IL VIAGGIO (3) – Il pranzo della domenica in un ristorante singalese a piazza Cavour e poi a piedi fino a Capodimonte. La terza parte del nostro giro del mondo ecologico

Giorno 4, domenica 12 gennaio 2020

Come spesso si fa quando uno è in viaggio, in un posto nuovo, che chiede ai locali dove conviene andare, pure un buon ristorante, diversi singalesi a Napoli, a cui avevo chiesto, mi avevano indicato questo a piazza Cavour.

(Piccola nota per i non napoletani: se volete il suono vero della frase che avete appena letto, ricordatevi che a Napoli quel cognome francese tiene invece sulla prima sillaba il suo accento).

Stamattina, a pranzo, di domenica, decido di andare.

Metropolitana direzione Museo. Ercole a guardia dei tornelli dentro la stazione sembra, per la prima volta, dopo le dodici fatiche, annoiato più che stanco.

La copia dell’Ercole Farnese nella stazione Museo della metropolitana

Scendo tenendomi sul lato sinistro, lungo il marciapiede; lo trovo: sta al civico n. 148.

Resto sorpreso perché a giudicare dall’ingresso sembra un locale piccolissimo, solo da asporto, chi sa se davvero ho trovato quello giusto.

Entro un centimetro oltre la soglia e incontro la fila di tre persone che aspetta davanti al vetro alto del bancone.

Aspetto un minuto, poi guardo verso il fondo della scalinata che c’è qui di fianco: ah ecco, si intravedono i tavoli al piano di sotto. Faccio segno alla signora dietro il vetro per chiederle se è possibile mangiare dentro. Mi dice di sì e scendo.

In fondo a questa grande sala c’è un tavolo singolo, vicino a due altri per molte persone.

Mi seggo.

Arriva il cameriere e mi fa cenno che bisogna andare su, credo a servirsi? Mo vediamo se il quesito riesco a risolverlo.

Torno sopra, la signora capisce al volo, mi porge il menù e mi dice che posso scendere di nuovo. Verimme se ‘sta situazione converge e in quale punto. Mo, a parte il piacevole e interessante viaggio, un certo che di fame pure lo avverto.

Quando ritorno al tavolo c’è un signore che cerca di dirmi qualche cosa, un poco a parole e un poco a gesti: ecco, mi sta chiedendo se per caso potrei cambiare posto, così possono attaccare il loro tavolo lungo con quello corto. Gli dico di sì e mi sposto.

Mi riseggo, guardo il menù e aspetto. Un altro passetto.

Il cameriere nel frattempo va in giro a mettere ordine sui tavoli. Una volta porta un tovagliolo, una volta una piantina ornamentale, poi due forchette, la bottiglia dell’acqua richiede un suo speciale viaggio. Tutto a piccoli passi, ben distribuiti in modo sparso: pure m’interessa molto, a me che la parola “ottimizzare” provoca un certo prurito esistenziale.

Però il cameriere non mi pare molto attento, vedi che devo leggere il menù con gli ingredienti, capire cosa voglio, e ritornare un’altra volta al piano di sopra a ordinare? Ora glielo chiedo.

Sì sì, ordinare qui, bene.

Ok, dai che si mangia senza più salire e scendere altre scale.

Al tavolo di fronte, molto lungo, ci sono solo tre persone.

Due stanno mangiando, la signora in mezzo invece guarda il cellulare e pensa un poco. Il signore sulla sessantina e la ragazza giovane hanno ciascuno davanti un grande piatto che basterebbe per due, pure per tre forse, e mangiano con le loro dita sottili, belle, che muovono con enorme calma in una maniera elegante.

Io c’ho davanti le posate su un tovagliolo dentro il piatto che aspetta, e penso che forse è più bello come fanno loro.

Nel frattempo vado a lavarmi le mani.

Poi torno e guardo.

