IL VIAGGIO (10) – La lavorazione del merluzzo nordico dall’Islanda fino alle nostre tavole. Un’antica famiglia di baccalajuoli in provincia di Napoli

In questo nostro viaggio in cerca dell’Islanda a Napoli abbiamo trovato che una grande parte dei contatti tra noi e quell’isola dell’estremo nord del mondo passa attraverso l’importazione del merluzzo nordico. Siamo andati a parlare con un ristoratore appassionatissimo della materia, e lui poi ci ha dato l’indirizzo di un’antica famiglia di piccoli importatori locali che conservano ancora la cultura di come il baccalà va lavorato, da come arriva dalle aziende islandesi fino al negozio al dettaglio, da qualche anno anche fino al piatto del loro ristorante. La lavorazione era l’ultimo anello della catena di congiunzione tra Islanda e Napoli via mare e allora siamo andati a vedere un giorno quello che fanno.

Sono Luigi, Nunzia e Luigi, tre cugini con lo stesso cognome che portano avanti la tradizione di famiglia, ditta F.lli Esposito, ad Acerra, di importazione e vendita di baccalà e stoccafisso dai paesi nordici.

Il primo Luigi, il maggiore, di pochi anni, (a sinistra nella foto) si occupa della distribuzione e del ristorante, Nunzia del lato amministrativo economico, il secondo Luigi, della lavorazione.

Siamo ancora nell’ingresso del capannone e già mi iniziano a spiegare con abbondanza di informazioni e passione.

Il più giovane dei due Luigi, quello col berretto e gli abiti da lavoro: Sono stato in Islanda alcune volte, è brava gente, sono molto accoglienti, gli piace la convivialità, stare insieme a tavola.

Attualmente producono solo baccalà, cioè il merluzzo sotto sale. Le strutture di legno per mettere ad essiccare all’aria il pesce e farne invece stoccafisso le hanno smantellate circa vent’anni fa, perché la Norvegia ha un clima più favorevole, più ventilato e asciutto, per quel tipo di lavorazione rispetto a loro.

Poi scopro che gli islandesi pescano anche d’inverno. Vi immaginate in mezzo a quel mare nordico, con il sole sempre bassissimo, e quel freddo? Invece il Gadus morhua (il merluzzo nordico, diverso dal merluzzo delle acque del Mediterraneo, il nasello) con le sue migrazioni verso i fiordi per la riproduzione li porta a dover lavorare anche nella stagione rigida. Così mi racconta: Fanno due periodi di pesca: ottobre-febbraio e giugno-agosto e ogni azienda di pesca ha la sua quota che non può essere superata.

Rispetto a dieci anni fa i produttori di baccalà sono diminuiti circa della metà. Molti produttori, con le nuove generazioni, si sono spostati su altri prodotti: il pesce fresco, o sul pesce da surgelare. Anche magari lo stesso merluzzo ma fresco, che vendono nei mercati dei Paesi limitrofi come la Danimarca.

Loro il merluzzo salato non lo hanno mai consumato molto, lo mangiano fresco.

Eh, me ne sono accorto durante l’intervista alle due calciatrici islandesi della volta scorsa, vi ricordate? Il baccalà e lo stoccafisso non sapevano quasi cosa fossero. Per capirlo c’avevo messo mezz’ora.

In Islanda il pesce lo sanno cucinare bene ma in maniera molto diversa da noi. Salato, il baccalà, lo vengono a mangiare quando vengono in Italia.

Con i loro battelli supermoderni (hanno investito molto in Islanda per questo) riescono a fare la lavorazione del merluzzo appena pescato, fino alla messa sotto sale, già a bordo. Questo aumenta molto la qualità del prodotto.

Nel periodo in cui le femmine depongono le uova i pesci più grassi si pescano vicino alla costa, nei fiordi.

E io che avevo ipotizzato che gli islandesi avessero incominciato a salarlo per consumarlo d’inverno quando magari evitavano di uscire in mare.

No, quelli pescano anche d’inverno, quelli so’ vichinghi, continua Luigi.

Sono stato l’ultima volta lì nel novembre del 2015, in tre giorni non sono mai uscito dall’albergo.

Ho provato ma c’era un’umidità nell’aria che anche se non pioveva tornavi bagnato. Noi qua se c’è il sole usciamo altrimenti magari aspettiamo un giorno migliore. Là no, so’ abituati. Pensa che negli uffici hanno tutto: letto, generi alimentari; perché con le condizioni climatiche non sanno mai se potranno tornare a casa a dormire. Vivono in un modo molto diverso da noi.

Mio padre c’è stato tante volte, io soltanto due. Però ci incontriamo spesso con i produttori. Sono quindici anni che c’è la fiera internazionale del pesce a Bruxelles e lì vengono tutti, per fare accordi commerciali. Adesso la replicano anche in Spagna, a Barcellona, e in Asia, ma quella di Bruxelles resta sempre la fiera più importante.

Poi Luigi il maggiore:

Abbiamo cominciato da quattro generazioni, dal mio bisnonno. Importando e poi facendo la lavorazione, a Sant’Anastasia. Lo andava a prendere a Napoli, al porto, nelle cui celle frigorifere passava buona parte del baccalà diretto al meridione d’Italia.

Adesso passa tutto per Rotterdam dove ci sono grandi capannoni frigoriferi e poi da lì viene spedito via camion.

Poi mio nonno si accorse, andandolo a portare da Sant’Anastasia nei paesi limitrofi col carretto trainato da cavalli, che quando utilizzava l’acqua delle fontanelle pubbliche intorno ad Acerra, l’acqua del Serino, per tenerlo fresco soprattuto nei mesi più caldi, il pesce si riprendeva del tutto, veniva spugnato molto meglio, e quindi si spostò qui ad Acerra.

Da tre anni hanno anche un ristorante, in piazza Castello.

Il punto di vendita originario della nostra famiglia stava nel centro storico. Gli autotreni scaricavano sotto al castello e poi mio nonno, in quelle ore, affittava tutte le Ape, i “laparielli”, dei contadini di Acerra per farsi portare il pesce nei vicoli fino al negozio, dove i camion non sarebbero riusciti ad entrare.

Poi dovevamo ammollarlo e tagliarlo per il consumo al dettaglio.

Luigi il minore:

Una volta è venuto qui da noi il figlio di un grande produttore norvegese di stoccafisso (il merluzzo essiccato invece che salato) per imparare la lavorazione che c’è dopo l’essiccazione. È stato qui con noi a lavorare perché loro con la loro attività arrivano a conoscere il processo solo fino all’essiccazione. Usciva anche con noi col furgone a vedere come veniva venduto.

L’altro Luigi:

Noi alla fine dedichiamo una grande cura al prodotto. Loro arrivano solo fino alla salatura o all’essiccazione. La lavorazione è articolata, soprattutto per lo stoccafisso.

Quello che vorremmo è che, come è accaduto per il pizzaiuolo napoletano, la cui arte è stata addirittura riconosciuta “patrimonio culturale dell’umanità”, anche per gli artigiani del baccalà e dello stoccafisso venisse riconosciuta la cura artigianale che c’è dietro.

Anche rispetto alla lavorazione che fanno nel nord Italia qui al sud è molto diverso. Loro per esempio non reidratano lo stoccafisso. Iniziano a lavorarlo secco con la battitura, per fare lo stoccafisso mantecato, con latte e sale. Noi invece lo reidratiamo fino a raggiungere l’aspetto del pesce quasi come se fosse fresco. A volte vengono clienti dal nord a mangiare lo stoccafisso e si meravigliano che quello sia lo stesso pesce che mangiano a casa loro.

Poi iniziano a mostrarmi la lavorazione.

Ci tengono prima a farmi vedere come si lavora lo stoccafisso, il pesce essiccato che viene non dall’Islanda ma dagli altri Paesi nordici, per esempio la Norvegia.

Questo è lo stoccafisso come arriva qui da noi.

Si spugna per due giorni. Poi viene aperto con il coltello. La roncola.

All’inizio si usava ancora la roncola contadina e i ceppi di legno. Le norme ufficiali iniziarono a prevedere taglieri in plastica e una serie di norme che erano quasi impossibili da seguire, non puoi tagliare sulla plastica, il coltello rimbalza. Abbiamo poi ottenuto la PAT: Prodotto Agricolo Tradizionale e quindi abbiamo potuto di nuovo usare i nostri ceppi di legno.

Adesso i ceppi sono registrati e controllati periodicamente. In genere sono di noce o di quercia, e li levighiamo una volta al mese.

Questa fase di apertura del pesce in due si chiama sguarratura. È una fase delicata perché non si deve rompere la carne. Se si rompe devi solo farlo a pezzi piccoli. E per i napoletani lo stoccafisso a pezzi è di seconda qualità anche se il pesce era di qualità ottima.

Poi viene rimesso in acqua con calce ed il bicarbonato farmaceutico, per disinfettarlo e sbiancarlo al colore originario. Poi viene tagliato ulteriormente in due parti: stocco e coronello. E viene rimesso in acqua per circa due settimane.

Alla fine della lavorazione il peso aumenta di quattro volte rispetto al pesce essiccato di partenza.

Poi mi fa vedere la lavorazione del baccalà, il taglio alla napoletana e quello alla casertana. Diviso in felle e mussillo.

