DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (3) – Un signore quasi centenario, la panetteria, l’olio campione d’Italia e un film sui “briganti”

Continua il racconto con il terzo giorno del diario dal Cilento interno. Il giorno precedente, se ve lo eravate perso, eccolo.

Sabato 12 gennaio 2019, giorno tre

Stamattina alle dieci ho appuntamento con Rosi e Donato al Bar Impero (il terzo, con il Bar Sport e l’Italia, e credo ultimo, bar di Felitto); mi accompagnano a trovare alcuni anziani del paese.

Alle nove e cinquantasei, a piedi, esco di casa, il vantaggio del piccolo centro.

Nel marmo incastonato in una facciata, al primo piano, trovo scritto:

Ricordo di famiglia del soldato Sabetta Gerardo del 83° Fan. F. C. Morto eroicamente a Malgacucco Valsugana, il dì 1 aprile 1916. Il Tenente Colonnello lo chiamò: Prode militare. Felitto 17/3/1922

È la prima foto che scatto stamattina camminando nelle strade del centro.

C’è il sole anche oggi, dentro un cielo azzurro.

Poi vedo un sacco di panni stesi, in alto, su uno di quei fili che attraversano la strada da una casa a quella della signora di fronte. Allora ci abita più di qualcuno in queste case, allora non dice tutto ‘sto silenzio.

Sopra un arco basso che scavalca una scalinata in discesa, leggo: Vicolo Centrale. Non capisco perché chiamano Centrale un percorso che sembra minore, lo capirò tra qualche giorno, quando il prof. Donato Di Stasi mi porterà a fare un giro per tutto il paese raccontandocene la storia.

Incrocio Angelo, il salumiere conosciuto ieri che sta andando al negozio.

Poi in piazza Matteo De Augustinis, avvocato e giureconsulto, c’è il castello. Ci passo tutte le volte che entro o esco, ma è chiuso, anzi ci abitano, dovrei dire aperto.

Ecco Rosi; e Donato coi suoi cappotto e cappello neri, sarà parente d’o giureconsulto.

Buongiorno! I saluti sempre entusiasti di Rosi. Andiamo a prenderci il caffè.

Qui pagare al bar è difficilissimo, chi sa se stavolta ci riesco, si tratta di avere i riflessi più veloci di generazioni di anime di paesi; secondo me con chi sta alla cassa, come giocando a carte, per mettersi d’accordo si fanno pure dei segni convenzionali.

Un signore legge il giornale seduto al tavolino, dentro. Il televisore sta acceso a stendere sul mondo un velo di rumore di fondo. In silenzio la stufa elettrica fa il suo utilissimo lavoro.

Ci avviamo verso la nostra meta di stamattina e ci raggiunge il professore Donato.

La signora Graziella

Adesso è una casa del centro storico. Molti anni fa questo posto vicino alla chiesa nuova era fuori dal paese. Ci abitano due signori anziani: Graziella e zi’ Luciano Lascaleia.

Sto cercando soprattutto lui perché dicono che essendo della classe 1921 si ricorda tutto. Poco prima che arriviamo, la notizia che stamattina non è in casa rimbalza tra le persone e arriva a Rosi. Starà in giro, facendo una delle sue quotidiane passeggiate qui intorno. Però andiamo lo stesso a trovare la moglie.

La signora Graziella, siamo Rosi, il professor Donato e io, ci apre la sua porta di casa.

In cucina ha lo stesso camino mio felittese. Però lei ci fa un fuoco perfetto, come dovrei fare anch’io ma ancora nun teng’ ‘o curaggio. Perché la fiamma non sta dentro ma fuori, davanti, su una porzione di pavimento fatta con le mattonelle adatte.

Nun tenimo ‘u riscaldamento, stamo vicino ‘u ffuoco. Sorridendo.

Ci chiede se vogliamo il caffè ma lo abbiamo appena preso. Poi ci chiede se allora vulimu nu poco re limoncello e l’ospitalità va accettata sempre.