Prendono con la punta delle dita un po’ di riso, lo stringono appena come a renderlo più denso, poi prendono altre cose da quello stesso piatto, le mischiano nello stesso boccone, con una specie di massaggio. Toccano direttamente il cibo prima di mangiarlo, una specie di carezza di ringraziamento, una fine più morbida di quella che a volte gli facciamo fare noi, ingurgitando al volo brandendo utensili di ferro.

Il cameriere, dopo altri mille giri avanti, a destra, indietro e riparti dal via, mo mi dà attenzione, a me che pure oggi qui sono l’unico che non ha mai preso abbastanza sole. Tira fuori il taccuino dalla tasca: dai che veramente ci siamo. Gli mostro col dito sul menù le portate che ho scelto.

Lui le guarda, dice qualcosa, forse pensa che voglio spiegazioni, ma in realtà c’è scritto tutto anche in italiano, sotto. Mi racconta gli ingredienti.

Poi gli chiedo di dirmi il nome singalese di quegli stessi piatti.

Lui pensa di nuovo che voglio spiegazioni e mi rielenca una terza volta tutto quello che troverò nel piatto. Un poco in inglese un poco in italiano, e capisco che la sua lingua preferita, giustamente, è il singalese. Finalmente riesco a comunicargli che vorrei solo sentire il suono singalese che corrisponde a quei loro bei caratteri tondi che da ignorante mi sembrano un alfabeto dei fumetti.

Allora inizia a sorridere, lo racconta a quelli del tavolo a fianco e loro pure mostrano i loro bianchissimi denti. Poi mi dice un paio di volte, tre o quattro, un suono con molte più sfumature di quanto il mio orecchio non sia esercitato a distinguere.

Provo a ripeterlo, lui annuisce: a me, ascoltandomi, non pare per niente lo stesso suono, ma lui sembra contento. Non ve lo scrivo qui perché teneva così tante sfumature che neppure il mio cervello è riuscito a trattenerlo.

Bello però, sono contento; quando sono entrato mi sentivo un po’ osservato soltanto. Comprensibile: che ci fa questo qua dentro? Anche perché pure io sto guardando in giro più del solito. La domanda sulla lingua invece ha avuto un piccolo risultato. Se uno chiede come sono loro, non di tradurre nei suoni di quest’altra parte del mondo, spesso ha un bell’effetto.

Allora penso che è il momento di tirare fuori l’altra idea che mi sto portando appresso. Tengo dentro lo zainetto la guida del loro Paese. Una di quelle guide con la copertina bellissima, colorata, spettacolare, come ogni viaggiatore che si rispetti. Ma la cosa che più volevo fare è aprirla alla pagina dove c’è la cartina geografica e chiedere a ciascuno che incontro se per favore mi dice, mi fa segno col dito, sul quel disegno, per arrivare a Napoli da dove è partito.

Poggio la guida alla mia sinistra sul tavolo, vediamo se succede. La metto con la copertina verso il basso, oggi, in questo momento, sono timido.

Nel frattempo guardo in giro, senza, provando, dare troppo fastidio.

Alla mia destra, quei signori che mi avevano chiesto di allungare il tavolo stanno larghi. Hanno un tavolo da… dodici persone almeno e sono in sei. Non si seggono tutti vicinissimi come faremmo noi, ognuno attorno, soprattutto gli uomini, si conserva spazio. I bambini vicino alle donne invece stanno a contatto.

Forse aspettano altri amici che stanno arrivando. Oggi è domenica e dai vestiti vistosi di alcuni che entrano ogni tanto (credo che nell’altra sala ci sarà il banchetto di qualche ricorrenza più importante) l’atmosfera è quella dei giorni festivi.

Poi eccolo, finalmente, mi porta le prime due pietanze, gli antipasti. Le poggia non davanti a me ma a fianco. Allora sono in dubbio se posso cominciare a mangiare quelle o dovrei aspettare di accompagnarle con altro.

Vabbè dai, iniziamo, tengo famme.

