in due piatti caldi, pane e vino ec., il pranzo la sera, con due camere divise, letti e lume nelle migliori locande con biancheria di tela fine nei letti. Saranno parimente a mio carico tutte le spese stradali, sia di barriere, passi di fiumi, ponti, ajuti alle Montagne di cavalli o bovi, che potranno occorrere in detto viaggio. … Resta fissata la partenza alle ore sei o sette antimeridiane di domenica prossima, primo settembre. I suddetti-dico-I suddetti Signori saranno padroni di tutto l’interno della carrozza suddetta e di un posto nel cabriolet. … Firenze 30 agosto 1833. Fatto in doppio originale da ritenersi uno per parte” (1).

È il “biglietto di viaggio” di Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri da Firenze a Roma, che però è solo la tappa intermedia di un trasferimento che ha per destinazione finale Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie di Ferdinando II di Borbone.

E a Napoli, dopo una sosta di circa tre settimane nella città del Papa, arrivano il 2 ottobre 1833.

Ma perché questo viaggio? Perché spostarsi da Firenze a Napoli?

La salute del poeta, che nel 1833 ha 35 anni, è già malferma, e i due amici già negli anni precedenti si sono spostati, a seconda della stagione, d’inverno a Roma e d’estate a Firenze. Gli inverni fiorentini sono troppo rigidi per la costituzione fisica del conte marchigiano. Napoli ha un clima molto più favorevole ma Ranieri è bandito dal Regno, perché in odore di carboneria. Poi finalmente per gli esuli politici napoletani, si apre la possibilità di tornare nel Regno e non è un ritorno che si possa rimandare all’infinito: o si ritorna subito o si incorre in un nuovo esilio. Ma il giovane avvocato napoletano tarda a decidersi e quindi gli tocca chiedere di persona il permesso al Re. Lo stesso Ranieri ci racconta quell’udienza del 7 dicembre 1832:

L’accoglienza fu assai umana anzi ospitale. Esposi, con giovanile affetto e verità, e però con persuasiva eloquenza, il caso mio. Ferdinando (di cui i cortigiani potevano fare il migliore degli uomini e ne fecero il peggiore), negli inizi, allora, non punto spregevoli del suo regno, ne fu non leggermente commosso; e ruppe in queste sacramentali parole:

Ella è libera, da questo momento, e di godersi in villa le gioie della famiglia, e dell’andare a riprendere a Firenze il suo amico, e del menarlo qui a rifarsi di quest’aria; e n’abbia per pegno la mia parola. E parole sacramentali furono veramente; poiché la sera stessa ne corsero i più recisi ordini a Delcarretto” (ministro di Polizia ndr) (2).

La primissima casa di Leopardi a Napoli

Finora solo documenti scritti, racconti di terzi, adesso andiamo a vedere.

La primissima casa di Leopardi a Napoli, quella in cui i due amici arrivano il 2 ottobre, si trova poco sopra via Toledo, ai Quartieri Spagnoli, in via Speranzella numero 22 (3). Dalla fermata Toledo della metropolitana linea 1 basta salire dentro i Quartieri: non la prima ma la seconda traversa parallela a via Toledo è via Speranzella, giriamo a destra ed ecco il palazzo. Scattiamo alcune foto poi dal portone esce un signore e gli chiediamo al volo: Buongiorno, scusate ma in questo palazzo ci abitava Leopardi?

Leopardi, ah non lo so, però mo vi faccio parlare con mia suocera che abita qua da tanti anni, venite, sta nel bar di fronte.

Entriamo, chiediamo a questo, a quello; giovani e anziani, ma nessuno sa questa notizia. Però sarebbero contenti pure loro, sono curiosi, di sapere di questa cosa con maggiori dettagli. Siamo curiosi pure noi e ci aprono il portone per vedere dentro. Un palazzo ben tenuto, non lussuoso perché i due amici provenienti da Firenze stavano scarsi a finanze ed i fitti a Napoli erano molto cari, ma molto decoroso. Qui il poeta e l’avvocato abitano solo un mese, proprio perché l’affitto è caro: non era facile trovare alloggi a Napoli in quegli anni se non con contratti per lunghi periodi.

La primissima impressione generale del poeta su Napoli è favorevole, infatti così scrive al padre solo tre giorni dopo il suo arrivo, il 5 ottobre 1833:“…la dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli”.

Non sappiamo esattamente il piano e l’appartamento occupato dai due amici all’interno di questo edificio: di questa casa si sa molto poco, addirittura Ranieri, nel libro in cui racconta i “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi” non se ne ricorda.

Nel suo racconto la prima casa napoletana è un’altra, che sta anche in questo stesso quartiere, non lontano da qui, e Ranieri così ce la descrive:

“era, credo, al secondo piano, alla cantonata della via San Mattia, dava sulla così detta Loggia di Berio, ad un oriente ed un mezzodì saluberrimi”

era, credo, al secondo piano, alla cantonata della via San Mattia, dava sulla così detta Loggia di Berio, ad un oriente ed un mezzodì saluberrimi, a pochissimi passi da Toledo, a pochi dal palazzo Reale” (2) al civico 88 (1).

Si trova alle spalle della Funicolare Centrale. Se andate in cerca di notizie su questa abitazione trovate qualcuno che sostiene che fosse dentro Palazzo Berio, il palazzo con la testa di cervo nel cortile che ha l’ingresso principale su via Toledo. Ma non è così, a trarre in inganno chi racconta questo è stata forse la frase: “dava sulla così detta Loggia di Berio” citata dal Ranieri. Bene, Palazzo Berio all’inizio del 1800 aveva alle spalle, sul lato opposto a via Toledo, un giardino e un loggiato. Ecco, la casa in cui abitò Leopardi affacciava su quel loggiato ma faceva parte di un edificio diverso (1).

E allora andiamo a vedere questa seconda casa napoletana del poeta marchigiano: saliamo dai gradini che si trovano a sinistra della Funicolare Centrale, poi giriamo a sinistra e dopo pochi metri siamo a destinazione. Vicino al portone, seduto quasi per terra, c’è il fruttivendolo che pulisce la verdura. Azzardiamo la domanda solita: ma in questo palazzo ci abitava Leopardi? Il poeta? E la risposta questa volta è nuova: si questa è una delle case in cui ha abitato, poi ce ne stanno altre…e cita quasi tutte le case, quasi nell’ordine giusto: l’amore per questa città si può trovare in qualunque angolo, pure il meno assolato.

E non solo ci fa un po’ di storia ma chiama il collega che subito citofona alla signora nel palazzo per vedere di farci entrare.

Anche questo non è un palazzo ampio: sembra, come pure quell’altro di via Speranzella, a dimensione di poeta marchigiano, piccolo, con una scala quasi a chiocciola, un poco attorcigliata su se stessa. Qui la ricostruzione storica, sulla base del ricordo di Antonio Ranieri, ci dice esattamente quale fosse la casa abitata dai due amici, allora bussiamo proprio alla porta. La signora ci risponde dall’interno che lei abita qui da poco, non sa chi ci abitava prima. Vabbè tiene pure ragione, noi andiamo in giro a cercare di poeti ma uno pure vo sta in grazia e Dio rinte a casa soia.

Anche in questa abitazione i due amici rimangono solo pochi mesi: non ci fu grande simpatia tra il poeta e Rosa Lang, la padrona di casa. Una mattina Leopardi racconta all’amico di averla vista, di notte, introdursi nella sua stanza e rovistare tra le sue cose, in particolare dentro una cassetta in cui il conte tiene i suoi pettini. Probabilmente la signora era in cerca di medicinali. Dopo pochi giorni infatti esprime il sospetto che il poeta sia malato di tisi e vuole cacciarlo dall’appartamento.