Scatto una foto a loro tre vicini.

Poi il professor Donato, con la sciarpa che gli scende davanti sui due lati, il cappello aderente, il limoncello sul tavolo al posto del vino e il giornale in mano, per un attimo lo scambio per un prete col breviario. Da ex professore di liceo, anche ex sindaco, la missione sociale che ha dentro per un attimo si vede.

La signora Graziella ha questa casa grande, con un balcone porticato che affaccia su un giardino, i fichi d’india, gli altri tetti di tegole, i comignoli col fumo e le montagne di sfondo.

Passando nelle stanze vedo il telefono fisso grigio che abbiamo usato per secoli, in una vita precedente, lei lo usa ancora, per favore telefonate adesso così vedo se suona davvero. Un comò con tutte le cose e, sopra un tavolo con la tovaglia di bucato, i fusilli fatti a mano da lei che si stanno asciugando.

Lei non vuole rispondere a domande perché un poco si confonde: Chiedete a Luciano, mio marito, lui si ricorda buono. Ci accompagna fino alla porta di casa, poi fino al portone esterno. Ci saluta sorridendo davvero, con il grembiule da cucina, lo scialle di lana e le pantofole rosse.

Zi’ Luciano

Finalmente ho appuntamento, nella piazza principale, con zì’ Luciano, il signor Luciano Lascaleia, uno dei più anziani del paese.

Quando arrivo, lui è già sul posto. Sono un paio di giorni che lo “inseguo” ma lui va in giro in libertà assoluta, ha l’età giusta per permettersi ‘sto lusso.

Buongiorno, siete voi il signor Luciano?

Sì, buongiorno, sono io.

Ah, eccovi, finalmente vi incontro. Allora, vi volevo chiedere un po’ della vostra vita e del paese.

Lui comincia pronto, lo sa che la longevità delle persone del Cilento ormai è un argomento che interessa al mondo.

Seguivo la trasmissione di Mirabella, su Rai tre, ve la ricurdate? E seguo quella duttrina che diciano pe’ televisione: la mattina faccio colazione con un poco di peperoni, verdure cotte, un pezzettino di caciocavallo, niente latte, e ‘nu bicchiere de vino.

Poi mi faccio una passeggiata.

Poi pranzo, e di nuovo esco perché ci vuole un poco di moto per un’oretta per digerire bene. La sera mangio soltanto ‘na frutta, non ceno.

Ogni giorno leggo lu giurnale, per tenere la mente allenata, così mi hanno cunsigliato. Prima leggevo “l’Unità”, ma a un certo punto al paese non arrivava più e mo leggo “La Stampa”.

Classe 1921, novantasette anni.

Sono nato il 13 dicembre, la notte di S. Lucia, perciò mi chiamo Luciano: mia mamma disse: “S’a purtato ‘u nome e ‘nciama ra’ “.

È un’usanza che poi ho capito che qui hanno, festeggiano compleanno e onomastico lo stesso giorno.

Poi mi accenna alla guerra.

So’ stato furtunato, ricu io, picchì di quattro battaglioni che eravamo, duemila uomini, tre sono andati in Russia. Il mio battaglione ci mandarono a Torino e poi in Calabria. Poi sono arrivati gli americani e quindi nun simu cchiù partuti e ni simu salvati. Degli altri, degli amici miei, sulu due o tre per battaglione su’ turnati.

Poi ho fatto il boscaiolo, dopo la guerra si faceva il carbone.

Vedete queste montagne? Le abbiamo tagliate tutte noi.

Man mano col ricordo va avanti nel tempo.

Nella mia vita mi su’ sacrificatu di tutti i culuri.

Alla fine questi fetienti italiani che ci amministrano i nostri denari… so’ na branca de mariuoli, scusate ca parlo accussì, ma te vene ‘a nervatura. Sono stato venticinque anni in Germania, e prendo dei soldi di pensione da lì…

E poi mi racconta delle mille peripezie invece, scoraggianti, con la previdenza italiana.