L’involtino cilindrico è buonissimo. Dentro ci sono le verdure diventate un impasto fine. Come al solito il piccante va oltre. Mentre lo mangio con forchetta e coltello mi domando che cosa sto facendo. Se fosse un crocchè forse lo mangerei pure con le mani, dà più sfizio, ma vabbè dai facciamo la parte di incivili macchinosi occidentali fino in fondo.

Poi assaggio insieme un pezzetto di quella specie di fazzoletto di pasta sottile, quadrato, che sta sul fondo del piatto. Mah, non è che sappia proprio di molto. Anche questo non contiene nè pesce nè carne. Sono vegetariano e mentre ordinavo mi chiedevo se in questo momento faccio bene, ché forse per assaggiare tutto per una volta un’eccezione si potrebbe fare. Ma no, poi ci ripenso, la cosa migliore è che ognuno faccia, come crede, il suo viaggio.

Mentre sto per finire l’antipasto vedo tornare il cameriere: mi sta portando una montagna dentro un piatto.

Quando lo vedo penso che sono da solo, qui invece ci si può mangiare in parecchi. Allora gli dico se magari ne può togliere una parte prima che inizio, per evitare che sia solo uno spreco. Lui capisce, perché fa un segno universale con la mano e dice half, metà, nello stesso momento.

Bene, allora attendo che torni a riprendere il piatto e non lo tocco.

Aspetto, aspetto, ma non succede niente. Va in giro a servire altri piatti nel frattempo. Vabbè dai facciamo una cosa: ne prendo col cucchiaio pulito da quel piattone una parte e la metto, per mangiare, in quest’altro piatto.

Bene, ci siamo, assaggio.

Cavolo, quanto è buono questo riso. Buonissimo, buonissimo, e di nuovo lo guardo e lo mangio e lo guardo, comm’hanno fatto? A vederlo sembra normale: riso, carote, zucchine, ingredienti comunissimi, neppure troppi, ma quando lo mangiate sentite un sapore, forse tanti, probabilmente sarà proprio il riso stesso, lungo, sottile, un poco curvo, veramente buonissimo, forse già l’ho detto. Ma niente niente faccio che il piattone me lo mangio tutto?

Finisco quello che ho e ne riprendo altro. Poi basta dai, è davvero tanto. Torna il cameriere, vede che ho finito e mi chiede se voglio che mi metta dentro un vassoio di alluminio il resto per portarlo. Inizialmente dico di no.

Lui si ferma un momento, guarda un po’ sfocato, inizia ad agitare la testa sui due lati.

Io riprovo a dire, lui sorride, dice un mezzo sì, poi di nuovo dondola la testa, più forte, in aumento. Finalmente dice: “non avere capito”, con un sorriso un poco rosso.

Allora non lo so che penso, gli dico di sì, che lo voglio, forse è più facile da dire oppure in realtà è quello che penso veramente, e allora tutti i segnali che mando sono sulla stessa frequenza e lui non può fare a meno di capire.

Dopo qualche minuto mi porta un pacchetto ben confezionato. Salgo alla cassa, pago ed esco con dentro lo zaino, contentissimo, un pezzetto del mio giro del mondo.

Una camminata mo ci vorrebbe proprio.

Istintivamente mi avvio dentro la Sanità: la pasticceria italiana è famosa in tutto il mondo, Poppella sta qua vicino, è domenica, ci vorrebbe pure il dolce.

Il vicolo della cultura

Concluso il mio pranzo internazionale mi viene un’altra idea, anzi un ricordo: il cricket è lo sport nazionale dello Sri Lanka, nel 1996 hanno vinto pure la Coppa del Mondo, e non lontano da qui, a Capodimonte, dentro al bosco, c’era un’area dove spesso li avevo visti, di domenica, giocare.

Allora continuo a camminare, passo sotto la seconda casa di Totò, il vicolo della cultura, poi le scale che conosco e in pochi minuti sono a Capodimonte, passato in una spaccatura del tufo millenario, dentro al bosco.

La roccia di tufo su Salita Capodimonte

Sui cartelli affissi lungo i viali c’è ancora scritto: Area cricket, in azzurro nella macchia ovale. Ieri hanno aperto il parco di nuovo dopo il vento forte e allora lo cerco.