Soltanto Ranieri riesce ad inventarsi qualcosa per rimanere almeno un altro poco. Va a prendere a casa niente di meno che il medico di Leopoldo di Borbone, zio del re, Principe di Salerno: il Dottor Nicola Mannella che abitava a largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito) “nel Palazzo del vecchio Principe, che è quello a destra di chi guarda il Palazzo Reale”, cioé Palazzo Salerno. Il medico aveva già visitato il poeta due volte in passato, conosceva già la realtà della malattia ed era uomo troppo onesto per dire il falso; però viene a visitare il poeta in casa e assicura alla proprietaria, con una formula degna di un grande diplomatico, che “quale che fosse potuta essere l’indole della malattia, essa non sarebbe mai potuta entrare ancora in un periodo contagioso”.

Ma i due amici riescono a strappare alla signora Lang, di poter restare solo fino allo scadere del mese di fitto, devono comunque cercare un’altra abitazione e grazie all’interessamento del Margàris, fraterno amico di origini greche di Ranieri, trovano, dal 10 dicembre, una nuova sistemazione al secondo piano del civico 52 in via Nuova Santa Maria Ogni Bene.

Siamo ancora una volta non lontani, nella stessa zona, a Montecalvario, però una cosa caratterizza questo nuovo indirizzo: è la casa che Ranieri definisce “le più vaste e belle stanze ch’io vedessi al mondo, le quali a poca distanza da Toledo, dominavano tutto il Golfo”.

Palazzo Cammarota

Qui ci potete arrivare facilmente in due modi: o da via Toledo per via Portacarrese a Montecalvario, di fronte allo slargo di via Ponte di Tappia, dove sta la libreria Feltrinelli, e alla nona traversa girate sulla destra, oppure scendete da Corso Vittorio Emanuele per la scala di San Pasquale, e così già vi potete affacciare dall’alto e assaporare un poco il panorama.

Arriviamo e c’è già una bella differenza: a fianco al portone finalmente c’è un cartello che dice “Palazzo Cammarota, residenza di Giacomo Leopardi”; ecco, un minimo di memoria e di riconoscimento. Superato il portone anche una iscrizione in marmo racconta la presenza, in ben due abitazioni dello stesso palazzo, del poeta marchigiano. I due amici in questo edificio hanno abitato in due appartamenti: dal 10 dicembre 1833 al 4 maggio 1834 al secondo piano e dal 4 maggio 1834 al 4 maggio 1835 al primo piano nobile, nella stessa verticale, quella di sinistra salendo la scala principale.

Al secondo piano adesso c’è uno studio medico. Arriviamo una mattina in cui c’è ambulatorio e aspettiamo l’ultima visita. Il dottore è ben lieto di mostrarci l’abitazione e di raccontarci. Ci mostra il punto in cui sembra ci fosse il tavolino su cui il poeta scriveva, proprio davanti al balcone. Questo è il panorama che Leopardi descrive nella sua lettera al padre il 5 aprile 1834: “…io sono passato a godere la migliore aria di Napoli abitando in un’altura a vista di tutto il golfo di Portici e del Vesuvio, del quale contemplo ogni giorno il fumo ed ogni notte la lava ardente” (4).

Il pavimento ci dicono che sia ancora quello originale, o almeno di molti anni. Le travi del tetto pure devono aver visto il poeta vivere in questa casa: sono immerse in intonaco nuovo, spuntano da un breve tratto di contro soffittatura, in mezzo a faretti per illuminazione, ma risalgono a più di due secoli fa e fanno ancora benissimo il loro lavoro. Dopo aver letto dei riferimenti del poeta e di Ranieri eravamo molto curiosi di vedere il panorama e la sorpresa è bella quando capiamo che si è conservato quasi intatto nonostante gli anni. Se non fosse per quell’albergo-grattacielo che spezza in due la vista del Vesuvio, sarebbe quasi come a inizio ‘800. Ci dice il proprietario che la salvezza non è casuale perché questo palazzo gode da secoli dell’ “altius non tollendi”, il diritto di non avere vicino, davanti, palazzi così alti da ostruire il panorama. Ma in questo appartamento Leopardi e Ranieri hanno tre stanze per sé ma sono in coabitazione con altri: hanno comune sala, anticamera e cucina. Allora dopo alcuni mesi passano al primo piano avendo a disposizione l’intero appartamento (4).

Poi c’è un’ultima casa in cui il poeta ha vissuto a lungo a Napoli, sta poco sopra il Museo Nazionale; però la storia di Leopardi nella nostra città è molto lunga, allora mo ci pigliamo una pausa e vi diamo appuntamento, se volete, ad una seconda puntata di questo racconto alla ricerca delle tracce napoletane del poeta di Recanati. A presto. (Fine prima parte, qui trovate la seconda parte)

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

 

Riferimenti:

1 Carlo Raso: “Giacomo Leopardi a Napoli”, Il Rievocatore.

2 Antonio Ranieri: “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”.

3 Angela Pinto in: “Giacomo Leopardi. Da Recanati a Napoli”, Macchiaroli Editore, Napoli 1998.

4 Carlo Raso: “Una sconosciuta abitazione napoletana di Giacomo Leopardi”.

NAPOLI IN BICI – Siamo andati a Gesualdo a visitare l’atelier di un “sarto” di biciclette

Settembre somiglia un po’ ad un secondo inizio d’anno: abbiamo addosso l’energia dell’estate, le giornate sono ancora belle, c’è voglia di muoversi, fare, provare a iniziare cose nuove, magari a pedalare.

E allora siamo andati a scovare in provincia di Avellino, a Gesualdo, un signore, un artigiano, che dagli anni ’90 costruisce biciclette con le sue mani. Quando gli abbiamo telefonato, una delle cose che ci ha detto: non troverai macchinari, gli strumenti che uso di più sono le lime, l’unica macchina che ho è un trapano a colonna perché i fori senza non li so ancora fare.

La filosofia ci sembra interessante e allora lo andiamo a trovare.

Il navigatore ci porta davanti all’indirizzo ufficiale, però al posto di un ciclista troviamo un grande negozio: Abbigliamento Forgione. Il cognome sarebbe quello ma, si sa, nei paesi se lo passano in molti. Allora telefoniamo per avere altre coordinate. Sì, allora esco e ti vengo incontro fa Vincenzo dall’altro capo del filo.

Dopo un secondo, dal negozio di abbigliamento esce lo stesso signore che avevamo visto sulla foto del sito. Sarto di biciclette allora proprio, pensiamo.

“Buongiorno, piacere, Vincenzo, ci andiamo a prendere un caffè prima di cominciare?” E dopo due metri siamo in una grande piazza luminosa, pulita, bianca; con la fontana e il panorama sulla valle sotto. Si inizia a parlare, poi si esce e il caffè non c’è bisogno di pagarlo subito, qui nessuno è straniero a nessuno, ci sarà un tempo più adatto per saldare.

Torniamo verso il negozio. Fuori c’è appoggiata al muro una mountain bike, è la bici personale di Vincenzo; l’ha costruita un sacco di anni fa: “ogni tanto aggiorno qualche componente, ho aggiunto i freni a disco ultimamente, però il telaio è sempre quello. La lascio sempre fuori, tutto l’anno, per vedere cosa succede alle intemperie alle bici che faccio”.

Entriamo. Ci sono mille vetrine con i vestiti esposti. Ha un poco il sapore, i colori, dei negozi di una volta. “Ho ereditato questo negozio dai miei genitori, e continuo a lavorarci; fino a quando non avrò sufficiente sicurezza dall’attività delle bici. Diciamo che siamo già a quel bivio. La decisione credo che non tarderà molto”.

Poi iniziamo a salire le scale nel negozio: al primo piano ancora vestiti. Verso il secondo la luce inizia ad aumentare; sulla parete lungo l’ultima rampa c’è scritto “COLUMBUS”: invece di stoffe questa è la marca dei tubi italiani per costruire bici più famosi del mondo.

Arriviamo in una specie di torre, la luce è chiara dal pavimento, dalle finestre e dagli specchi tutt’attorno: doveva essere una sala per misurare gli abiti; mo qui si prendono misure di ciclisti. Lungo le pareti ci sono diversi trofei vinti, prima nelle gare regionali su strada, poi di mountain bike.