Quello che vi volevo dire: in Italia dove si tocca tocca ti fregano.

La percezione dello Stato come predatore. In Italia, forse soprattutto al Sud, è questa, troppo spesso, la visione.

Poi verso la fine: Mettetelo ‘stu racconto sopra lu giornale.

Poi la sua idea del mondo dei giornali.

Quando stavo in Germania leggevo “Cronaca Vera”, ma secondo me nunn’ era ‘na vera cronaca, era ‘na specie de romanzo. Ma ‘nu giurnalista che po’ mettere ncoppa lu giurnale, adda inventà pure iru qualche cosa.

Io inizio a dire che provo a non inventare niente, solo a scriverlo al meglio che posso, e lui nel frattempo ride.

Saluto zi’ Luciano. La sua voce diretta, mossa da dentro, una specie di scossa tellurica che trema molto poco per uno che ha visto così tante cose e così grandi, ancora me la ricordo oggi dopo due anni e chi sa ancora per quanto.

Il fornaio

Inizio a camminare. Mi girano nella testa ancora tutte le cose che mi ha detto la persona più anziana con cui ho mai parlato. I passi servono per lasciarle posare.

Poi mi viene in mente che passando da queste parti, lungo la strada nuova, la Strada regionale 488, che in paese prende il nome di via Insorti Ungheresi e, immancabilmente, di via Roma, nella parte più centrale, avevo visto una panetteria. Vado a cercarla, il pane non è un oggetto comune, lo sentiamo che ha del sacro, mi attrae.

Passo davanti alla ferramenta, c’è Giuseppe, il nipote di Rosi, ed entro un secondo: è piena stracolma del grasso nero e dell’arancione di motoseghe e decespugliatori in manutenzione.

La panetteria non ha insegna. Fuori l’unico cartello è “Cedesi attività”.

Entro e si sta benissimo: caldo e profumo buono.

C’è il banco di legno a mezzo metro dalla porta e una signora sorridente dietro.

Guardo in giro, il pane già ce l’ho, l’ho comprato ieri da Angelo, però i dolci mi mancano. Fanno dei biscotti buonissimi alle mandorle. Nel frattempo ci mettiamo a chiacchierare del paese.

Poi arriva il marito e chiedo anche a lui perché c’è scritto Vendesi.

Siamo stanchi. Sono mesi che cerchiamo un collaboratore che porti col furgone il pane ai negozi. Lavoriamo dalle 12 alle 6 della mattina dopo, e poi tocca fare le consegne fuori.

Dice che giovani che vogliono fare ‘sto mestiere, qui non se ne trovano.

Nel frattempo entra un signore col cappello di lana e il giubbotto mimetico pesante. A un certo punto, quando capisce che mi interessano i luoghi, mi consiglia di andare assolutamente sopra una montagna lì vicino, si vede dalla porta, venite a vedere da qui fuori. La conosce bene, come tutte le montagne che ci guardano qui intorno.

Compro i biscotti. Esco sperando che la panetteria non la vendano davvero.*

Dopo un po’ arriva Michele in macchina e mi porta a vedere un’altra cosa, antica e nuova.

Il frantoio e un olio d’oliva pluripremiato

Sono giorni che nelle orecchie sento da Michele questo suono: Marco Rizzo, insieme ad altri nomi. Piano piano poi riuscirò a incontrarli tutti, tranne, purtroppo, uno che risponde a quello di: antonionuvolidettocremino.

Parcheggiamo nel cortile. Esce un giovane con la barba e i capelli tirati indietro in una piccola coda.

È Marco, si muove rapido, non perde tempo, senza dubbi su quello che dice.

In pochi minuti mi mostra e mi spiega tutto il percorso che fanno le olive dagli alberi alle bottiglie. Quelle che sta riempiendo il suo socio adesso andranno in Giappone.