In azzurro l’area cricket sulla mappa nel bosco di Capodimonte

Quando ci arrivo a fianco c’è un nuovo campo, bello, per il calcio, e il posto dove c’era il cricket c’è una recinzione che lo taglia in due.

Il campo di calcio nuovo e la recinzione sul fondo dove si trovava l’area cricket

Esco, sul pullman mi trovo seduto di fianco un ragazzo singalese, nessuna sorpresa se uno sta viaggiando in quel Paese. Gli chiedo se per caso sa qualcosa di quel campo.

Mi dice che non c’è più già da prima della chiusura del bosco: forse perché erano molti i singalesi che ci andavano, e ingombravano per giocare davvero troppo spazio. Però sembra che adesso ci sia un posto dove, a pagamento, ancora giocano. È un ottimo indizio, un’altra volta, appena potremo uscire, magari lo cerco.

A presto per la continuazione del viaggio, andremo a visitare un piccolo tempio.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

(Fine terza parte, qui trovate la quarta).

IL VIAGGIO (1) – Parte il nostro giro del mondo ecologico, da ecoturismo profondo, senza muoversi da Napoli

Flygskam è una parola che gli svedesi hanno coniato da alcuni anni, significa: vergogna di viaggiare in aereo, perché sembra che gli aeroplani inquinino moltissimo.

Quasi tutti i giorni il telegiornale ci dice pure che migliaia di persone nel mondo, migranti, in molti modi, non in aereo e non per turismo, da un continente all’altro, si muovono.

E se di queste due cose così grandi, problematiche, ne facessimo una soltanto? Forse ritornerebbe guardabile, possibile, di dimensioni e senso umani.

Allora ho pensato di fare il giro del mondo senza muovermi, da una città, per esempio la mia, Napoli.

Bene, l’idea mi pare abbastanza strana, mi può interessare, da dove iniziamo a viaggiare?

C’è un posto del mondo che molto tempo fa veniva chiamato Serendip, poi da quella parola è venuto fuori un vocabolo, quasi di moda, serendipità: trovare qualcosa, bella, sorprendente, mentre ne stai cercando un’altra completamente differente.

Un esempio? La penicillina.

Serendip è il nome antico dello Sri Lanka e allora mi sembra un ottimo posto da cui iniziare un giro del mondo, se è vero che i viaggi occorre farli essendo più aperti possibile a lasciarsi spiazzare.

Mi accompagnate?

Giorno 1, giovedì 5 dicembre 2019, mattina

Scendo da casa a piedi in direzione metro, ma il biglietto che ho usato mille volte, Unico corsa singola, costo poco più di un euro, stamattina mi sembra quello del volo aereo più intercontinentale del mondo. E pure questa camminata fino alla stazione della Linea 1, l’avrò fatta due milioni di volte, da casa allo stadio Collana, quello col discobolo fuori, mi sembra il tragitto per andare al check-in di un aeroporto internazionale enorme. La sento nel ritmo del respiro, anzi nella tensione dei muscoli del petto, l’emozione di questo viaggio orientale.

Scendo le prime scale, marco il biglietto, però il tornello mi pare il cancello di imbarco. Continuo a scendere e percepisco lo spostamento d’aria del treno che sta per arrivare, allora accelero; subito prima dell’ultima curva il fischio dei freni, sprint finale: imbarco avvenuto, al gate, al volo, all’ultimo istante.

Dentro il vagone, davanti a me, seduto, c’è un signore dal colorito tipico delle persone di quella nazione. Il fatto strano è che tutti gli altri in questo momento mi appaiono viaggiatori, turisti, forestieri come me, e lui quello che in questo posto ci abita davvero.

Lo penso da parecchio che il mondo diventa come ce lo immaginiamo, non dovrei dirvelo perché ho sentito che i cronisti di viaggio scrivono semplicemente il vero. A me però, stamattina, il vero, scusatemi, ma mi pare questo.