Ecco come arriva. Sulla scatola di cartone c’è il marchio dell’Islanda, ecco il legame di oggi con l’isola che stiamo cercando.

Devi essere bravo a far uscire il taglio alto sia alla pancetta (la fella), che corrisponde alla pancia del pesce, che al mussillo, la parte dorsale. Ogni singolo pesce ha la linea giusta lungo la quale dividerlo.

Adesso ti mostro il taglio alla casertana. Questo pesce qui, più grande, viene utilizzato più nella zona di Caserta.

Da adesso si fa silenzio.

Il coltello sale e scende a ritmi regolari. Battendo ogni volta un colpo sul tronco di legno. Dall’inizio del taglio fino a che non è finito del tutto.

Forse questo taglio a mano, penso, rispetta in qualche modo l’animale di cui stiamo parlando. Il silenzio serve a ricordarselo, che non c’è un oggetto su quel ceppo, anche il taglio manuale a stancarsi, per non esagerare oltre l’umano.

Lo ha tagliato in parti regolari secondo linee parallele e ortogonali.

Poi mi mostra il taglio alla napoletana.

Luigi il maggiore: I napoletani nun so’ fessi, vogliono un taglio ancora più selezionato dei casertani.

Per alcuni secondi anche adesso si sta tutti in silenzio.

Luigi esegue un taglio in meno parti, e quella centrale adesso forma un triangolo. È il mussillo di baccalà a cor’ e sorice.

Con questo tipo di taglio lasciamo più carne anche sulle pancette perché i napoletani sono ghiotti molto anche di baccalà fritto, che si fa con quelle. Mentre il mussillo (la parte triangolare) viene fatto o in casseruola o scaldato.

A Napoli non riesci a vendere se non con questo taglio.

Adesso con i ristoratori magari, di volta in volta, ci accordiamo sul tipo di taglio e sul tipo di salagione che preferiscono. Facciamo le vasche di spugnamento personalizzate per ogni cliente. C’è chi lo vuole con quattro giorni di acqua, chi con cinque, chi già pronto per essere cucinato.

La fase di spugnamento è delicata: se lo spugni poco è salato, se lo spugni troppo poi si perde facilmente, se lo maneggi troppo si inquina.

Prima eravamo noi che cercavamo di farci ascoltare dai cuochi, adesso cerchiamo noi di ascoltare loro.

Luigi il maggiore: Mio nonno diceva: “Il baccalà si prepara, non si cucina”. Intendeva che la lavorazione parte da prima della cucina, con l’ammollamento e il taglio.

È un prodotto particolare.

Diceva anche: “‘O baccalà è meglio r’o pesce”. Sembra una frase senza senso invece spiega come questo pesce diventi, con il trattamento sotto sale o essiccato, in qualche modo qualcosa di diverso: segue percorsi diversi anche nei mercati, dove non sono i pescivendoli a venderlo, ma i baccalajuoli.

Ma per quanto tempo deve rimanere sotto sale?

Il baccalà deve stare sotto sale, prima di arrivare qui, almeno tre mesi.

In passato, per un prodotto eccellente, c’erano stagionature molto più lunghe: anche un anno, un anno e mezzo. Adesso il gusto è cambiato: il cliente vuole il pesce bianco, prima era il contrario: il colore giallino della stagionatura lunga era considerato più pregiato; oggi purtroppo viene preso da alcuni clienti come indizio di pesce vecchio, mentre invece non è così.

Per questo, per il tipo di trattamento, sono pochi i posti in cui mangi il vero baccalà.

Poi, oltre i tagli che ti ho fatto vedere, c’è il baccalà già a filetti, eccolo.

È più comodo da usare in cucina. Oggi molti preferiscono questo, perché è già spinato e ha uno spessore uniforme. Però se vuoi mangiare il baccalà di qualità alta devi partire solo dalla divisione che ti ho mostrato prima, alla casertana o alla napoletana e continuare il lavoro al momento in cui lo stai cucinando.

Poi mi mostra una linea leggermente più chiara che corre sul lato della pelle del pesce.

Vedi questa striatura? È quella che ci assicura che si tratta di Gadus morhua, il merluzzo nordico, e non di altre specie imparentate.

Il pesce maschio è un po’ più tenace, quello femmina più morbido. Il merluzzo che preferiamo noi italiani è quello del nord dell’Islanda, lì c’è il migliore nutrimento per il merluzzo. Quello delle coste meridionali lo vendono preferibilmente in Portogallo, perché i portoghesi hanno una cultura della cucina di quel pesce ancora più diffusa della nostra, hanno moltissimi modi di servirlo e quindi per ogni tipo di merluzzo hanno un modo di cucinarlo. Invece noi italiani per gli islandesi siamo dei “clienti scomodi”, molto esigenti.

Poi arriva il primo Luigi con un secchiello di plastica trasparente. Dentro si vedono dei pezzi piccoli di quel pesce bianco.

Ecco il famoso prodotto dei poveri: ‘a murzell’ ‘e baccalà, sono i pezzetti che restano durante il taglio.

Poi capisco perché hanno pensato di mettere su anche il ristorante.

Il fatto è che se fai i conti, il baccalà sfilettato dovrebbe essere venduto a prezzi altissimi per i costi di lavorazione e per lo sfrido. Allora per evitare di fare i prezzi troppo alti e non andare a discapito della qualità, la via migliore è quella di includere alcune fasi. Ecco perché sviluppiamo il rapporto con gli chef dei locali o ha senso addirittura mettere su un ristorante.

Negli anni il consumo di questo pesce è andato calando progressivamente mi dicono. Prima nel negozio per non rimanere senza baccalà nel periodo di Natale dovevi comprarlo con molto anticipo, anche ad agosto. Adesso non è più così.

C’è stato un periodo in cui si è lavorato al ribasso: si sono verificati anche casi in cui è stato immesso sul mercato pesce di provenienza dubbia, dai TIR che “scomparivano”, e lavorato e venduto al ribasso per liberarsi rapidamente della merce. Questo ha contribuito a far allontanare anche un po’ la clientela.

Fino ad una ventina di anni fa il mercoledì di Quaresima qui ad Acerra si vendeva più baccalà che a Natale, perché non si poteva mangiare carne.

Ecco il pesce per i paesi dell’interno che aveva intuito l’arcivescovo di Upsala come ci avevano raccontato la volta scorsa.

Oggi c’è la ristorazione che lo ha rivalutato, e si mangia tutti i giorni, mentre abbiamo perso i grandi quantitativi in Quaresima e a Natale.

A volte al ristorante a un cliente a cui è piaciuto consigliamo la ricetta e poi loro vengono a comprarlo al negozio per cucinarlo a casa. È una bel modo di recuperare la cultura del consumo di questo pesce.

Luigi il secondo:

Ci vuole passione per fare questo mestiere, perché è molto lavorato. E anche l’odore che ti porti appresso… è un “marchio di fabbrica”.

Quali sono i vostri clienti tipici?

Vengono dappertutto. Quelli che si trovano a passare nelle vicinanze per lavoro, oggi, grazie a internet, ci trovano anche se non ci conoscevano prima.

Oggi se lavori bene non conta più dove ti trovi.

Un po’ di tempo fa si è trovata a passare una signora abruzzese. Aveva cominciato dicendo: Il baccalà non lo conosco molto, non lo mangio mai perché da noi non si trova. È uscita dal ristorante comprando il prodotto per cucinarselo anche a casa al ritorno.

Come nasce l’idea dell’Accademia del Baccalajuolo che avete creato (presidente Toti Lange, con cui avevamo parlato la volta scorsa)?

Nunzia: Già zio Mario, circa quindici anni fa aveva creato l’Accademia del baccalà. Prendendo anche spunto da quella che c’era ancora prima ad Ancona. L’Accademia è utile per dare il giusto valore a questo prodotto, per organizzare eventi, per promuovere la cultura che c’è dietro.

Luigi il maggiore: Prima c’erano 100-150 ammollitori in tutta la Campania, oggi siamo rimasti una decina.

L’altro Luigi: È un lavoro artigianale, se non verrà ben valorizzato tenderà a scomparire. In Islanda questo tipo di problema lo hanno avuto, nella pesca, prima di noi. Per una ventina d’anni i giovani avevano abbandonato questo lavoro. Hanno iniziato ad andare in giro per il mondo a fare altri mestieri. Poi hanno visto che da loro si viveva bene, in un ambiente più rilassato e sono piano piano tornati.

Ringrazio i miei ospiti di oggi. Sono stati gentilissimi e molto appassionati di raccontarmi il mondo di questo prodotto che unisce Campania e Islanda.

Uscendo c’è una vecchia foto con decine di pesci appesi fuori al loro negozio, 300 lire il prezzo esposto.

Poi fotografo loro tre davanti al logo dell’azienda di famiglia. Cercano di far evolvere il loro mestiere col ristorante, parlando con i cuochi.

Quanto torno a casa dopo questa mattinata di immersione totale nella lavorazione del baccalà, mi accorgo che i miei vestiti anche si sono intrisi dell’argomento. Ho acquisito anch’io, come diceva Luigi, un po’ del marchio di fabbrica del baccalajuolo; al telefono, nei giorni precedenti, mi aveva avvertito. I viaggi sono fatti anche di questo.