Proprio al centro della stanza c’è la dima, cioè il banco per costruire i telai. È fatto da una serie di supporti metallici che si possono spostare. Su questi supporti si ammorsano i tubi di acciaio secondo la geometria che viene fuori non solo dall’idea di bici generale ma soprattutto dalle vostre misure personali.

Si prendono le misure del cavallo, come per i pantaloni; poi della tibia (perché, dice Vincenzo, è facile misurarla dall’osso che sporge mentre la misurazione del femore sarebbe imprecisa: non si vede da dove inizia esattamente), e dallo sterno alla pianta dei piedi. Da queste misure, con le opportune sottrazioni, si hanno tutte le misure di base per cucirvi la bici.

Però attenzione, poi il taglio finale dipende anche da che tipo di ciclista siete: se vi serve per fare gare oppure viaggi, se avete una mobilità articolare più sviluppata e siete propensi a stare più piegati in avanti, con il busto più basso, per fare meno resistenza all’aria, oppure preferite andare più piano ma stare più dritti e guardare il panorama.

Poi i tubi stessi che servono per formare il telaio possono essere scelti tra varie serie. Nel catalogo ci mostra i nomi: Xcr, Spirit, Life, Zona… si differenziano per la qualità del materiale. È sempre acciaio, che oggi sembra un materiale vecchio, ma proprio perché lo usiamo da secoli si è fatta moltissima strada nella sua evoluzione. Le caratteristiche meccaniche, cioè la resistenza alla rottura e la rigidezza (la capacità di deformarsi poco quando gli viene applicato un carico), ma anche altre, nel tempo sono molto migliorate.

Questo è dovuto agli elementi chimici che si aggiungono nel creare il materiale ma anche al trattamento termico del materiale stesso. Cioè con certe sequenze di riscaldamenti e raffreddamenti, nel giusto ordine e con la velocità che serve, si riescono a variare le caratteristiche del tubo finale.

E poi l’ultima finezza che si sono inventati per fare le bici: questi tubi non hanno spessore costante; all’esterno sembrano dritti ma all’interno sono più o meno sottili nelle diverse zone a seconda dove serve o non serve.

Ok, d’accordo, se oggi volete una bicicletta la più leggera possibile, allora una in carbonio, ben fatta, pesa un po’ di meno. Un telaio in carbonio pesa intorno ad un chilo, con l’acciaio io riesco ad arrivare a circa un chilo e quattrocentocinquanta.

Benissimo, però ricordiamoci che il peso è importante praticamente solo in salita, e soprattutto che una bici in carbonio non si fa su misura esatta, perché si costruisce dentro degli stampi e non si può fare un nuovo stampo per fare solo la bicicletta vostra, costerebbe davvero troppo. Quindi se acquistate una bicicletta in carbonio potete scegliere tra varie misure ma non potete avere una bicicletta tagliata su di voi tubo per tubo.

Ecco: sempre più sarto, pensiamo noi. È la stessa differenza che c’è tra un vestito nelle taglie XS, S, M,L … e uno fatto dal sarto sulle vostre misure.

E poi la rigidezza del telaio in carbonio, se da un lato migliora le prestazioni perché trasferisce tutta la potenza dei vostri muscoli alla bici, senza perdite per deformazioni, dall’altro diminuisce il comfort. Quindi se dopo 90 chilometri vi inizia a far male la schiena, la potenza meccanica che potete esprimere diminuisce molto e il risultato finale inverte direzione.

C’è anche un altro aspetto da considerare: l’acciaio, una volta che la bicicletta non può più servire, è un materiale riciclabile, mentre la carboresina, che è un misto di un materiale plastico e fibre sottilissime di carbonio, si può solo buttare.

Ancora un altro aspetto è probabilmente la delicatezza dell’oggetto finale. Quando un tubo in carbonio subisce un urto, per esempio per una caduta accidentale o con una pietra (soprattutto se parliamo delle mountain bike), all’interno del materiale, tra i vari strati che lo compongono, si può creare una piccola frattura, invisibile dall’esterno, contrariamente all’acciaio dove se c’è un danno, da fuori si vede. Però quella cricca tra gli strati di carbonio sta lì e col tempo tende ad ingrandirsi, poi quando il carico un altro giorno salirà oltre una certa soglia, può all’improvviso aprirsi e spaccare la bici in due.

Quindi ok, se siete un campione allora usate la bicicletta alcune volte e poi ve la cambiano o almeno ve la controllano attentamente. Ma se siete un ciclista più che altro amatore, o che fa viaggi, forse l’acciaio è il vostro materiale.

Sul tavolo davanti alla finestra ci sono dei fogli di carta con dei disegni a colori: questa è la bicicletta che ha voluto essere costruito un pilota di una compagnia di linea, ha voluto gli stessi colori e grafica dell’aeroplano che guida. Non ho nessun problema a fare biciclette su richieste così precise: non ho un campionario di colori. Basta che il cliente mi dica qual è il colore esatto che vuole, il codice, e io quello utilizzo per verniciare. Spesso mi chiedono di avere una grafica precisa, oppure delle scritte particolari sulla bici, una frase, un nome, e possono scegliere anche lo stile del carattere da usare.

C’è una bicicletta poi, tra quelle in catalogo, che mi incuriosisce molto, perché è scomponibile, cioè si può dividere in due pezzi: così entra in un trolley, siete sicuri che viaggia protetta e la potete imbarcare in aereo come un bagaglio ordinario. Gliela chiedono quelli che viaggiano molto.

Però a pensarci potrebbe essere anche una buona soluzione se uno a casa, per tenere la bici, non ha molto spazio: la taglia in due e poi quando deve usarla cerca di ricordarsi in quale angolo della casa aveva conservato la seconda parte. Si chiama Valigetta, se andate sul suo sito ne vedete alcune.

Ah, il signor Forgione non fa pubblicità ai suoi prodotti, dice che gli costerebbe troppo. Gli fa piacere invece condividere sul suo sito le fotografie e le impressioni dei suoi clienti. Lui pensa che la cura che mette nel creare una bici lo può fare andare avanti. Il prodotto viene bene (lo garantisce a vita al primo proprietario, ma lui dice che la bici è talmente su misura che venderla è del tutto innaturale) e gli consente di tenere i suoi prezzi bassi, molto più bassi di marchi famosi.

Un’altra caratterista delle sue biciclette sono le saldature: utilizza un procedimento e un materiale (ad alto tenore di argento) che gli consentono di usare una temperatura bassa di saldatura in modo da non danneggiare l’acciaio dei tubi. Poi le rifinisce, tanto che nel telaio finito scompaiono quasi.

Sul banco da lavoro ci sono un sacco di pezzetti, sono quelli che si saldano ai tubi per connettere le ruote della bici, oppure quelli che servono per costruire la forcella anteriore, alcuni li acquista da catalogo, altri se li fa costruire su disegno suo (come i forcellini posteriori smontabili).

Tra questi pezzi non ci sono però le congiunzioni, quei raccordi che alcuni marchi usano agli incroci tra i tubi. Perché per saldare con quelli, dice, la temperatura sale e quindi non si possono usare gli acciai migliori; e poi con le congiunzioni non si è più liberi di cambiare l’angolazione dei tubi con libertà totale. Alcuni marchi blasonati le usano ma in realtà sono utili per semplificarsi il lavoro, e non è quello il primo scopo che lui vuole.

Le sue bici hanno quasi tute le forcelle con i foderi curvi; quelle moderne hanno i foderi dritti, secondo lui semplicemente perché si fa prima a farle, qualcun altro sostiene che diano una maggiore sensazione di controllo in curva. Di sicuro per costruire quelle curve ci vuole più cura e quella piega aiuta ad attutire le buche. Ci ha descritto come fa per evitare che durante la piegatura si creino imperfezioni sulla superficie del metallo. E nelle parole si sente la cura.

Siamo stati a chiacchierare piacevolmente con questo artigiano per più di tre ore e di curiosità e domande ne avremmo ancora. Però forse un’idea del personaggio, che usa la bici ogni domenica, e che se avete una bicicletta storta che valga la pena ve la raddrizza pure, speriamo con queste righe di averla data.