Poi mi invita ad assaggiare i tre tipi di olio d’oliva che produce.

Un po’ di remore ad assaggiare l’olio ce l’ho; come se fosse una cosa troppo densa; un sapore, provato da solo, troppo forte, ma seguo le sue raccomandazioni. Il bicchierino va tenuto prima un po’ tra le mani per riscaldare il contenuto. Conservano l’olio in atmosfera controllata e a bassa temperatura.

Poi guardo come assaggia lui, come un sommelier con il vino.

Provo a imitarlo. Ci riesco male ma il sapore e l’odore di questi tre oli sono così decisi che mi sembra di aver colto qualcosa. Con“Incipit” hanno vinto il premio speciale del Gambero Rosso nel 2018 come miglior olio italiano monocultivar.

Da oggi ho scoperto di cosa sa davvero l’olio di oliva e perché va utilizzato a crudo. Altrimenti è come se compraste il miglior vino e poi prima di berlo lo metteste in una pentola a bollire per qualche minuto.

Nel pomeriggio poi succede una cosa.

Il museo della civiltà contadina

Sto tornando a casa a piedi dentro i vicoli del centro. Una passeggiata in questo centro storico ve la consiglio: è piccolo, senza auto appena iniziano le scale, quasi tutto di pietra, a misura di cammino, e, come ne ho visti pochissimi tra quelli in buone condizioni, non suona finto.

A un certo punto incontro un gruppo di persone, alcune ormai le conosco, che parlano tra loro mentre indicano un portone.

Qui si potrebbe girare la scena…

Dopo qualche minuto capisco che è arrivato, per girare un film amatoriale sui briganti, anzi sulle guerre di liberazione, un gruppetto di persone da fuori.

Vanno in giro per il centro a cercare gli angoli giusti. Mi interessa la cosa, mi accodo a loro.

Entrano nel Museo della civiltà contadina e si apre un altro mondo.

È una casa dentro un bel palazzo. Hanno raccolto qui gli oggetti della vita dei loro nonni.

C’è la cucina in muratura, tutta bianca ricoperta di mattonelle, con gli sportelli di ferro per farci il fuoco dentro. Sopra ci sono poggiate pentole di tutte le dimensioni, appesi al muro mestoli e forchettoni. Verrebbe voglia di cucinare adesso, al volo. È tutto pronto, bisogna fare soltanto un po’ di ordine e rimettere l’acqua per la pasta sul fuoco. C’è anche il contenitore con il beccucchio sottile per l’olio.

Nella stanza a fianco c’è una stadera, ceste di vimini, la madia e tutto quello che serve per fare il pane.

Ancora più dentro c’è il telaio, di legno. Ha i pedali come un organo e la leggerezza della struttura dei cavalletti dei pittori.

Il soggiorno con le foto alle pareti, un tavolino e le teche a vetri. Le chiavi di ferro grandi. Andando in giro per il paese con queste, provando, si aprirebbero tutte le porte chiuse.

Il letto matrimoniale coi corredi. La culla basculante di fianco. Poi sul comò una scatola di ferro un po’ blindata e un poco a ghirigori. Una signora mi spiega che aveva un uso molto particolare. Quando un amore finiva, uno metteva le lettere ricevute dentro questa scatola e la seppelliva. La chiamavano: La tomba dell’amore.

La camicia e i pantaloni, cuciti con cura, belli, sagomati. Il bacile sul trespolo e la brocca. Pronti all’uso.

Poi iniziano a girare le riprese.

Il film

S’è fatto buio e si girano scene notturne coi soldati per le vie del paese, poi nell’androne del palazzo dei Migliacci (i notabili del tempo, quello che adesso ha comprato Rosi, la Casa re i ciento stanze), poi nel museo, con le donne armate a guardia su ogni pianerottolo, con le gonne dell’epoca e gli scialli.

Il buio sfuma i contorni delle cose e tutto sembra stia succedendo adesso, anche i bordi del tempo devono essersi sfumati.