(Fine decima parte, se volete iniziare il giro del mondo dal principio lo trovate qui, continua).

Testo e foto ©Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

IL VIAGGIO (9) – Due islandesi a Napoli: le calciatrici del Napoli Femminile

Alla fine le abbiamo trovate, un vero pezzetto di Islanda a Napoli!

Vi ricordate che la volta scorsa disperavamo un po’ di riuscire a trovare qualche islandese a Napoli, per farci raccontare un po’ del loro Paese, in questo nostro giro del mondo senza prendere aerei per non inquinare?

Tanto che avevamo iniziato a pensare: Se hai un islandese scrivine, se non ce l’hai scrivine lo stesso. Scrivi sempre.

Neanche il Console c’aveva potuto aiutare.

Poi però, continuando nella ricerca, un giorno viene fuori che da poche ore è arrivata da quell’isola nordica una nuova calciatrice della squadra partenopea di calcio femminile: vado a guardare la formazione e scopro che un’ altra atleta islandese già gioca qui da qualche mese.

Mo, se considerate che gli islandesi a Napoli prima che arrivassero loro erano due, pare che siamo riusciti a scovare metà degli abitanti di quell’isola che vivono da noi. Meglio non ci poteva andare.

Se hai un islandese scrivine, se non ce l’hai cercalo ancora. Cerca sempre.

Contatto la squadra, fissiamo un incontro, eccovi la storia.

Gudny Arnadottir e Lara Kristin Pedersen, rispettivamente difensore e centrocampista nella squadra di calcio di serie A: Napoli Femminile, islandesi.

Siamo vicino al mare, a pochi metri dalla spiaggia, la giornata è fredda, il sole va e viene, ai Campi Flegrei, una delle aree più vulcaniche del mondo. Insomma, quasi Islanda. Mi accompagna Gianluca Monti, il loro addetto stampa. Camminiamo nei vialetti alberati di questo lido che non sapevo che anche d’inverno fosse così animato.

Eccole. Da lontano sento:

Ciao!

Hi! anzi Ciao! a questo punto.

Ci sistemiamo sulle sedie all’aperto, con la distanza prescritta in questo momento dai decreti di tutto il mondo. Poi inizio con la mia solita domanda di quando incontro persone di posti lontani del nostro pianeta, in questo Giro del mondo senza muovermi da Napoli.

Mi potreste mostrare sulla cartina della mia guida turistica da quale città venite esattamente?

Inizia Gudny, senza esitazioni.

Io sono nata qui.

E indica un punto lungo la costa sud est dell’isola, si chiama Hofn.

Poi verso i 13 anni mi sono spostata… in quest’altro posto.

È Hafnafiordur, all’estremo ovest dell’isola, non molto a sud della capitale.

Se andate a sbirciare dalle foto satellitari di Hofn, la prima cosa che si nota, almeno a me pare, è il campo sportivo col rettangolo verde e la pista di atletica intorno.

Tutto il paese sarà grande non molto più di cinquanta volte tanto.

Poi vedo le casette ordinate, qualche b&b, la pompa di benzina, e un negozio di alimentari grande.

C’è anche il porto. Dentro una specie di laguna? di estuario? Intorno è confuso: ghiaccio? montagne?

Poi capisco che è il Vatnajokull, il ghiacciaio più grande d’Europa, e che sotto quel ghiaccio, come spesso accade in Islanda, ci sono diversi vulcani.

Ad Hafnafjordur il campo di calcio non ha solo l’erba ma anche le linee bianche. È una cittadina molto più grande. Sembra quasi un unico corpo con la capitale che sta poco più sopra. Il terreno è rosso, e verde.

Anche Lara si è spostata, ma da poco a nord della capitale: Mosfellbaer, a Reykjavik centro.

Anche qui, a Mosfellbaer, sarà l’attenzione che ho oggi, la prima cosa che vedo sulla mappa è che il campo di atletica e di calcio si toccano, uno a fianco all’altro. Sempre vicino al mare. Con alcune isolette di fronte.

Come avete iniziato a giocare a calcio?

Gudny, come prima, parte a razzo, poi si ferma un attimo: si impossessa della palla, decide solo dopo cosa farne.

Just… non so. Tutti i bambini in Islanda praticano qualche sport e il calcio è molto popolare.

Molto popolare sia per gli uomini che per le donne?

Per gli uomini di più, però…

Anche mio padre giocava a calcio, in una squadra amatoriale.

Tenete conto che stiamo parlando con una che, a 20 anni, gioca in Nazionale.

E tu, Lara?

Io, credo di aver iniziato a causa di amici. Avevo 5 o 6 anni. Non ricordo esattamente. Ma è lo sport più popolare in Islanda, quindi è forse solo una questione di probabilità.

Gudny: Quasi tutti provano a giocare a calcio almeno qualche volta.

Lara: Gli islandesi fanno molto sport, molti bambini praticano almeno due discipline. Ma il calcio è molto popolare, sia tra le donne che tra gli uomini.

Gudny: Sì, ad esempio io da piccola praticavo ginnastica, atletica leggera, pallavolo, pallamano. Poi crescendo vedi quale ti piace di più e continui con quello.

Lara: Io praticavo ginnastica e… anche balli da sala.

Strappa un sorriso a tutti. Il solito nostro pensiero sulle giocatrici di calcio che, vedendole così grintose in campo, forse dimentichiamo che possono essere pure romantiche.

Ballavo valzer e cha cha cha. Ma non avevo tempo per tre attività, allora ho smesso il ballo ed ho continuato solo con ginnastica e calcio.

E adesso?

Adesso solo calcio.

Mi sveglio verso le sette e faccio un po’ di meditazione. Poi faccio colazione, e mi godo la mattina presto. Alle dieci iniziamo gli allenamenti.

Intorno all’una pranziamo. A volte nel pomeriggio vado in palestra oppure mi metto a studiare.

Studia Filosofia all’università di Reykjavik. A Lara Kristin Pedersen sembra interessino molti punti di vista sul mondo.

La giornata di Gudny comincia un’ora dopo, salta la meditazione, inizia con la colazione, poi gli allenamenti. Nel pomeriggio anche lei sceglie di volta in volta tra la palestra e lo studio dell’italiano.

E poi, dice, mi rilasso un poco.

È una di quelle atlete, mi sembra di capire poi durante questo incontro, che negli allenamenti si impegnano moltissimo.

Siamo qui fuori, al sole, d’inverno, e credo che a casa loro, adesso, le condizioni di luce siano piuttosto diverse, mi incuriosisce, glielo chiedo.

Gudny: Oh, è lo stesso che qui.

Sempre con la battuta pronta. La migliore difesa è l’attacco.

Sarei curioso di vedere, a questo punto, in che modo sta nel suo ruolo di retroguardia sul campo.

Insisto.

Adesso in Islanda però credo sia più buio di qui, per quasi tutto il giorno?

Viene in soccorso Lara: Sì, se tu andassi adesso in Islanda la troveresti piuttosto buia. Credo che ti farebbe un’impressione forte.

E freddo?

Sempre Lara in possesso di palla: Sì, ma non così freddo quanto la gente in genere pensa. Intorno agli zero gradi, grado più grado meno.

Gudny: Cambia molto, ma non è così freddo quanto puoi immaginare. In questi giorni, parlando con altre ragazze della squadra che vengono da Paesi come l’Estonia, ad esempio, mi dicono che da loro fa molto più freddo che da noi.

Tenete conto che nella rosa completa ci sono, oltre quella italiana, altre dieci nazionalità del mondo.

Lara: Anche perché da noi il clima è abbastanza secco e poi c’è la Corrente del Golfo che un po’ ci riscalda.

Bene, sembra che questa terra che ha il ghiaccio nel nome, Iceland, non sia poi così glaciale davvero come posto.

Adesso vi devo raccontare cosa mi è successo quando ho iniziato a cercare l’Islanda a Napoli. Trovavo come argomento spessissimo il merluzzo dell’Atlantico. Sostanzalmente non riuscivo a liberarmi da decine di notizie su baccalà e stoccafisso.

E sento nell’aria come se avessi raccontato qualcosa che non è del loro mondo.

Provo a spiegare meglio, in questa nostra chiacchierata in inglese ripeto le parole Cod e Stockfish (baccalà, ma anche merluzzo, e stoccafisso). Una finalmente capisce. Poi mi chiede se ho avuto mai occasione di assaggiarlo.

Le dico che qui fa parte integrante della nostra cucina locale, addirittura del cenone della vigilia di Natale, poi che il console islandese a Napoli, da sei generazioni, importa baccalà dall’Islanda. Che c’è un ristorante in città che cucina solo quel pesce in centinaia di modi.

Lara: Oh, in Islanda lo abbiamo ma non sono così sicura che siamo appassionati quanto voi circa i modi di cucinarlo.

Gudny: Sì, lo lessi, o lo metti in un tegame, dieci minuti ed è fatto. Ed è veramente buono.

E quale mangiate di più? Quello salato o quello essiccato?

Gudny: Non so esattamente cosa intendi, ma non è realmente salato, è solo normale merluzzo.