Eccovi il suo sito se vi interessa una bici fatta davvero in Italia, non col Made in Italy azzeccato su telaio costruito in Cina. La bici, mezzo ecologico per eccellenza, se la comprate dall’altro capo del mondo e bisogna bruciare un sacco di petrolio per portarla da noi, forse quando vi arriva parecchio senso per strada lo ha già perso.

Invece la sensazione è che quando venite ad acquistare una bicicletta dal signor Forgione, molto probabilmente uscite con un mezzo a due ruote e con una nuova bella amicizia, quella del costruttore.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BELLEZZA ALL’ALBA (3) – Sul monte Faito: escursione alla Croce della Conocchia

30 agosto 2018

Partiamo pure oggi alla ricerca di un poco di bellezza di mattina presto. Dopo Ieranto e il monte Epomeo, oggi andiamo a cercarla sui monti Lattari, quelli che percorrono tutto l’interno della penisola tra Sorrento e Amalfi.

Esattamente non sappiamo se è prestissimo della mattina di oggi o è tardi della scorsa notte. In autostrada traffico zero; sarebbe uno dei giorni di rientro dalle vacanze, da bollino nero, ma forse proprio con questa confusione temporale di date ci siamo smarcati. A Castellammare quasi saltiamo l’uscita tra sorpresa che già ci siamo ed eccezionale vista di notte.

Vico Equense dorme; e si inizia a salire. L’aria comincia a diventare fresca.

Siamo già un poco in montagna e… Ua’ che bella luna, è quasi piena e ha un colore caldo, sta per tramontare. ‘A facimme na fotografia? Appena finisco di dirlo compare una piazzola di sosta.

Se guardate la foto c’è una luna che lascia sul mare nero una striscia rossa. Siamo partiti per vedere bellezza all’alba del sole e per adesso fotografiamo un bellissimo tramonto del suo astro opposto.

Sul muro davanti ai fari dell’auto c’è un cuore grosso con scritto Per sempre, data 21/02; chi sa mo che scrivono, per chi e dove; speramme bbuone.

Continuiamo a salire lungo il fianco del monte, su un tappeto esattamente color asfalto tra due strisce bianche.

Sopra al Faito le macchine ci sono. Il villaggio è pieno. Forse questo posto si sta riprendendo. Saranno le ferie d’agosto, il caldo delle quote basse o la funivia dopo anni in funzione, si sta rianimando un luogo che raramente abbiamo visto abitato così fitto.

Poi si inizia a guidare in mezzo al bosco.

Arriviamo allo slargo sterrato dove si lascia l’auto per iniziare a camminare, ma è talmente presto che il buio è quasi perfetto adesso che la luna è bassa e non riesce a illuminare, e senza torcia non è il momento giusto. Allora saliamo altre due curve fino alla chiesa che sta proprio qui sopra; è San Michele Arcangelo, riaperta, dopo tre anni di restauri, a fine luglio scorso.

Il piazzale a fianco è ultra panoramico: appena uno scende dalla macchina viene preso dal freddo. Inimmaginabile da casa a Napoli ad agosto, meno male che la maglietta a maniche lunghe ce l’eravamo portata pur senza crederci del tutto; sta nello zaino e mo serve eccome.

Nella luce blu ci sono due sagome nere di monti: una somiglia ad un dente canino, triangolare, a punta, l’altra, squadrata, pare proprio un molare. Sono i nomi popolari di queste due montagne sopra al monte Faito: la seconda è la vetta più alta dei lattari ed il suo nome ufficiale è Monte Sant’Angelo (1444m slm), l’altra è il suo fratello appuntito, all’anagrafe montana è registrato come Monte di Mezzo.

Lo sfondo inizia ad andare nel rosso, il sole piano piano si fa notare.

Sul muro qui a sinistra, sotto la chiesa, c’è una parete di ricordi. Nomi di montanari e non, che amavano venire in questi posti in cerca di rifugio. Tra i nomi c’è quello di un signore che abbiamo conosciuto quando ancora andava per monti: era un uomo magro magro, silenzioso; lo avevamo incontrato dentro castel dell’Ovo, la sede bellissima del Club Alpino Italiano di Napoli, a mare. Be’ se stamattina sto qua lo debbo sicuramente anche a questo signore: è sua in gran parte la cartina che tengo nello zaino e anche l’ispirazione che animava chi per la prima volta, molti anni fa, mi ha portato qua sopra; allora lo citiamo, si chiamava Manlio Morrica.

Poi saliamo le scalette verso la porta della chiesa. E un altro Ua’ ci scappa quasi: ci avviciniamo in silenzio, si intravedono le sagome di un uomo col bastone e di uno con la mitra dei vescovi che parlano con un terzo addirittura con le ali; siamo capitati a disturbare un conciliabolo di santi. Questa chiesa è legata a San Michele Arcangelo, Sant’Antonino e San Catello: sono loro che si staranno consultando sugli ultimi lavori di restauro della chiesa nata qui sopra dalle loro mani.

C’è silenzio quassù. Lo sfondo è blu con strisce di rosso e rosa; in mezzo al nero in basso ci sono le luci gialle delle case. Da un lato si vede pure la nostra montagna di fuoco cardinale, e una statua della Madonna accerchiata da tralicci enormi. Ha le braccia aperte e pare provare a parlare a queste antenne che pensano di essere loro i veri emettitori moderni di segnale.

La luce adesso è sufficiente per iniziare a camminare. Allora scendiamo di nuovo le due curve, parcheggiamo e stavolta davvero si parte. Il numero del sentiero è 350 e coincide per un tratto col sentiero 300, cioè l’alta via dei Lattari: una strada solo per camminatori che va da Cava dei Tirreni fino a punta Campanella, 90 chilometri tra le montagne.

Noi stamattina ne percorriamo un piccolissimo pezzetto, vorremmo andare sul Canino, da tanto tempo non ci siamo andati.

Il percorso comincia benissimo, senza fatica, scendendo. Una vasca da bagno raccoglie l’acqua della Sorgente Scorchie per far bere le capre. Fresca, se vi siete scordati l’acqua, qui la potete prendere.

Dopo poco il sentiero diventa pianeggiante, poi in lievissima salita. Ci supera un gruppetto di persone: l’ultimo della fila ha sulle spalle un cestino agganciato ad un bastone. Per raccogliere i funghi ci vuole quello: così le spore riescono a passarci attraverso per tornare al terreno e far nascere altri funghi.

È una roccia a strati, calcarea, a tratti pare di camminare sopra una torta millefoglie. Se state attenti mentre camminate ricompare ogni tanto in alto la sagoma precisa dei due denti.

Terzo Ua’ della giornata: il sole sta sorgendo, sbuca da dietro montagne e nuvole in lontananza; una scintilla vivissima aguzza affilata rossa.

Ci fermiamo ad ascoltare finché non diventa un disco completo. Poi riprendiamo a camminare. L’aria fresca adesso è più rossa.

Sulla destra c’è un’altra sorgente. Questa è più bella perché esce da un pezzo vecchio corto di tubo metallico e gocciola sua una tavola di legno per poggiarci il secchio. Si chiama sorgente Acqua Santa. A fianco al tubo, se ci fate caso, sopra al muschio, crescono piccole piantine con le foglie aperte. Sulle foglie ci sono puntini neri: sono piante carnivore con sopra povere formiche appiccicate. È la Pinguicula crystallina, o erba unta amalfitana.

Poi se ci fate caso ogni tanto vedete una conca nel terreno, molto regolare, qualche volta magari al centro adesso c’è cresciuto un faggio, però una volta questi fossi li usavano per fare il ghiaccio. Ci ammassavano dentro la neve presa tutta intorno alternandola a strati di foglie. Poi la coprivano di terra per farla conservare fino ai mesi caldi, quando portavano a valle i blocchi per il beneficio di chi poteva comprarlo.