Next stop piazza Dante, exit on the left”: ‘o verite? pure la voce automatica dentro al vagone oggi ha l’accento straniero.

Esco sulla piazza, la statua del Poeta fiorentino neppure la vedo. Sono le 12.40, è un po’ presto per quello che ho in mente, penso che è una cosa utile se vado a cercare una guida turistica del Paese, come uno fa di solito prima di partire o appena sceso dall’aereo.

Cerco tra le bancarelle dei libri di Port’Alba. Ma non trovo niente.

Vi devo dire che quella di cercare era un po’ una scusa per ritardare la prova: non so come andrà questo viaggio, se arriverò a destinazione, se riuscirò a capire, a vedere, a “entrare in contatto” è la parola giusta per questa emozione. Se uno piglia il suo corpo, fisicamente, e lo sposta sul territorio dello Sri Lanka, mal che vada può sempre dire che quel viaggio lo ha fatto, pure se ha visto poco, se è stato tutto il tempo dentro un resort sulla spiaggia. Ma se uno invece resta quasi a casa, resta abbascio ‘o palazzo, e cerca un contatto, lo spostamento forse diventa molto più sottile, delicato, vasto.

Mi ricordavo di essere stato alcuni anni fa a mangiare da queste parti in un posto due o tre volte. Una specie di tavola calda singalese dove, se volete, potete pranzare pure in pace, seduti al piano inferiore. Mi pare una buona idea per trovare un punto d’accesso, per iniziare dal corpo pure forse: sentendo il gusto della cucina di quel posto. Poi lì magari avrò l’occasione di parlare con qualcuno di loro. Il cibo, una chiave d’accesso, un luogo, un ponte?

Entro e ci sono poche persone, saluto e chiedo se è un locale dove si mangia singalese, mi sorridono, dicono che è giusto. Cerco di capire che pietanze sono: stanno esposte in una vetrina nel bancone una quindicina di ricette di un sacco di colori.

“Lenticchie brodose”, mi hanno detto, poi una specie di fagotto triangolare con dentro le patate, una ciambella con le alghe: inizio da qualche parte. Mi siedo a un tavolino fisso al muro.

Questo fagotto (poi vi dico il nome vero, appena lo capisco, quello che suona come lo hanno inventato loro) è molto buono. È soffice, speziato, sostanzioso, molto piccante. Poi assaggio la crema di lenticchie. Mentre mangio penso che ho sbagliato a sentire: chiedo se ci sono per caso dentro i ceci, allora una signora che è venuta nel frattempo, mi dice che sono davvero solo lenticchie, però gialle: ci metto un po’ a comprendere che loro le lenticchie per fare questo piatto prima le sbucciano. Vabbè detto così sembra complicato ma poi scopro che se volete si vendono già fatte: le famosissime lenticchie decorticate. E allora il colore è molto chiaro e pure il sapore è molto più leggero. Buonissime, ve lo posso dire.

Poi chiedo di provare una di quelle ciambelle che pure sembrano invitanti.

Nel frattempo arrivano altre persone, il locale è abbastanza pieno. Vengono e prendono dei vassoi di alluminio con tante cose una vicina all’altra, anzi una sopra all’altra proprio che non c’è più spazio, come i vassoi di pasticceria mignon dei nostri pranzi domenicali più abbondanti.

Sto mangiando e sono un po’ distratto, però sott’occhio lo vedo che chi entra un poco si sorprende, e pure lui mi osserva: ecco, sono davvero, un po’, in un Paese straniero.

La signora che mi ha spiegato le lenticchie mi racconta che vive a Napoli da venticinque anni. Che qui in molti abitano in tanti. Che spediscono i soldi nel Paese di origine per far vivere bene madri, padri, fratelli, nipoti. E magari loro invece vivono stretti, con pochi soldi, un po’ stentati.

Però sorride, un sorriso dolce con uno sguardo vivo, forse appena triste. Ha un buon lavoro ma capisce gli altri. Le racconto che anche noi italiani abbiamo fatto questa cosa negli anni passati. Adesso ripensandoci mi accorgo che ho quasi mentito, perché dal sud la facciamo ancora, non proprio uguale ma, giovani, in molti.