Ma certo! Ecco pechè non ci capivamo: perché dovrebbero conservare sotto sale un pesce che si trova nei loro mari, a un metro da casa? Semplicemente lo mangiano fresco. Quello salato o essiccato lo vediamo soltanto noi guardando il loro Paese dal nostro lato.

Lo mangiamo una o due volte alla settimana ma non penso che molte persone vadano al ristorante per mangiare merluzzo. È più come… è semplicemente normale merluzzo.

E da noi nessuno mai mangerebbe il merluzzo durante il cenone di Natale. È giusto “il cibo del lunedì”.

Da sinistra a destra: Gudny Arnadottir e Lara Kristin Pedersen

Bene. Allora qual è per voi un cibo delle feste?

Gudny: Per esempio siamo famosi per l’agnello.

Lara: Sì, se vai al pranzo della domenica in famiglia da noi, troverai l’agnello.

Cambiamo argomento.

Se andassi in Islanda, secondo voi cosa non dovrei assolutamente mancare di vedere?

Hm… all’unisono.

Gudny: Secondo me dovresti andare a fare un tour per vedere luoghi naturali. Da noi c’è una natura bellissima.

Lara: Io ti consiglierei di fare il giro completo dell’isola. Ci vuole circa una settimana. In macchina.

È la loro Þjóðvegur 1 o Ring road, la strada ad anello che fa tutto il giro lungo la costa.

Gudny: E vedresti un sacco di posti naturali tutti diversi tra loro, mai uguali.

Bello. Sulla mia guida, in proposito, ho letto che in Islanda occorre però stare particolarmente attenti perché aree naturali pericolose non vengono sempre indicate. È vero?

Lara: Non direi così.

A causa del fatto che il nostro Paese sta diventando molto popolare tra i turisti, può capitare che magari qualcuno si avventuri più del dovuto, oppure il turista che vuole farsi una foto per metterla su Instagram magari non stia per nulla attento. E comunque proprio per l’incremento del numero di turisti, gli avvisi che segnalano particolari zone di pericolo stanno aumentando.

Poi Gudny, diretta, precisa: Tu non ti tufferai in mare in Islanda. Sorridendo.

Black Sand beach, per esempio, è così pericolosa che tutti ti dicono di stare a una certa distanza dal mare. Ci sono onde improvvise che, è successo diverse volte, mentre cammini, possono trascinarti via.

Tutti lo sanno e te lo dicono, ma molti purtroppo non ci credono.

Poi per alcune escursioni nell’interno, lunghe, occorre avere una guida. E se uno va a vedere i ghiacciai deve sempre avere una guida. Io ci sono stata (lo dice a voce bassa, quasi a non farsi sentire): è bellissimo.

Voi venite da un’area del mondo molto vulcanica ma anche questa dove siamo adesso è un’area estremamente vulcanica. Vi sentite un po’ a casa qui per questo?

Lara: No. Io non credo che siamo molto in contatto con i vulcani in Islanda.

Gudny: Io lo ero. Vivevo sotto uno dei più grandi vulcani islandesi e noi avevamo sempre queste regole da seguire in caso di eruzione, e dovevamo sempre essere pronti.

Vi ricordate la grande eruzione del 2010? Quella che ha bloccato, a causa delle colonne di cenere diffuse in atmosfera, buona parte dei voli in Europa. Come l’avete vissuta?

Gudny: Non ci ha toccato molto direttamente, però io passavo spesso in quella zona in macchina per andare dal villaggio alla città e mi ricordo che c’era bassa visibilità e uno strato spesso così, e tra pollice e indice segna una C larga una decina di centimetri, di cenere a terra.

Allora le chiedo di indicarmi sulla cartina il posto di cui sta parlando.

Cerca.

Quando lo trova: Ecco, è qui. Lo vedete nella foto.

Poi dice il nome islandese:

Eyjafjöll

e sorride, forse di aver sentito un suono familiare, di casa, riuscire a muovere l’aria anche in un altro posto del mondo.

Dai vulcani ai libri.

Sembra che l’Islanda abbia, in rapporto al numero di abitanti, il maggior numero di scrittori al mondo. Come vedete questo dall’interno?

Lara: Oh, non lo sapevo ma non mi sorprende. I libri per noi sono un argomento molto importante.

Quindi leggete molto?

Lara: Sì.

Gudny: Io no. Ho iniziato da un po’ ad ascoltare audiolibri. Ogni tanto leggo qualcosa.

E quali libri?

Lara: Dipende dal mio stato d’animo. Mi interessano i libri di filosofia ma anche la letteratura islandese.

Gli dico che ho appena iniziato a leggere Salka Valka, del loro autore premio Nobel: Halldor Kiljan Laxness.

Lo conoscono entrambe, come uno di casa, in qualche modo però mi sembrano sorprese, poi commentano qualcosa tra loro in islandese; come se avessi detto qui da noi che sto leggendo I promessi sposi.

C’è qualcosa qui che vi manca dell’Islanda?

Gudny, a bassa voce, d’istinto, forse le scappa proprio: Freedom. Libertà.

Il loro addetto stampa mi aveva spiegato che vivono un po’ come delle studentesse in un campus; quindi la libertà, che manchi, un po’ ci sorprende.

Come a casa, quando voglio uscire e andare in giro, prendo la macchina e vado. Qui non ho l’auto e sembra anche che ogni cosa richieda più tempo che in Islanda. Perché lì è tutto più raccolto.

Lara è arrivata da neppure un mese e quindi non ha neanche avuto il tempo di capire se c’è qualcosa che le manca.

Foto da www.napolifemminile.it

Torniamo un po’ alla base, all’argomento per il quale si trovano in questo posto.

Qual è il vostro giocatore preferito? E non specifico né sesso, né Paese del mondo.

Credevo fosse una domanda molto facile e invece è quella a cui stanno a pensare per più tempo.

Lara: Non ho mai pensato a un giocatore maschio islandese dicendo: wow, vorrei giocare come lui. Quando ero piccola il mio idolo era Ronaldinho. Ero quasi ossessionata da lui, avevo cambiato il mio nome in Laraldinha.

Strappa un’altra risata bellissima a noi tutti. Soprattutto a Gianluca. (Mo che scrivo, sarei curioso di sapere se nella squadra non si sia diffuso questo soprannome per lei nel frattempo).

Mi piaceva il suo atteggiamento in campo. Quando per esempio lo marcavano duro e lui continuava a sorridere, tranquillo. E ovviamente aveva delle incredibili capacità tecniche. Poi ho iniziato ad ammirare anche Steven Gerrard.

Ok, ma sono entrambi uomini. E tra le donne?

Ne ho solo una, islandese, è stata la “Migliore giocatrice islandese dell’anno” per molti anni. Tutti guardavano a lei, si chiama Margret Lara.

Gudny, molto decisa: È lo stesso nome che stavo per dire io. Ho giocato insieme a lei nella squadra del Valur.

Era la sua ultima stagione prima che si ritirasse. Quell’anno abbiamo vinto il campionato islandese. La possibilità di giocare con lei è stata una delle cose più belle che ho avuto da quella squadra. Giocare una stagione con la migliore giocatrice d’Islanda.

Quando Gianluca le chiede se allora ha una sua maglietta, lei ci pensa un attimo.

No. Siamo più come amiche, vivendo insieme.

Poi Lara: In Islanda, sapete, facciamo un esempio: Bjork, la nostra cantante più famosa, se uno la incontra per strada, può tranquillamente chiederle: “Ehi, come va”, parlarci. Siamo così “piccoli” e vicini che puoi incontrare qualunque persona, anche molto famosa passeggiando in città e parlarle. E poi se stai cercando di contattare qualcuno c’è sempre qualche amico che lo conosce di persona.

Che bello. Quasi quasi in Islanda ci vado davvero.

E il calcio italiano? Trovate molta differenza tra qui ed il calcio islandese?

Lara: In Islanda il calcio è più fisico, più diretto, più semplice. Qui è più giocato di fino. Anche più tattico.

Foto da www.napolifemminile.it

Gudny: In Italia c’è molta più passione da parte delle persone per il calcio. Tutti sono molto attenti a che si giochi sempre al 100%, vogliono vincere ogni pallone. Qui il calcio è… “vita per il calcio”.

E poi la gente che ti incontra per strada: ”Ehi, ma tu sei una calciatrice”, e sono davvero contenti.

Ecco, è venuta fuori Gudny, la silenziosa, la riservata. Lei sta qui in Italia, in prestito dal Milan, credo soprattutto per questo.

È curioso a questo punto che il Napoli Femminile Calcio sia ancora una Associazione Sportiva Dilettantistica. Gianluca mi spiega che la cosa è in rapida evoluzione. Per adesso è ancora possibile essere dilettanti, ma entro le prossime due stagioni le squadre italiane dovranno passare tutte al professionismo.

L’ultima domanda.

Se doveste consigliarmi come continuare a cercare l’Islanda dalle nostre parti avreste un suggerimento?

Silenzio.

Troppo spiazzante. Avrò lanciato la palla fuori campo.

Provo a recuperarla: Magari un libro?

Lara, prontissima: Non so se sia stato già tradotto in altre lingue ma un libro bellissimo è “Snerting”, di Olafur Johann Olafsson. Era in testa alle classifiche delle vendite di Natale, moltissimi islandesi lo hanno comprato. Io ti consiglierei quello.