Dopo un po’ il sentiero fa una curva. Seguendola verso destra si andrebbe sul Molare, ma noi stamattina vorremmo vedere il panorama dalla punta del monte Canino, e allora andiamo dritto. Pochi metri e un cartello inchiodato ad un albero ci ricorda che quello che viene è un sentiero pericoloso. Lo sapevamo ma lo abbiamo fatto in passato, molto tempo fa, oggi siamo curiosi di andarlo di nuovo a trovare.

La prima parte è molto bella, non so esattamente la causa, forse perché è poco percorso, o sarà l’aria e la luce di questo momento: per qualche secondo non sembra di camminare davvero ma di stare dentro le immagini di un libro che parla di montagne. La traccia a terra a tratti è abbastanza battuta, allora il sentiero è ancora percorribile, ci viene da pensare. Poi dopo un po’ la stessa traccia diventa meno marcata, solo un lontano ricordo di passaggi.

Ecco il punto dove c’è una specie di scalinata naturale. Era uno dei punti dove stare attenti. Iniziamo a scendere, in mezzo alle piante sugli scalini, col frusciare delle lucertole nell’erba secca, disturbate mentre prendono il primo sole. Facciamo pochi metri però poi il mio compagno di viaggio, che oggi c’ha un ginocchio non in grande forma, pensa che per stamattina forse non è cosa. E gli diamo ragione. Il sentiero è impegnativo, se uno sta al meglio si può fare forse, ma con qualche dolore è meglio ritornare. Una delle cose belle che insegna la montagna è a capire che a volte ci si può pure arrendere, anzi che al momento giusto farlo è la migliore vittoria.

E sì, e allora cambiamo programma: ce ne andiamo a vedere il sole sulla cresta, andiamo alla croce della Conocchia, da dove si vede in un colpo solo tutta l’ultima dorsale di questa catena che con un piccolo salto arriva fino a Capri.

Torniamo all’ombra nel bosco di faggi che dà il nome al Faito intero. Si prende la curva che avevamo tralasciato e poi trovate scritto tre volte Conocchia in segnali vecchi e nuovi nello stesso posto.

Uau di nuovo quando compaiono li Galli tra le pietre del bosco. Si cammina un altro poco e ci sono altre antenne vicino a una casupola. Sembra tutto in disuso. Tenete presente quando l’antennista sopra il vostro terrazzo vi dice che da casa vostra si prende meglio il segnale del Faito e non quello dell’eremo dei Camaldoli? Ecco, ci piace vedere la televisione, però poi se andate su queste montagne trovate un sacco di ferro in tralicci e antenne senza più motivo. Forse una bella ripulita di questo ferro inutile sarebbe una bella missione.

Si cammina un altro poco ma non è faticoso perché è quasi in piano, e poi i polmoni, tutto il corpo, stamattina sembrano contenti: st’aria pulita e fredda dopo il caldo mette tutto in funzione.

Ecco la croce, è di ferro, tenuta da tiranti. Molti anni fa era piegata dal vento. In questo istante ha la stesso luccichio del sole. Questa è la fine della camminata di oggi.

Stamattina ci sono un poco di nuvole, lì in fondo Capri si immagina quasi soltanto ma non ce n’è davvero bisogno, perchè la bellezza oggi su questa montagna sta ad ogni centimetro di distanza, si sente lungo tutto il percorso. Ci fermiamo a sedere su un pezzo di roccia al sole, si sta meravigliosamente a respirare soltanto.

Poi si inizia il ritorno.

Un po’ più in basso sento un fruscio e intravedo un signore. Dopo un minuto lo incontriamo. Ha il gilet e i pantaloni lunghi, il bastone con la torcia nel manico per camminare di notte, i baffi e la barba che stamattina non s’è voluto fare, doveva svegliarsi troppo presto per andare a funghi. È la prima cosa che ci dice quando lo incontriamo: funghi oggi non ce ne stanno tanti, chi sa forse è il fatto che il bosco non è più molto pulito, a terra ci stanno un sacco di tronchi. Aggio truat sulamente questi due aglietielli, accussì e chiammammo. E tira fuori dalla tasca tre o quattro funghi gialli con le lamelle grandi. Gli chiediamo di vederli, dentro il loro odore ci sta tutto un bosco.

Poi ci viene un dubbio: mo chi sa se, in questa stagione di funghi che ci sembra davvero eccezionale per abbondanza, lui ci ha detto la verità o semplicemente difendeva il territorio di caccia dagli intrusi.

Ci chiede da dove siamo saliti: ah sì nuie a chiammammo a porta e Faito. Lui abita qui sotto e da come ce ne parla sembra che i sentieri siano come le autostrade, a lui andando a piedi qua sopra non servono, non servono tracciati per percorre un posto che è come le vostre tasche. Salutiamo e riprendiamo a camminare in questa mattinata che ci sembra calmissima.

Ancora fresco, profumi, idee buone, ci regala questa montagna stamattina. Camminare oggi non pesa, anzi solleva.

Poi in auto di nuovo verso valle. Solo prima una sosta al bar panoramico nel villaggio qui sopra. Ci piace scambiare due chiacchiere e dare un piccolissimo contributo all’economia di quelli che lavorano in alto, lontani dalle città, a quelli che si sforzano di stare un poco più vicini al cielo; il caffè e i dolci sono ottimi. Poi il ritorno a valle, nel tepore di agosto.

Se avete voglia di fresco di montagna non lontano da casa, il Molare, o la Conocchia sono un buon posto, si cammina meno di un’ora ad andare, altrettanto a ritorno. Se non andate all’alba potete arrivarci addirittura senz’auto: in circumvesuviana fino a Castellammare e poi da lì in funivia. Prima di andare guardate le previsioni del tempo e la cartina del percorso, attrezzatevi un minimo, ricordatevi di lasciare il posto come l’avete trovato o più pulito di prima, e poi buona escursione.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BELLEZZA ALL’ALBA (2) – Sulla vetta dell’isola d’Ischia: il monte Epomeo

11 agosto 2018

Nella prima di queste passeggiate all’alba eravamo andati alla baia di Ieranto, una piccolissima spiaggia all’estremità sud del golfo d Napoli. Stamattina andiamo a nord, all’altra estremità dello stesso golfo, e non andiamo in spiaggia ma su una vetta, piccolissima pure: a Ischia, sul monte Epomeo.

Se a Ieranto c’è chi dice che vivessero le Sirene, l’Epomeo è la punta di un vulcano sommerso. Ma non un vulcano qualunque. Secondo i greci antichi qui sotto c’è imprigionato Tifeo, l’unico essere che sia riuscito a catturare Zeus, il padre di tutti gli dei.

E poi le vette hanno un fascino forte e i vulcani sono posti potenti. Il suo nome sembra che derivi dalla parola epopào = luogo dal quale si vede intorno: in sostanza il panorama, arrivati in cima, non dovrebbe mancare. Allora se siete disposti a svegliarvi presto pure stamattina, diciamo poco dopo le cinque, quando appena appena il cielo si sta facendo chiaro, iniziamo.

C’è ancora mezza luna sospesa in alto, sopra al balcone della casa da cui scendiamo, e un accenno di alba sullo sfondo della luce di lampadina della casa di fronte.

Siamo a Fontana, il Comune più alto dell’isola d’Ischia: è da qui, proprio dalla piazza principale, che parte la stradina (poi diventa, più sopra, sentiero) che porta, in meno di un’ora, sulla vetta dell’isola.

All’inizio, adesso, si sale ripidi su una piccola strada asfaltata, via dell’Epomeo, a doppio senso, dove una macchina sola ci passa solo se stai molto attento. La salita in totale non è molta: tre chilometri; il dislivello per arrivare ai 789 della vetta, circa quattrocento metri.

Dopo un po’ incrociamo un’altra strada, sempre asfaltata, più larga, viene sempre da Fontana ma un po’ più in basso della piazza del paese, le due possibilità di salita qui diventano una quindi non vi preoccupate, non dovete girare da nessuna parte, dovete solo continuare in salita.

A destra e a sinistra fino ad ora c’erano case costruite una azzeccata azzeccata all’altra, adesso si allargano a ville. Qua sopra l’aria è fresca, e non solo adesso che è mattina presto: rispetto a giù, a uno qualunque dei Comuni a livello mare di quest’isola, ci saranno almeno cinque gradi in più di fresco e di calura in meno.