L’ho fatto io stesso, adesso sono dieci anni, e questo posto, mo che ci penso, mi ricorda la pizzeria da asporto di Middelburg, in Olanda, dove andavo a mangiare i piatti italiani del mio amico Vincenzo, nato a Torre Annunziata, sposato, con figli, in Zelanda da molti anni. La bandiera singalese qui ce l’hanno appesa, di stoffa, fuori. Vincenzo la teneva distesa su tutte le pareti interne del locale nelle mattonelle di una lunga striscia tricolore.

Poi mi dà alcune dritte su dove andare a guardare, vedere, incontrare: c’è una comunità forte in questa zona, sì, siamo partiti bene, poi una alla Sanità, in zona piazza Cavour. Poi mi dice di una scuola un po’ più in alto di dove siamo, e che magari se incontro un monaco buddhista, singalese, pure può essermi utile per capire un po’ di cose.

Ogni tanto entra qualcuno e saluto.

Sorridono queste persone e sembrano incuriosite. In tutto il tempo che sono stato lì, di persone pallide come me ne ho vista entrare una soltanto.

Poi un signore che pure lui sta mangiando in questo posto, chiede di avere un bicchiere di qualcosa che sta dentro un grosso thermos su un lato del bancone. Chiedo informazioni alla signora che sta davanti a me, aspettando il suo turno. Lei non sente quello che le dico, allora la figlia, piccola, avrà sette anni, lei mi ha sentito bene, tira la manica della mamma per dirle che le parlo. I bambini a volte sono meno imbarazzati dei grandi. Sì, quello è tè, dentro il thermos. E capisco che la piccola birra che ho preso dal frigo non era la scelta più tipica che avrebbero fatto nel Paese che sto visitando.

Pago, saluto, ringrazio ed esco. Ora che un po’ sono entrato nel viaggio vedo se trovo altri luoghi singalesi nei dintorni. Mi inoltro lungo questa stessa strada, via Correra, ‘o cavone e piazza Dante, salendo.

Ai muri ci sono i manifesti in questi caratteri rotondi. Sembra una specie di cinese o di greco ma con gli spigoli curvi. Sono mischiati con i cartelli in italiano. I loro colori sono molto più forti.

Il primo che avevo visto, proprio all’inizio del vicolo, entrando, sembrava una specie di manifesto comunista, rosso, col martello inclinato, senza falce.

Salgo e i negozi singalesi, i manifesti, i nomi, sono mischiati ai napoletani. Entro in un fondaco, ma solo qualche metro, per non venire risucchiato da questa specie di macchine del tempo, ancora vivissime, se è vero il fiocco azzurro che vola sull’ingresso.

Salendo salendo mi trovo a via Salvator Rosa. Mi pare di essere tornato a casa da un lungo viaggio quando vedo il traffico caotico di scooter, all’incrocio, in equilibrio magico in un qualche loro ordine perfetto.

Poi mi voglio reimmergere, almeno un altro poco, cercare questa scuola di cui mi hanno detto.

Chiedo davanti ad un negozio dei loro: lì, vedi, a pochi metri, detto con le consonanti addolcite tra la lingua e i loro bianchissimi denti. Sopra un portone c’è un grande cartello: Saint Anthony’s International School.

Entro mentre escono i bambini coi genitori per mano. Una ragazza mi indica con l’ascensore il piano. Prendo appuntamento per domani, alle dieci. Vedremo cosa ci riserva la seconda parte del viaggio.

Nel frattempo mi è capitato di incontrare, un pomeriggio, in un teatro, questa frase scritta intorno all’anno mille: “L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”. L’ha pensata Ugo di San Vittore, un teologo e beato della chiesa cattolica, tedesco.

Io c’ho messo mille anni a capirlo. Ve la lascio.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

(fine prima parte, continua, qui trovate la seconda parte)