Snerting in islandese vuol dire toccare. Chi sa se all’autore islandese pesa il distanziamento che tutti in questi mesi stiamo sperimentando.

Grazie mille! Dai, dopo un’ora seduti fermi inizia a fare anche un po’ freddo.

Ah… non per voi, giusto.

No, si sta benissimo.

Autogol, uno a zero, avete vinto.

Ci salutiamo. Loro adesso escono, devono passare a casa a prendere la mascherina che fino a ora non hanno dovuto usare essendo all’aperto.

Mi avvio verso l’uscita, salgo sul cavalcavia della metropolitana che mi separa dal parcheggio. La vista è troppo bella per non scattare una foto dall’alto.

Mentre sto fotografando le vedo arrivare, allora aspetto. Oltre la mascherina una delle due, finita l’intervista ufficiale, è andata a mettersi anche il rossetto.

Fine nona parte, se volete iniziare il giro del mondo dal principio lo trovate qui, continua

Testo e foto ©Francesco Paolo Busco, foto riprese in campo di www.napolifemminile.it (riproduzione riservata)

IL VIAGGIO (8) – Ricomincia il viaggio: l’Islanda a Napoli. I libri, un ristorante e il consolato, tutti accomunati dal merluzzo nordico

In questo nostro giro del mondo eravamo partiti con un luogo abbastanza “facile da raggiungere”: lo Sri Lanka, lo Stato estero la cui popolazione è la più numerosa a Napoli, poi c’eravamo fermati per un po’ di tempo a causa del virus pandemico. Fino a che un giorno arriva nell’aria, non vi sto a dire come, l’idea di fare un viaggio in Islanda.

È un Paese piuttosto piccolo, poco popolato, all’estremo nord del mappamondo, abbastanza isolato forse per poter provare un viaggio in questi giorni in cui bisogna evitare le alte densità abitative. Sarà un viaggio più difficile, rarefatto, ma forse anche magico e invisibile come quell’isola nordica che d’inverno sta molto tempo al buio, e gli elfi che l’accompagnano.

Proviamo.

Inizio a cercare in rete. Mi compare l’indirizzo del Consolato islandese a Napoli, poi la quantità di islandesi che ci abitano: due.

E mo che faccio?

Continuo a cercare.

Il Consolato ha uno strano indirizzo e-mail: finisce per @unifrigo. Digito quel nome e mi viene fuori un’azienda storica di importazione di baccalà e stoccafisso.

Nel frattempo ho trovato qualche articolo che racconta di alcuni anni fa quando in città arrivò, in un giro promozionale, una casetta di legno mobile con dentro quel merluzzo nordico salato: il baccalà, pescato dagli islandesi nel loro mare freddo. Si era occupato di quella promozione dell’Islanda a Napoli soprattuto un ristorante tra via Toledo e il corso Umberto I: cucinano solo quel pesce, in molti modi, qui dice che hanno fondato anche l’Accademia Partenopea dei Baccalajuoli, si chiama Baccalaria.

Ecco, di nuovo, come all’inizio del nostro viaggio srilankese in cui cominciammo da una tavola calda con i piatti di quel popolo, il cibo come porta d’accesso verso un altro popolo.

Bene, qualche traccia da seguire ce l’abbiamo. Stavolta però mi voglio procurare la guida turistica d’Islanda prima di partire, allora: libreria, prima tappa del viaggio.

In libreria

Entro, vado sparato alla sezione viaggi, vedo le guide in basso lungo l’espositore centrale, mi accovaccio a cercare. Non ne trovo neppure una di quel Paese dei vulcani e ghiacci, possibile? Chiedo.

La commessa del reparto al momento è occupata con una cliente, vado in giro al piano inferiore, ci sono i romanzi, cerco del loro premio Nobel per la letteratura: Halldor Kiljan Laxness.

Iperborea fa questi libri morbidissimi, flessibili. Toccarli è già piacevole: mi interessa Gente indipendente. Poi ritorno nel reparto viaggi al piano superiore.

La commessa a sentire di Islanda si entusiasma subito, tira fuori mille idee: Ah, ce n’è uno sulle fiabe islandesi, forse sarò io, che a volte compro per me anche libri per bambini, ma è fantastico.

Comunque le guide dell’Islanda sono qui dall’altra parte dello stesso banco dove avevo guardato, ce ne sono almeno cinque. Mentre lei va in giro a prenderne altri li guardo.

Torna con i romanzi di Jon Kalman Stefansson. Uno, Paradiso e inferno, leggo nella seconda di copertina che parla di pescatori e allora compro anche questo. Per le fiabe occorre aspettare che arrivino.

Sono poche ore che cerco l’Islanda a Napoli e mi sono imbattuto già quasi sempre in questo merluzzo nordico. Sul sito di Baccalaria ho trovato una frase, nel loro Decalogo del baccalajuolo, al primo punto:

Se hai qualcosa da cucinare cucinala, se non ce l’hai cucina lo stesso. Cucina sempre.

Mo che sono passate alcune ore e che il Console mi ha risposto per e-mail che purtroppo non saprebbe come aiutarmi a rintracciare gli islandesi a Napoli, capisco che forse:

Se hai un islandese scrivine, se non ce l’hai scrivine lo stesso. Scrivi sempre.

Anche perché il viaggio comincia prima di muoversi fisicamente, quando si inizia a cercare, a leggere, lo avete sempre detto, e quindi da raccontare se ne trova lo stesso.

Poi aspetto di vedere il libro di fiabe, chi sa se troverò merluzzo pure lì dentro.

Il ristorante di solo merluzzo nordico

Martedì 9 febbraio mi decido, parto per la prima tappa seria: vado a vedere che notizie islandesi trovo da Baccalaria, il ristorante che cucina moltissimi piatti ma tutti rigorosamente con quel pesce nordico.

Arrivo, già sulla soglia c’è la vetrina piena di libri sulle terre nordiche, entro. Sono molto gentili ma conviene che ritorni più tardi, a fine orario perché troverò la persona giusta per parlarne.

Ritorno. C’è un signore in piedi dentro che sembra che mi stia aspettando.

Dopo i primi convenevoli per capire cosa è che esattamente ci interessa in questo viaggio, inizia a spiegarmi quasi senza sosta.

Si chiama Toti Lange. È come aver aperto un libro alla pagina uno e dargli una rapida scorsa.

È il merluzzo nordico, nome scientifico: Gadus morhua, diverso dal merluzzo delle nostre acque.

Il baccalà, storicamente, arriva in Sicilia con la dominazione angioina. Poi fu il concilio di Trento, quello della controriforma, che, introducendo il venerdì di magro, quando non si può mangiare carne, diede impulso al consumo del baccalà. E fu un padre conciliare, l’arcivescovo di Upsala, Olaf Menson, che intuì per primo il business del baccalà in quanto pesce accessibile per prezzo anche alle classi meno agiate e, per la sua lunga conservazione, alle popolazioni italiane dell’interno.

Collezione Toti Lange

Possiede alcune stampe che ha raccolto in giro per l’Europa: cartine antiche d’Islanda, una foto colorata a mano di venditori di baccalà napoletani trovata in Francia.

Poi mi mostra la bottega adiacente al ristorante, dove potete comprare il pesce per cucinarvelo a casa. Appena entriamo sento per la prima volta in questo viaggio l’odore tipico di questo pesce che a Napoli conosciamo tutti.

Collezione Toti Lange

Ci sono pesci essiccati appesi in alto, quello è lo stoccafisso. Il pesce è sempre lo stesso però essiccato si chiama Stock fish: pesce bastone, perché perdendo l’acqua diventa stretto e lungo, se è conservato sotto sale invece si chiama baccalà. Poi seguono altri nomi delle parti precise: Il dorso dello stocco si chiama coronello, la stessa parte ma del baccalà, si chiama mussillo.

Poi mi spiega l’origine del nostro modo di cucinarlo più tipico: Nei giorni di pranzi opulenti come il Natale, il baccalà fritto non poteva mancare. Poi però, proprio per l’abbondanza delle portate magari restava per il giorno dopo e allora, con l’aggiunta di pomodoro, olive e capperi, quei pezzi già fritti, ripassati in forno, sono diventati il baccalà alla napoletana.

Verso la fine gli chiedo qualche suggerimento su come potrei secondo lui incontrare dalle parti nostre un altro po’ di Islanda.

Mi dà un numero di telefono di un’antica famiglia che ancora importa in piccole quantità e vende al dettaglio o fino alla tavola di un ristorante ad Acerra. Esattamente dice: Le do il numero di un confratello baccalajuolo, in questo momento è il presidente dell’Accademia Partenopea del Baccalà che sta parlando.

Il Console onorario

Poi nel pomeriggio riesco a ricontattare, stavolta al telefono, il Console onorario islandese di Napoli. Ora che ho capito che quel merluzzo è così centrale nella vita degli islandesi, mi interessa chiedergli di questo.

Il signor Gianluca Eminente appartiene a una famiglia che da sei generazioni importa quel pesce dall’Islanda e in mancanza di un’ambasciata in Italia, dai consolati passa una buona parte dei rapporti tra noi e quell’isola remota.