Saliamo piano, con calma, proviamo a seguire lo stesso ritmo della luce che non aumenta molto, mantiene solo in cielo delle striature di rosa leggere.

Quando passiamo vicino, sopra, a una di queste case, parte da dentro al giardino come un suono di galoppo attutito: attratto dal fruscio vedo con l’angolo dell’occhio la corsa del cane della villa sotto. Hmmm, se abbaiava era meglio, sta solo correndo, senza fiatare, non mi pare un segno buono. Vabbuo’ verimme che succere, se il cancello è aperto, se arriva fino a qua e cu’ quale genio.

Lui nel frattempo è un movimento rapido, il galoppo sul terreno mo è un graffiare di zampe sull’asfalto liscio: ci raggiunge correndo, ci supera, arriva al bordo della strada, fa na specie di giravolta e ci ritorna incontro, si solleva in corsa e me mette e zampe ncuollo a modo di saluto.

Fiuuuu, tutt’a posto. Se siete curiosi lo vedete nelle foto: è un bel cane, rosso fulvo, abbastanza grosso, tiene collare e tutto; adesso noi camminiamo e lui insieme a noi avanti qualche metro.

Tutto sembra andare per il verso giusto, tanto che adesso un cartello già dice che i chilometri non sono più tre ma soltanto uno e mezzo. Non sappiamo se crederci, ci sembra troppo presto ma forse l’alba ci aiuta ed è vero che abbiamo già camminato metà percorso.

Il cane nostro continua a seguirci, evidentemente aveva molta voglia di camminare stamattina e, appena sveglio, il primo che passa, si sarà detto, lo abbraccio e lo seguo fino in capo al mondo. Ogni tanto, cioè quasi sempre, va avanti, però poi si ferma e ci aspetta; se non ci vede arrivare gira indietro la testa. Poi appena siamo a tiro riprende il trotto, annusa qua e là l’erba ai bordi della strada, qualche volta marca il territorio e la umidifica un poco.

Andiamo più avanti e incontra qualche amico. Il paese è piccolo, sono quattro gatti, qua si conoscono tutti ed evidentemente, dal fatto che non abbaiano per niente, si capisce che pure i cani molti non sono.

Arriviamo ad un altro bivio, andando a destra si arriverebbe dopo poco ad una postazione militare e non si potrebbe proseguire oltre, a sinistra invece si sale verso la cima del monte. Proprio al bivio, in mezzo a queste due scelte, c’è il primo punto di ristoro di questa camminata, però è ancora troppo presto e quindi il caffè se non ve lo siete già preso a casa non c’è altro modo.

Proprio sotto l’insegna del bar c’è una vecchia foto con un uomo su un asino e la vetta della montagna sullo sfondo. Fino ad un po’ di anni fa si saliva col ciuccio: trovavate dei contadini, d’estate, che vi chiedevano se per caso non avevate voglia di salire comodi, e mentre voi stavate in sella magari loro pure, accompagnandovi, si tenevano alla coda per non stancarsi troppo.

Oggi gli asini non ci sono, però credo che se chiedete potete salire a cavallo. Salendo ancora qualche minuto infatti passiamo davanti ad un altro punto di ristoro: a destra c’è la casa, e fuori, anche adesso che è chiuso, c’è un cestino dal quale potete prendere in prestito un bastone per fare la salita. L’unica cosa che vi viene chiesta è di restituirlo a missione finita. Di fronte, sul lato sinistro della strada, oltre un cancello di legno si intravedono le stalle. Sulla parete di tufo verde hanno intagliato a bassorilievo la testa di un cavallo.

La strada, di cemento, comincia a farsi un po’ più stretta e dissestata, sono le fasi successive per trasformarsi poi in sentiero. La vegetazione si fa sempre più vicina e fitta.

Sulla destra un altro punto di sosta, sembra un rifugio alpino per le linee del tetto e i tronchi interi usati per costruirlo. A fianco, per completare il paesaggio di alta montagna, ci hanno piantato pure tre abeti.

Finalmente finisce il cemento, da qui in poi si cammina nel bosco, sul tufo polverizzato sceso dalle pareti di roccia verde di lato.

Dopo poco c’è un bivio nel sentiero; strano che non sia segnalato da nessuna indicazione. Il nostro cane è andato a sinistra e ci sta aspettando, a destra di sicuro si va sulla vetta; però a pensarci se non c’è un cartello e se il cane va dall’altro lato, forse semplicemente o sinistra o destra poi ci si ricongiunge sullo stesso percorso. E allora andiamo appresso al cane.

Di sicuro questo lato è più panoramico, si apre una grande vista sul mare dall’alto.

Sull’acqua c’è la striscia rosa che il sole fa sul mare a quest’ora. Ma no, no; guardando meglio è l’ombra di una grossa nuvola bianca verticale, colorata dal sole che oggi qua ha deciso di giocare di sponda.

Le felci delimitano il bordo del sentiero. A destra invece è un bosco di castagni. Compare pure la Pietra dell’Acqua, proprio davanti in fondo. I due bracci camminano paralleli, poi però ci pare che si inizia a girare troppo distante: la cartina dei sentieri l’abbiamo lasciata a casa, in giro qua sopra non c’è a chi chiedere, forse ci conviene ritornare indietro. Sì, ritorniamo sui nostri passi, ancora segnati nella polvere di tufo. Il cane escursionista ci segue pure.

Torniamo al bivio e prendiamo l’altro sentiero. Qui il percorso diventa sempre più bello: è un tappeto giallo-verde chiaro, scavato dai piedi, dagli zoccoli dei muli e dall’acqua di ogni pioggia dell’anno. Ai lati è abbracciato dal verde del muschio e delle piante che cresce sulla roccia di tufo, verde, non gialla: è il segno distintivo, il vezzo di indipendenza di quest’isola per ricordarci che non siamo a Napoli centro, che qui il mare bagna di sicuro il posto perché in questo posto quella roccia vulcanica che nasce gialla poi, stando immersa per secoli, ha cambiato colore.

A tratti sotto i vostri piedi potete trovare addirittura dei piccoli gradini bassi, scavati dai contadini dell’isola per evitare di scivolare con la pioggia a chi ha due zampe o quattro. Le pareti sono vicine, alte, tolgono un poco di luce ma aumentano l’abbraccio del bosco.

Dopo una svolta ecco il tratto finale: la vetta si intravede a qualche centinaio di metri in alto in fondo, e adesso si cammina come fareste su uno scoglio, non c’è più polvere di tufo ma una roccia grossa uniforme compatta, sempre coi solchi di chi ci passa da secoli: siamo su un largo monolite asciutto.

Tre cartelli dei sentieri ci informano che da qui è possibile andare a piedi fino a Forio, o a Santa Maria al Monte; che da Fontana finora sarebbero dovuti passare circa 40 minuti e che alla vetta finale di minuti ne mancano cinque.

Da qui il sentiero diventa a tratti molto stretto: è un canale di acqua dove i piedi non c’entrano uno a fianco all’altro, ma se dovete camminare il prossimo piede tanto lo dovete mettere avanti.

Sulla destra una porta di legno, pure questa ancora chiusa, porterebbe al bar ristorante che sta proprio in vetta. Il sentiero comunque sale anche senza passarci dentro.

C’è ancora una cosa curiosa prima della punta. Un campanile imita, appena sotto, uno spuntone di roccia. È la chiesa di San Nicola, ha soltanto la piccola facciata costruita, tutto il resto è scavato nella tufo, sta qua già da prima del 1459.