Si finisce tutti a cena da Peppe, un piccolo ristorante pizzeria paninoteca nella parte nuova del paese, in una tavolata di venti persone. Mentre i professori da un lato del tavolo parlano di storia, da quest’altro lato tra attori e comparse si ride molto e forse nascono amori.

A un certo punto il gran finale: arriva il secondo giro di pasta dentro la padella più grande del mondo.

Mammà quante cose in un giorno, vuless’ sape’ chi l’ha detto che ci si annoia, che non c’è niente da fare nei paesi.

Fine terza parte, continua.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

Note:

* Poi la panetteria, che Rosi mi disse quel giorno: È in vendita da molto tempo, anche io spero che non la vogliano vendere davvero, l’hanno ceduta. Il pane lo fa ancora.

DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (2) – Incontri nei vicoli, una signora architetto, il carrozziere inventore e l’ultimo negozio nel centro antico

Continua il racconto da un piccolo paese dell’Italia interna, in Campania, in Cilento, a Felitto. (Se volete partire dall’inizio qui c’è il giorno uno).

Prima di iniziare però devo fare una breve considerazione.

Il diario di ieri finiva più o meno così: “La sera poi mi invitano pure a cena, stavolta a casa di Anna e Michele. In casa c’è una stanza vuota: il figlio studia a Modena perché, dice il padre, vuole diventare ingegnere alla Ferrari.”

Ecco, anche questo, come il traffico di quelli che intasavano le strade per andare a lavoro, è cambiato dopo l’arrivo del virus planetario. Una delle volte che, in questi due anni trascorsi da allora, sono tornato a Felitto, il figlio di Anna e Michele, Mario, l’ho conosciuto, adesso sta studiando da casa, quella stanza non è più vuota. Lo chiamano South working: lavorare, o studiare, dal sud per aziende che stiano altrove. È una cosa che se si hanno a cuore i paesi, adesso credo che si debba guardare attentamente. Qualche giorno fa mi sono accorto che se ne sta occupando anche il World economic forum, quelli di Davos 2021.

Ma adesso passiamo oltre, vediamo cos’è successo il giorno dopo.

Venerdì 11 gennaio 2019, giorno due

Stamattina la prima cosa che faccio è accendere di nuovo il fuoco. Qui, a gennaio, il caffè viene solo per secondo.

Stanotte ho imparato, me l’aveva suggerito ieri Anna, che una bottiglia di acqua calda nel letto è un sistema utilissimo: riscalda bene e per tutta la notte. Il cappello di lana con cui ho dormito non me lo sono ancora tolto; lo rivedo dentro lo specchio del bagno mentre mi faccio la barba. Neppure la calzamaglia e i calzettoni.

Fa freddo“, direbbe la moglie di Luca Cupiello, alcune volte.

Il campanile della chiesa madre in fondo

Spalanco le finestre, fuori c’è un sole bello. Il campanile della chiesa madre è a pochi metri; vicinissimi il tetto di tegole di fronte che sta nella foto di copertina, una piccola finestra di alluminio anodizzato e un balcone che non si capisce se è disabitato, perché ci crescono piante nelle crepe ma anche in alcuni vasi che ci sono.

Un altro abitante del centro

Mentre fotografo passa un signore; mi fa una certa emozione: allora non sono da solo in queste case. È l’unica persona che da ieri sera ho sentito camminare per le stradine del centro. Sono così strette e piene di scale che le auto non riescono a passare.

Adesso devo andare che ho appuntamento alle dieci con Michele.

M’incammino per i vicoli.

C’è un silenzio calmo, l’aria è pulitissima, frizzante, profumata anche della legna del fuoco. È come un grande abbraccio all’anima, che in qualche modo suo sta in silenzio ricambiando.

Il sole crea dei tagli di luce limpidi, allegri, caldi, sulle pietre fredde delle case. Ogni tanto spunta uno dei gatti disegnati sulle porte da una stessa mano, tutti diversi, colorati.