Dopo il Portogallo, in cui il bacalhau è al centro della tradizione culinaria, Italia e Francia, ci dice, sono al secondo posto a pari merito per il consumo di questo pesce. Terza per consumo è la Grecia. Poi esportiamo, pochissimo, anche in Australia: ci sono famiglie italiane emigrate in quel continente che ancora amano mangiarlo.

Se pensiamo che quella del merluzzo è una delle voci principali dell’economia islandese e che una buona parte di quel pesce viene importata in Italia, inizio a pensare che questo viaggio che sembrava così difficile in realtà ci sta mostrando che il collegamento è piuttosto stretto, e stava in ogni mercato in bella evidenza.

Poi contatto per un appuntamento nei prossimi giorni Luigi Esposito: il confratello baccalajuolo.

È stata la giornata del baccalà islandese perfetta, di martedì, invece del venerdì di magro della controriforma cattolica.

Fine ottava parte, se volete iniziare il giro del mondo dal principio lo trovate qui, continua

Testo e foto ©Francesco Paolo Busco. Copertina e stampe da collezione privata Toti Lange. (Tutti i diritti riservati)

IL VIAGGIO (7) – Andiamo a visitare un tempio induista senza spostarci molto, diciamo fino a Montesanto

Giorno 7: martedì 3 marzo 2020

Di pomeriggio, oggi andiamo a cercare il tempio indù che un monaco buddhista srilankese ci aveva consigliato di andare a vedere. Mi aveva dato proprio la notizia della sua esistenza, a poca distanza dal tempio dei suoi ventotto Buddha.

Me lo aveva spiegato due volte il percorso da un tempio all’altro, da salita Pontecorvo verso Montesanto. Io avevo annuito, negato, annuito un’altra volta, pure se c’erano troppi bivi di vicoli dentro quella mappa, pensando che mi ero fatto un’idea abbastanza precisa della zona, del punto dello spazio di questa città in cui sarei potuto andare a cercare, chiedere alle persone per trovarlo.

Poi sono passati diversi giorni, quasi un’epoca se vi devo dire, esagerando, perché adesso circola la notizia, in maniera epidemica, di un virus che sembra nato in Cina. Allora un po’ mi ero pure distratto.

Adesso ricomincio a viaggiare con la curiosità di guardare. Prendo la mia solita metropolitana intercontinentale, il nostro volo su rotaie.

Appena entro nella stazione e mi concentro sul viaggio inizio a contare le persone di quello, e questo, Stato. Appena mi distraggo torno a Napoli. E ogni volta, di nuovo, che mi ricordo del viaggio, aumentano di uno, due, sono arrivato a sei, sette eccolo, i srilankesi in pochi minuti ad aspettare.

Mi imbarco, partiamo.

Atterraggio di nuovo a piazza Dante, poi stradine, poi un vicolo in salita, largo, e pulito. Dalla mappa guardata a casa, prima, dovrebbe essere facilissimo raggiungerlo: vicino a piazza Montesanto, vico Spezzano 18/A, una parallela di salita Tarsia.

Salgo, arrivo a un incrocio che non era previsto e non l’ho ancora incontrato.

Continuo un po’, niente più corrisponde all’idea che m’ero fatto, allora torno indietro.

Due donne, belle, delle linee di quel popolo del viso, del corpo, della grazia delle mani e della pelle. Chiedo a loro.

All’inizio non capiscono bene, poi sono le prime singalesi (anzi dobbiamo dire srilankesi se vogliamo intendere tutte le etnie di quel Paese) con cui parlo che mi chiedono se sono capace di parlare in inglese.

Yes, yes, I’m looking for the hindu temple.

Tamil?

Yes, Tamil hindu temple.

, e mi indica la strada da dove ero passato, vicino, vicino indicando, trovi vicino.

Ringrazio, poi mi viene l’idea che è bello avere una foto di questo momento. Photo, photo e scatto sorridendo. Una si copre il viso ma per finta, dopo molto tempo.

Eccolo.

Sulla sinistra, a piano terra: una porta di ferro. Subito oltre: una ghirlanda colorata di traverso. Entro e i colori aumentano.

Si scende. A sinistra, subito, in un’altra porta, c’è una donna che sembra di stare in India.

Lo aveva detto la nostra guida per turisti: “I Tamil, nel nord del Paese, di religione indù, sono molto più vicini all’India che alla cultura del resto dello Sri Lanka”.

Indossa il sari, e sulla fronte ha un bellissimo piccolo cerchio disegnato, netto.

Le spiego l’idea che ci sta muovendo. Allora mi porta più dentro per parlare con qualcuno che lei pensa sia più adatto.

Aumenta lo spazio, è largo, e intravedo immagini e statue di intuizioni sacre.

Arriva un uomo scalzo, con le mani bagnate, sulla fronte non ha un cerchio scuro ma una striscia bianca che si sarà fatto per caso mentre stava con gli altri pulendo.

Spiego di nuovo.

È sorridente, gli lascio il biglietto da visita con su scritto “Ingegnere”. Speriamo che quello a cui lo darà non lo legga troppo. Mi chiameranno quando c’è una festa loro.

Gli chiedo quando.

Ah, appena si mettono d’accordo, via cellulare sei o sette persone, per vedersi qui e aprire il tempio.

Non abbiamo orari di apertura.
Ci telefoniamo: “Vogliamo andare? Vieni?”. E allora noi apre tempio.

Che vi devo dire: speriamo che mi chiamino, e non fra troppo tempo.

Giorno 8: domenica 27 settembre 2020

È passato molto tempo e non ci hanno contattato, c’è anche da dire che nel frattempo il mondo è cambiato. Quella notizia di cui vi raccontavo il 3 di marzo nel frattempo si è fatta più vicina, è arrivata alle nostre porte e per alcuni mesi siamo dovuti stare tutti chiusi dentro.

Allora stamattina, domenica, provo ad andare a vedere se li trovo.

Stavolta scendiamo a piedi, per scale antiche, via Cupa Vecchia. La temperatura dell’aria finalmente è scesa e si cammina bene, soprattutto se andate con un amico. La prima tappa di giro del mondo che faccio senza viaggiare oltre che con voi.

Poi un pezzetto di Corso Vittorio Emanuele, la scala di Montesanto, e ci siamo quasi.

Iniziamo a salire per vico Spezzano.

È passato tanto di quel tempo che mi ricordo soltanto che la porta si trova sulla destra, verso l’alto di questa leggera salita. Provo a chiedere a qualcuno che sta scendendo e che a occhio potrebbe essere abitante di qui intorno.

Buongiorno stiamo cercando un tempio induista che sta da queste parti, ci sapete dire il posto esatto?

Una volta, due, e l’espressione è la stessa: nun sapimme proprio e che state parlanno.

Vabbè dai, non sarà difficile trovarlo.

Sta più sopra di quanto ricordassi. Il portone di ferro senza nessuna scritta, neppure un nome qualunque sulla cassetta delle lettere. Però è aperto e basta affacciarsi dentro per rivedere quella ghirlanda di fiori di carta che attraversa tutto l’arco della porta in alto.

Entriamo.

C’è silenzio. Forse non c’è nessuno. Ecco, due persone che stanno lavorando.

Sono gentili, gli spieghiamo perché siamo venuti e chiamano subito al telefono qualcuno che può esserci di aiuto. Appuntamento più tardi, dopo pranzo.

Nel frattempo però so’ troppo curioso, stavolta un’occhiata dentro un poco più lunga non riesco a non darla.

L’effige di una delle loro divinità principali, con la testa di elefante. Altre statue ognuna dentro una specie di tempietto chiuso da tende e molto illuminato dentro. Un po’ ci spiegano lo stesso. Qualche foto la faccio. Poi, dai, torniamo dopo pranzo.

Raffigurazione del dio Ganesh

Mi vado a fare un giro verso Santa Chiara, l’amico mio di viaggio non poteva continuare la tappa e adesso siamo io e voi rimasti soli.

Poi una pizza tra un diluvio e l’altro.

Al tavolo a fianco due giovani donne americane: Spaghetti carbonara, una pizza e due cocacole. Diversi altri avventori tutti con l’accento nordico. Dai che stamattina non siamo i soli a fare viaggi intorno al mondo.

Mi incammino verso Montesanto, piove forte. Mi riparo ogni pochi metri lungo via Toledo sotto agli usci dei palazzi. Dopo un po’ non è più tanto per la pioggia, è per sentire che suono ha l’abbraccio di questi portali antichi, altissimi, di pietra del vulcano, con i portoni di legno enormi e le porticine in cui passano senza inchinarsi solo quelli bassi.

Sotto ogni portone trovo qualcuno che si sta riparando oppure arriva mentre stiamo già lì fermi.

Ognuno poi riparte quando pensa che la quantità di acqua che sta scendendo è quella giusta che gli tocca sopportare. Dall’altro lato della strada c’è chi con i pantaloni corti, la camicia leggera e le infradito cammina sott’all’acqua senza neppure l’ombrello.

Sono le varie culture del mondo, ad ognuno la pioggia lo bagna in un modo.

Eccoci di nuovo fuori alla porta di ferro.

È appena appena aperta. Mentre mi avvicino viene verso di me un signore che stava parlando al telefono al portone a fianco.