Ci affacciamo dai vetri della porta: il pavimento è bellissimo di riggiole consumate dai passi. Dello stesso identico verde di tutta quest’isola: è come se lo avessero preso da qui per dipingerla tutta. Dentro i banchi sono talmente semplici che sono diventati sedie di legno. Qui su si era venuto a ritirare un uomo d’armi, il reggitore del presidio militare dell’isola Giuseppe d’Argouth, nel ‘700. Era scampato a un agguato vicino a questa vetta e tenne fede al voto fatto per salvarsi di restare qui da vivo visto che non c’era morto. Le celle del monastero stanno dietro la porta a sinistra guardando l’ingresso della chiesa. Fino a qualche anno fa potevate dormirci. Ora sembra che quelle piccole stanze ricavate dentro il cuore del monte siano chiuse, aspettando una nuova gestione. Se siete fortunati però e ci capitate nei giorni in cui ragazzi del servizio civile le tengono aperte, potete almeno visitarle, insieme alla chiesa. Il bar più sopra, proprio vicino alla cima, invece funziona, ma solo se non ci andate come noi di notte.

Continuiamo a salire, ormai manca proprio poco. Ecco spuntare da un’altra recinzione di campagna un nuovo compagno a quattro zampe. Sembra la copia un po’ più anziana del nostro: stessa taglia, colore, solo non ha collare, è un po’ più sporco e quando camminate non si sposta davanti.

Comune di Serrara Fontana: Attenzione pericolo di caduta per fondo sconnesso e sdrucciolevole ricorda il cartello nuovissimo poco prima degli ultimi metri. Ci affacciamo sull’ultimissimo tratto ed ecco un’altra sorpresa buona: una balaustra protegge l’unico pezzetto che era un poco rischioso di tutto questo tragitto. Si sale una scalinata corta di scalini intagliati, scansando i cani che si fermano davanti e siamo, adesso, davvero arrivati.

Siamo sulla vetta, in piedi dentro un metro quadrato scavato, con le panchine naturali e il parapetto, tutto di tufo. Praticamente siete su quel piccolissimo cocuzzolo che vedete pure da Napoli, quella punta che in fondo al panorama segna con la sua sagoma precisa il fatto che quella è Ischia, l’isola lontana grande. Lo si vede da molte parti della città, adesso ci siete seduti sopra.

A pensarlo che è così piccolo viene un poco di paura. Si sta seduti su una specie di vertigine, forse perché dovunque ti giri il panorama comincia a pochi centimetri, massimo un metro: fa un gradino in basso lungo un piccolissimo spicchio di vigne, un secondo sopra un grande bosco e poi sprofonda vuoto verso la costa.

Le case da qui si vedono solo in fondo. Qui su venivano per rifugiarsi dalle incursioni dei saraceni; mo che i pirati stanno soprattutto in alto loco, le case sono scese vicinissime al mare.

Affanna con la lingua da fuori, a un certo punto respira molto veloce, forse si è addormentato e sta sognando, il nostro accompagnatore di questa escursione. Ma appena faccio un mezzo movimento che somiglia a uno che si sta alzando lui si sveglia all’istante, apre gli occhi ed è pronto a scendere. Ma io mi stavo solo muovendo, sì in realtà avevo pensato di scendere ma come si fa ad andarsene da qui così presto? Restiamo ancora a guardare lontano. Stamattina ci sono un po’ di nuvole in giro altrimenti si vedrebbero Ponza e Ventotene. Di sicuro si vede quasi il cento per cento della costa dell’isola: Lacco Ameno è facile da riconoscere perché ci sta il fungo, Casamicciola quindi è quella a destra a fianco, se ne vede giusto il braccio del pontile esterno. Forio con la chiesa del Soccorso. Poi c’è tutto il lato che guarda verso il continente: Procida sta qua sotto, Monte di Procida nella foschia in fondo.

Si sta freschi in questa sedia altissima; seduti in bilico sulla vetta del mondo.

Ora iniziamo a scendere. La luna si vede ancora ma senza bagliore. Adesso è il turno del sole e noi torniamo nel mondo più in basso. Con la nuova luce ci accorgiamo che i ricci delle castagne stanno già sui rami, che pure capperi e more crescono lungo il bordo del percorso.

Se state in vacanza a Ischia, avete voglia di un po’ di fresco e di guardarvi intorno, bastano un paio di scarpe da ginnastica e fare il primo passo, poi questo sentiero vi condurrà da solo.

Se poi volete sapere la fine della storia: il cane ci ha accompagnato anche per tutto il ritorno. Ci ha aspettato fino al punto esatto in cui stamattina ci aveva rincorso.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BELLEZZA ALL’ALBA (1) – La baia di Ieranto

27 luglio 2018

La luce dell’estate nel nostro sud è forte, aggredisce; eppure ci sono luoghi bellissimi della nostra terra che in questo periodo sono belli da visitare, guardare, camminare. Allora abbiamo pensato di andarci, però in un orario che lascia più respiro e in cui la bellezza viene meglio fuori: all’alba.

Eccovi il primo di una piccola serie.

Buona passeggiata.

Subito dopo Punta Campanella, la punta che chiude il golfo di Napoli a sud, c’è una baia protetta, ci si arriva solo a piedi, è vietato anche entrarci in barca, è patrimonio FAI (Fondo Ambiente Italiano). È una delle nostre spiagge preferite da molti anni, e allora iniziamo da qui queste nostre passeggiate al sorgere del sole.

Siamo partiti da Napoli ad un’ora di notte: pure l’autogrill dove ci andiamo a pigliare il secondo caffè della giornata è quasi deserto. L’addetta è da sola: fa la cassiera, si occupa del banco dei dolci e della macchina del caffè, praticamente l’autogrill è lei. È talmente presto che il cornetto è di ieri, pure il caffè non è esattamente una cosa degna di chiamarlo tale.  Vabbuo’ ma a quest’ora c’era poco da scegliere, siamo quasi sicuri che era meglio di niente.

L’uscita autostradale di Castellammare senza traffico arriva subito, poi si va fino a Meta. Da lì si inizia a salire per passare sull’altro versante.

Si sale fino a Sant’Agata sui Due Golfi. Quando ci arriviamo il paese dorme, le cinque di mattina devono ancora scoccare. Poi la strada inizia a scendere sull’altro versante, quello sud, della costa di Amalfi, fino al piccolo paese di Nerano. Lasciamo l’auto nella striscia blu, la macchinetta del parchimetro a quest’ora è l’unico esercizio che troviamo aperto.

Il sentiero inizia praticamente dalla piazza del paese: al primo metro della strada che scende verso Marina del Cantone, sul lato destro.

Le case sono immerse ancora nella penombra. Si mischiano le luci gialle delle lampade e un poco di rosa di chiarore di sole. Dopo pochi metri, a sinistra, dentro il mare, appaiono le sagome de Li Galli. Poi i due corni bianchi della Villa Rosa dove un signore inglese di inizio ‘900 ha iniziato a scrivere il suo libro sulla Terra delle Sirene. Non poteva scriverlo altrove. Al centro tra i due corni c’è scritto Silentium e non si capisce se sia un invito o una constatazione.

Il sentiero è ben tenuto, facile, ma non scontato. Lo tengono in alcuni tratti le pietre dei muretti a secco. Cammina in mezzo agli ulivi e a tutti gli altri arbusti del mare nostrum. Sulla destra c’è monte San Costanzo, noi ci camminiamo sotto.

Dopo una curva spuntano i tre pizzi, tre punte di roccia. Su quella centrale, Montalto, c’è una delle mille torri di avvistamento per i saraceni fatte costruire dai viceré di Napoli tra ‘500 e ‘700, le altre due si chiamano Penna e Mortella come ogni volta che ci sono i mirti. Una nave portacontainer passa in lontananza e si perde lo spettacolo. Uno yacht enorme invece sta ormeggiato proprio sotto di noi, da solo, in mezzo, appoggiato sull’acqua. Non si vede nessuno muoversi a bordo: staranno dormendo oppure lo spettacolo di quest’orizzonte così vasto si mangia tutti i suoni.

Altri pochi metri e, in mezzo ai fiori ben accuditi da qualcuno, spunta una piccola statua della Madonna. Poi in una nicchia nella roccia c’è un altro culto, più laico, quello di chi cammina; che usa testimoniare il passaggio poggiando una pietra a fianco a quella di qualcuno che non hai mai incontrato ma che è di sicuro tuo camminatore compagno. Pietre qui ce ne sono molte: il sentiero non è dimenticato.