Sono le 14 e pochissimi minuti, puntualissimo Suresh, fuori, mi stava aspettando.

Si ricorda di me. È la stessa persona con la quale avevo parlato l’altra volta, prima del “diluvio” col nome di Covid. Bene, dai, allora siamo già a metà delle presentazioni.

Entriamo.

È srilankese, sta in Italia da circa venti anni. È il presidente della comunità Tamil di Napoli. È anche uno dei responsabili di, prendete un bel respiro, Arulmigu Sri Sithy Vinayagar aleyam, “aleyam” vuol dire “tempio”, quello prima è il nome proprio di questo che stiamo visitando adesso.

La comunità che lo ha voluto e che lo sostiene è di circa centocinquanta famiglie, paesani li chiama Suresh, e questo nome mi piace moltissimo.

Ogni pomeriggio alle diciotto pregano qui tutti insieme. È circa un anno e mezzo che è aperto. La comunità Tamil di Napoli hanno voluto costruire questo tempio da tanto tempo. All’inizio avevano solo un paio immagini di divinità, incorniciate, adesso hanno diverse statue molto curate.

A sinistra il dio Ganesh, a destra suo padre Shiva

Quella che colpisce subito entrando, messa più al centro, ha la testa di elefante. Si chiama Ganesh mi dice. Poi negli angoli della stanza ci sono la madre Parvati, il fratello Murugan e il padre Shiva. Shiva sta anche, il corpo tutto azzurro, vicino alle due fotografie che utilizzavano per pregare i primi tempi.

Tempietto che custodice la statua del dio Ganesh

Gli chiedo perché il dio Ganesh abbia la testa di elefante: l’elefante è nostro animale più importante, poi c’è storia molto bella bella lunga, difficile adesso spiegare.

C’è una certa grazia in queste persone che vengono dallo Sri Lanka che qualunque cosa dicano non suona mai male.

Di storie che spiegano questa testa ce ne sono diverse, hanno a che fare con l’impazienza del padre, con la gelosia di altre donne divine, e la riparazione di quegli eccessi. Dando vita ad un essere che ha dell’umano e la profonda saggezza di quell’animale. Ai suoi piedi è sempre raffigurato un piccolo topo. Un animale piccolo ma molto intelligente, che per alcuni simboleggia l’ego, la bramosia, per altri la capacità col suo acume anche di produrre notevoli danni. Ganesh, dall’alto, lo neutralizza con il suo controllo. A pensarci un attimo il topo somiglia a quello che sta combinando in questo mondo l’uomo. Forse una preghiera a Ganesh di sorvegliare bene il roditore dovremmo farla tutti.

Davanti al tempietto che lo racchiude ci sono tre coppe dorate con polveri e impasti di vari colori. Gli chiedo a cosa servano e lui mette il dito dentro il primo bianco, lo porta al centro degli occhi per lasciare un marchio. Rifà lo stesso gesto con l’impasto rosato e poi con quello rosso. Prima di ogni cerimonia sacra, loro le chiamano pooja, è importante farsi sulla fronte questo segno.

La statua di Ganesh, prima delle cerimonie importanti viene lavata, ma solo il Pandit può farlo. Poi lo vestono con stoffe eleganti.

Ganesh vestito per la pooja (Foto di Suresh)

La portiamo in giro per questa grande stanza.

Non fuori gli chiedo?

No, fuori no, almeno per adesso, dobbiamo chiedere autorizzazioni, e siamo ancora… nuovi.

Poi mi mostra alcune foto di cerimonie fatte e un video. Tutti con i vestiti tradizionali, sari coloratissimi, uomini a torso nudo, pantaloni al ginocchio e bracciali. Sollevano la portantina in sei, si danno il cambio anche se percorrono, dentro questa stanza, pochi metri. Hanno gli stessi gesti ed espressione del volto che abbiamo noi quando portiamo in giro i nostri Santi.

Processione durante la pooja (Foto di Suresh)

Poi gli chiedo lui da dove venga esattamente. Vengo da Chilaw, centro di Sri Lanka, sulla costa occidentale.

Allora gli dico: dove c’è Kandy la città con il grande tempio buddhista. E mi pare contento. Lui va anche al tempio buddhista ogni tanto. Conosce bene il monaco con cui avevamo parlato. Se pensiamo che con i Tamil, in maggioranza induisti, in Sri Lanka fino a dieci anni fa c’erano conflitti questa unione tra persone di diverse religioni è un ottimo segno.

Poi mi dice che qui ogni tanto vengono anche italiani. Due signori di Bologna qualche settimana fa sono venuti ad assistere ad una delle loro cerimonie.

Quando ci sarà una pooja Suresh ci richiama, siamo troppo curiosi.

Pandit durante la pooja (Foto di Suresh)

Prima di uscire incontriamo un altro dei cinque o sei che si occupano più direttamente di questo tempio: Suresh ci ha tenuto a dirmi tutti i nomi in un elenco (Jegan, Jeyakanthan, Lavana, Kumar, Rasidharan, Paranjothy, Nalini).

Anche se lo sapevo ormai, lo avevo intravisto, questo posto mi ha sorpreso lo stesso.

È bello ogni volta andare per un vicolo della città in cui sono nato e trovare che sono lontanissimo dall’aver visto tutto.

(Fine settima parte, continua)

Testo e foto ©Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

IL VIAGGIO (4) – Ancora in Sri Lanka: un tempio buddhista a salita Pontecorvo, poco sopra piazza Dante

Continua il nostro giro del mondo a portata di piedi, senza inquinare, senza aerei. Siamo ancora in Sri Lanka, verso Montecalvario. (La prima parte del viaggio, per chi se l’era persa, si trova qui)

Giorno 5, martedì 14 gennaio 2020

Sono al centro storico per un servizio da fare, appena finito mi trovo a passare davanti alla grande chiesa del Gesù Nuovo. Mi avevano detto che qui la domenica mattina si dice la messa in singalese, entro per vedere se trovo tracce della cosa anche di martedì pomeriggio quasi sera.

Le trovo subito, appena oltre la soglia del portone, affisse dentro una grande bacheca semivuota.

C’è un manifestino con la loro bandiera e i caratteri inconfondibili del loro alfabeto, ci capisco solo i numeri, gli orari, come indizio non sono male.

A fianco c’è affisso un altro foglio, recita:

Gesù Nuovo Church, Certificato di eccellenza Trip Advisor.

Lo leggo e non capisco.

Mi volto un attimo indietro per guardare fuori, inquadrare il mondo esterno e localizzare il punto esatto dell’universo in cui mi trovo.

Lo leggo di nuovo. Nunn’agge capito, mo diamo le stellette di più o meno gradimento pure a Gesù Cristo?

Entro.

C’è qualcuno che prega, mi sento fuori luogo in questo momento, cerco di non disturbare, non vedo altro.

Esco.

Su un muro della piazza è affisso uno dei loro manifesti molto colorati, President Superstar, c’è un uomo col pizzetto, non si capisce se è la pubblicità di un circo, di un comizio elettorale o di un concerto.

Poi mi ricordo di un altro posto che ha un’intenzione simile a quella della chiesa, dare un po’ di pace a chi ci entra, sperando che riesca a conservarla il più a lungo possibile dopo che ne è uscito.

È il piccolo tempio buddhista singalese di cui mi avevano raccontato il primo giorno: poco sopra piazza Dante, lungo salita Pontecorvo, senza bisogno di salire molto.

La strada inizia quasi subito con una scalinata, mi sento a casa quando c’è da camminare a gradini, sembra un buon inizio.

È buio ma fotografo lo stesso, la luce è rossissima dai lampioni del Comune.

Lungo i gradini c’è un murale, dice: O mast fa e fierr e e fierr fann o mast, maneggiando un flex che taglia le barriere.

Salgo e inizio a guardarmi intorno per vedere se c’è qualche singalese a cui posso chiedere indicazioni più in dettaglio. Uno mi è appena passato di fianco in discesa e non ho fatto in tempo, fotografando mi ero distratto.

Poi, fermo, mi pare di vederne un altro:

scusi mi hanno detto che da queste parti dovrebbe esserci un tempio buddhista, mi sa indicare più precisamente dove?

Mi guarda, mi dice che non conosce il punto esatto e mi consiglia di chiedere a qualche singalese di passaggio.

Ah, ho sbagliato a riconoscere, le sfumature di carnagione sono molte, c’è poca luce, e il mio desiderio di incontrarne uno è troppo forte.

Lo ringrazio e continuo a salire.

Il primo che incontro di nuovo è un ragazzo pallido come me, pure nella notte.

Sì, guarda lo dovresti trovare un po’ più avanti.

Bello, questo ragazzo napoletano conosce esattamente il posto che stiamo cercando.

Dai che ci siamo.

Poi eccolo, lui lo saprà di certo: un signore proprio sull’ultimo gradino di un’altra scalinata qui, lungo il percorso.

Sta “due luci più avanti”, poi prende il telefonino per vedere non so cosa, va avanti e indietro, clicca sullo schermo un sacco di volte. Pare più emozionato di me all’idea che qualcuno che non parla la sua lingua cerchi quel posto che fa parte del suo mondo. Non ottiene il risultato che voleva, però mi incoraggia ad andare avanti.