In alto spuntano due bandiere lungo un parapetto di legno: dev’essere un ospite seminascosto nel verde lungo il fianco della montagna.

La luce cresce piano piano. Fa ancora fresco, c’è un poco di vento.

Un albero di carrube fa una galleria e ci passiamo dentro.

Poi il sentiero inizia a scendere e a destra compare la Sirena: Capri si mostra pochissimo, scopre benissimo invece i faraglioni, come un amo alla preda. L’isola è il punto cardinale di questa giornata: da qui in poi attrae lo sguardo ogni volta che uno alza la testa per guardare il mare.

Siamo immersi nel verde della macchia nostra, nel giallino delle piante secche, in fondo c’è azzurro vivo, anzi turchese di acqua, poi, dentro una specie di vapore celeste, in fondo a tutto il panorama, c’è la Sirena appena disegnata, sdraiata, a caccia di navigatori.

Ulisse è proprio qui davanti che si fece legare all’albero della sua nave dopo aver turato con la cera le orecchie dei compagni, ordinandogli che quanto più li avesse pregati di scioglierlo, più forte dovevano stringergli quei nodi. D’altronde il nome Ieranto deriva forse da ierax = falco oppure da ieros = sacro. Se uno pensa che le sirene erano raffigurate in origine come metà donne e metà uccello e alla loro natura imparentata con gli dei, per cercarle non si può andare oltre.

Si scende ancora, poi state attenti a un bivio: non è molto evidente perché è fatto di piante e tracce leggere di passaggio. Però a terra c’è un segno giallo ed il cartello verde del FAI che ci dice che per la spiaggia si arriva prima se si gira a destra, lungo la traccia sottile in mezzo agli arbusti. Andando dritto lungo il sentiero principale invece si va verso la torre di Montalto, la casa colonica e centro informazioni del FAI.

Si inizia a scendere lungo una scalinata di pietra. È così consumata, forse sdentata sarebbe il termine esatto, che c’è sempre venuto il dubbio che non fosse una scala ma soltanto noi che camminavamo per sbaglio sopra il filo di un muretto di pietre.

A sinistra si vede bene la torre e sotto la casa del guardiano del posto. Il tetto è semplicissimo e rigonfio come quello delle case greche.

Qui il vento è cessato, si soffre un poco il caldo anche perché l’umido del mare ora prende il sopravvento. Ma l’acqua si avvicina, manca poco alla spiaggia, siamo quasi arrivati.

Cominciano ad apparire lungo il percorso alcune delle strutture di questa che era, a inizio ‘900 una cava di pietra calcarea. Piccoli edifici, alcune vasche, poi balaustre di legno. Un altro cartello ci lascia scegliere di nuovo se andare verso il punto FAI o il mare e la spiaggia. Eccola, in un colpo solo appare la piccola spiaggia, dietro c’è la vecchia fabbrica e l’isola potente sullo sfondo.

La spiaggia è deserta. A capirlo basta poco perché si vede intera, non è più lunga di cinquanta passi. Gli ultimi metri sono un po’ più ripidi, lungo curve strette per arrivare alla quota zero. L’ultimo passo fa un rumore diverso, non è più un suono attutito di terreno ma uno scrocchiare di ciottoli. Siamo sulla spiaggia ombrosa della mattina, davanti a noi la luce dentro uno specchio, la bellezza civetta esattamente di fronte, in fondo, quella più calma tutt’intorno.

E mo ci vuole un bagno: sono le 6.30 del mattino ma l’acqua non è fredda, tutt’altro. Perfettamente trasparente, si contano i granelli di sabbia attorno ai piedi uno per uno. Fili verdi di poseidonia galleggiano strappati dal fondo.

È il migliore bagno di questa stagione fino a questo giorno. L’acqua è accogliente, calma, viva. Il paesaggio fresco, splendente.

Torniamo a riva, poi si sente una voce. Sono le 7.10, arrivano i primi compagni di viaggio. Forse sono un poco sorpresi: si sono svegliati prestissimo, hanno camminato, e arrivati in spiaggia ci sta già qualcuno. Dopo un poco risaliamo e gli lasciamo il premio di avere tutto il posto.

Andiamo ad esplorare il sito di archeologia industriale, verso la punta. Si entra attraverso un cancelletto e ci sono gli edifici della vecchia cava Italsider, che per fortuna non aveva costruito fabbricati enormi. C’è la vecchia piattaforma di attracco da dove oggi i ragazzi fanno i tuffi. Si percorre il sentiero in piano verso la punta estrema. A sinistra c’è la vecchia ferita della cava di pietra: si vede la pendenza troppo ripida, troppo regolare, staccata dal paesaggio. Da qui, attraverso un edificio basso con sei buchi, caricavano le navi che portavano questa roccia piena di calcio allo stabilimento dell’acciaio di Bagnoli.

Però la natura piano piano riarmonizza il tutto. Un pino cresce solitario in mezzo alla spianata. Gli fanno compagnia arbusti più bassi. Arrivati alla fine dello slargo sembra di stare in mezzo al mare, Capri adesso si vede quasi del tutto. Punta Campanella e il faro sono molto vicini.

Poi iniziamo a risalire. Stavolta passiamo sul sentiero lungo la casa del guardiano. È fatto di scalini di terreno che passano in mezzo agli ulivi. Da lontano si vede una sottile linea di fumo che sale tra le foglie: è lui che brucia le erbe secche che raccoglie.

Vicino alla casa c’è un piccolo limoneto protetto, anche un piccolissimo orto. Poi si sale lungo i gradini di pietra sul fianco della casa.

Poco prima che spuntiamo un cane abbaia. Un attimo di incertezza, mo che facciamo? Sbuchiamo dall’angolo della casa mentre il guardiano, che da lontano ha già capito tutto, dice al cane di starsene buono, mentre noi salutiamo con un buongiorno rivolto metà al padrone e metà al quadrupede guardiano. Gli passiamo ad un metro di distanza e lui resta buono.

Sulla terrazza della casa c’è la tovaglia stesa ad asciugare, e a fianco una sedia sdraio vista faraglioni. È un quadro che non ha bisogno di essere dipinto, il tempo qui sembra così lento che fermarlo servirebbe soltanto a perderne una parte.

Continuiamo a salire. Il dislivello totale non è tanto (180 metri in tutto dal mare fino al paese da dove siamo partiti) e su questo lato della collina c’è ancora ombra. Ci fermiamo ogni tanto per riprendere fiato e sentire un poco di aria che si muove salendo dal mare. Cespugli di rosmarino vivo, se li odorate sono meglio dello Chanel numero 5. Scende un altro cane portandosi dietro l’uomo che come sempre ha la stessa sua identica espressione.

Il dislivello ora lo abbiamo fatto quasi tutto quanto: resta solo la parte facile in piano. Ripassando davanti alla madonnina ci accorgiamo che a pochi metri ci sta un altro santo: Padre Pio ai limiti delle stesse piante.

Il sole si solleva e incontriamo altri sul sentiero in direzione mare. I ragazzi più giovani camminano in costume, pronti per il bagno. Un ragazzo è attrezzatissimo e davanti alla madonnina passa armato di tappetino e sedia sdraio in alluminio.

Siamo quasi in paese. Proviamo a scattare la stessa foto con la chiesa che abbiamo fatto all’andata: tutti gli spigoli geometrici coincidono, di tutte le case, nessun colore e neppure un’ombra è rimasta al suo posto.

Nella piccolissima piazza del paese c’è la fontana per sciacquarsi la faccia. Una Vespa scende verso la spiaggia di Marina del Cantone con tre bagnanti a bordo. Saliamo in auto, ragazzi con accento del nord ci chiedono dal finestrino per dove si va alla baia di Ieranto, alla spiaggia.

A ritorno, a Sant’Agata, il bar pasticceria famoso adesso è aperto; ci fa fare pace con il caffè e con i dolci. E ritorniamo a casa.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Per informazioni dettagliate sulle possibilità di visita della baia qui trovate il sito del FAI