È sempre bello quando uno lancia un sassolino nello stagno, chiede un piccolo aiuto, e c’è un altro da quell’altra parte che gratis, senza nessun motivo, gli sorride, gli fa capire che ha compreso il suo dubbio e cerca di rispondergli con tutte le sue forze.

Dopo pochi metri ecco una porta come molte.

Incollata, al centro, c’è soltanto una striscetta di nastro adesivo con un numero di cellulare, nessun nome, essenziale.

Dal vetro a fianco si intravede una luce chiara, e colori… non so… in qualche modo si riconosce, se provate ad andarci scommetto che la indovinerete anche voi tra tutte le altre porte.

Mi affaccio dal vetro e vedo un signore giovane, completamente rasato, dalla carnagione scura, vestito con una tunica amaranto in fondo, e un altro in piedi che gli sta parlando.

Mi vedono, faccio segno e vengono ad aprire.

Sì è questo il tempio buddhista.

Per entrare oltre bisogna togliersi le scarpe.

C’è un tappetino per fermarsi e la scarpiera per tenerle tutte in ordine.

È una stanzetta piccola, stretta e lunga, dopo la scarpiera un frigorifero, mentre mi tolgo le scarpe mi accorgo che il lavandino sta subito oltre.

Lungo le pareti, in alto, ci sono tante piccole statue.

Mi sembra quasi icredibile, questo posto, su questa strada, in una città che pensavo almeno un poco di conoscere.

Entro e il signore con la tonaca mi dice di aspettare per favore un attimo perché sta parlando con il ragazzo che mi ha aperto.

Ovviamente di quello che si dicono non capisco nulla, recepisco solo i suoni musicali, dolci, tranquilli. Nel frattempo mi seggo.

Aspetto, loro parlano, io guardo intorno.

In sottofondo, a basso volume, c’è una musica orientale.

Conto le statuette che sembrano dei Buddha.

Il ragazzo a un certo punto ringrazia, con le mani giunte e l’accenno di un inchino, esce, quando passa davanti al vetro ripete dalla strada quello stesso gesto.

Eccoci, inizio a chiedergli se posso registrare. Risponde tranquillo, la domanda quasi gli sembra banale.

Sono un monaco buddhista. Questo piccolo tempio esiste da tre anni, lui si trova a Napoli da sei mesi prima.

È aperto la mattina di ogni giorno, c’è una pausa dall’una alle cinque e mezza e apre di nuovo fino a sera.

Di domenica c’è la maggiore affluenza, circa trenta o quaranta persone. Alle undici di mattina c’è la spiegazione del Dhamma, alle sei del pomeriggio si fa meditazione, poi si canta, si prega…

Quando facciamo grande festa partecipano anche cinquecento o seicento persone.

Gli chiedo cosa sono quelle venti statuette esposte in alto.

Sono ventotto.

Non avevo notato che sopra la mia testa, su di un’altra mensola ce ne sono altre otto.

Le venti, per essere sicuro, le avevo contate due volte, ma se uno non guarda in tutte le direzioni non può vedere tutto, anche se si concentra molto.

Rappresentano le ventotto incarnazioni di Buddha che ci sono state nella storia fino ad ora.

Ognuna ha un’etichetta: in alto c’è il nome di quel particolare Buddha, poi gli chiedo cosa c’è scritto sotto.

È il nome di chi ha offerto quella piccola opera.

E il Buddha che conosciamo meglio noi? Quello che spesso pensiamo sia l’unico, qual è tra tutti questi?

Eccolo, è l’ultimo della fila dei ventotto, l’ultimo in ordine di tempo a venirci in soccorso.

Alle pareti ci sono dei poster con le tappe fondamentali della vita di quest’ultimo Buddha. L’elefante bianco che compare in sogno alla madre prima del concepimento. Poi lui che va nella foresta, si dedica a una vita di grandi astinenze tanto che diventa magrissimo, tutto il contrario delle immagini grassocce che abbiamo sempre visto. Fino a quando capisce che la via migliore è quella “di mezzo”.

Curioso il fatto che in questo nostro giro del mondo ci capita di incontrare Buddha in Sri Lanka e pure una delle primissime testimonianze della vita di quest’uomo arrivate in occidente ci era stata riportata, da Marco Polo, ne “Il Milione”, da questa stessa isola in cui stiamo viaggiando.

Mi conforta il fatto che anche quel grande viaggiatore, quando si tratta di riportare il nome di quell’uomo santo, pur con tutta l’attenzione che avrà fatto, lo cambia da Sakyamuni bhagavan, cioè “signore della famiglia dei Sakya” a Sergamon Borgani. Anche lui avrà notato che sono molto diversi i registri sonori che usiamo.

Nell’altra sala ce n’è uno grande, mi dice, per la seconda volta.

Quando gli avevo chiesto se potevo fotografare mi aveva subito detto: sì, anche nell’altra stanza, dove c’è Buddha grande.

Gli piace molto.

Vado a vedere.

C’è la statua e sullo sfondo l’immagine dell’albero sotto il quale meditava e dove una notte, con la luna piena, sembra che avesse visto tutto, completamente, di se stesso e del mondo.

A terra c’è la moquette, dietro una tenda sono riposti dei cuscini per sedersi.

Qui si fa la meditazione, oppure lui spiega il Dhamma, la dottrina buddhista, quello che c’è da sapere di teorico, anche se per loro la pratica della meditazione, non la teoria, è abbastanza il centro di tutto.

Gli chiedo se posso venire a sentire le spiegazioni qualche volta e a fare meditazione. Mi dice che non c’è nessun problema ma non so spiegarla bene in italiano, non sa se capirò molto.

Vorrebbe spostare questo tempio, poiché è un po’ troppo stretto, in un altro posto, forse il mese prossimo.

Quando gli chiedo dove, mi risponde: fontanelle, non capisco subito, allora lui ripete: fontanelle. Dai era facile, sì, a via Fontanelle, alla Sanità, dove sta il cimitero famoso.

Mi chiede cosa ne penso. Mi piace quest’idea, rimango colpito e glielo dico.

Un quartiere difficile, anche se adesso è molto cambiato, ma poi, pensando, ripeto quello che lui insegna ogni giorno: Buddha va dove c’è più bisogno.

Poi gli racconto che ho spesso pensato che pure in altri quartieri, con la fama di posti evoluti, tranquilli, in ordine, sarebbe forse utile un po’ di meditazione: al Vomero, a Posillipo, a Chiaia, le cose sono diverse ma nessuno può dire che la chiarezza, la consapevolezza mentale come la chiamano loro, sia di casa neppure in questi luoghi.

Parlando gli dico della mia esplorazione delle scuole singalesi a Napoli. Non mi pare molto contento, pensa che seguendo quelle scuole poi i ragazzi non potranno continuare i loro studi in Italia perchè non hanno valore ufficiale.

Attribuisce non tanto al fatto che i singalesi vogliano poi tornare al loro Paese d’origine il mandare i loro figli in quelle scuole, ma piuttosto a un certo timore, che i loro ragazzi nelle classi italiane siano troppo “liberi” e chi sa cosa gli può succedere, con i coetanei, magari iniziano a fumare.

Poi come ormai è diventata un’abitudine, chiedo a lui, come guida del posto, dove mi consiglia di andare per continuare il nostro viaggio. La prima cosa che mi consiglia è il tempio indù. Sta poco distante da qui però mi spiega due volte tutto il percorso per andarci. Avrà visto dalla mia espressione che tra il tragitto con un sacco di curve e la mia scarsa padronanza del singalese, non c’avrò capito molto.

Questa della lingua inizio a notare che è una questione abbastanza importante. A capire ci si capisce lo stesso, però forse se uno si vuole sentire più “dentro”, in mezzo agli altri, se dopo alcuni anni che si trova in Italia ancora non ha molta scioltezza forse vuol dire che bisognerebbe organizzare qualche iniziativa, magari una maggiore interazione tra italiani e forestieri, oltre a qualche corso.

Sto per uscire, gli ho rubato un sacco di tempo (anche se il suo tempo, dalla grande calma con cui parla, deve essere abbastanza diverso dal nostro), mi chiede se mi piacerebbe avere un braccialetto. Rispondo di sì, anche se non ne vado pazzo, ma sono curioso e cerco di coltivare l’apertura del viaggio.

Va nella seconda stanza, quella dove c’è la statua di Buddha, e sfila da un mazzetto un braccialetto fatto con due fili di cotone doppio e una perlina al centro. Mi chiede di dargli il polso sinistro, non destro, cioè sì destro, e mentre mi annoda con calma, più volte, il filo, pronuncia una specie di canto sotto voce. Poi termina, in italiano, con qualcosa tipo: lunga vita e salute e felice.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Post scriptum: stamattina, mentre mi lavavo la faccia, prima di iniziare a scrivere queste righe, noto che quel braccialetto ce l’ho ancora al polso. Allora non l’ho sognato, sono quasi sicuro che quel viaggio da una chiesa enorme sfarzosissima, col rating mondiale, a una stanzetta nei vicoli di Montecalvario col Buddha e il frigorifero nello stesso metro, davvero sia accaduto.

(Fine quarta parte, qui trovate la quinta parte)