In una stradina, in fondo, intravedo qualcuno, allora tra i due o tre percorsi alternativi scelgo questo, gli vado incontro.

È una signora con i vestiti da lavoro e i guanti enormi. Sta armeggiando con la carriola per trasportare la legna a casa dal deposito, tra un viaggio e l’altro fa una pausa chiacchiere con la vicina che sta sull’uscio della porta a fianco.

Chiedo se le posso fotografare e, con una gentilezza piena di pudore, volendone sicuramente fare a meno, acconsentono. Poi mi chiedono chi sono, che ci faccio, è una inevitabile domanda in questi posti. Mostro il passaporto dell’amicizia di Rosi e tutto si distende ancora un poco.

Vado, altrimenti faccio tardi, ma visto che ormai sanno a chi appartengo gli dico che mi farebbe piacere, un’altra volta, parlare un po’ con loro. Va bene, non c’è bisogno di prendere appuntamenti, il centro storico è piccolo abbastanza da non perdere il contatto facilmente.

L’architetto

Buongiorno Michè.

Buongiorno Francè, stamattina face friddu. Andiamo al bar che ci stanno aspettando.

Salgo in macchina, pochi secondi e siamo al Bar Italia. Dentro ci sono già tutti: Rosanna, Donato, una nipote di Rosi: Angela, e Anna Pina, una signora architetto che oggi porta un grande cappello caldo con le falde.

Scopro dopo pochi secondi che, come Rosanna, ha un miliardo di idee e in continua evoluzione.

Dopo qualche minuto capisco che in realtà l’una senza l’altra non funzionerebbero altrettanto bene. L’idea di comprare la Casa delle cento stanze, la principale casa nobiliare del paese, Rosanna, da sola, non avrebbe avuto il coraggio di pensarla.

Anna Pina, da architetto, ma soprattutto da donna che ha una bella visione e vasta, delle cose di questa terra e di questo posto, le ha saputo trasmettere l’idea che quell’acquisto, ma soprattutto quella missione del palazzo, era possibile, bella, assolutamente da fare. Rosanna dentro quell’idea poi sa metterci la sua energia solare.

La missione, per chi non ha letto ancora quel primo articolo su Rosi è, come mi aveva detto: Se riuscissimo a fare in modo che almeno un giovane, anche uno solo, dei nostri, non fosse costretto ad andare via dal paese.

Poi Michele mi porta in giro a conoscere altre persone. Sta in ferie per qualche giorno e invece di spenderle per sé queste sue ore, le regala a noi curiosi che veniamo da fuori. In questo paese, se devo dire adesso alla fine di tutto, mi pare questa grande generosa accoglienza il loro più grande patrimonio.

Andiamo in macchina, poco lontano. L’ultimo tratto è in un vialetto di campagna.

Il carrozziere inventore

C’è un capannone, entriamo e c’è una specie di gigantesco carrozziere ed inventore buono.

Insieme al nipote di Rosanna, Giuseppe, ha messo su un’attività con la quale portano in giro, dove li chiamano, tutto il necessario per insegnare ai bambini le regole del codice stradale.

Macchinine, semafori, segnali e strisce pedonali sono già pronti su un carrello da rimorchio. Lo trasportano e montano un piccolo circuito stradale. Per spiegargli l’idea, invece delle parole li fanno guidare.

Si vede lontano un chilometro che Tommaso queste piccole auto le costruisce con passione. Le fa somiglianti a quelle vere, tra i modelli hanno anche la vecchia 500 e il maggiolino tutto matto. Le proporziona a occhio. Il suo capolavoro, di cui va molto fiero, lo sta creando ancora, è la F40, la Ferrari.

Tommaso e la F40

Mi porta a vederla sopra l’officina: la carrozzeria è quasi completa, per ora è grigia di stucco, va rifinita nel colore del fuoco.

Poi mi mostra un’altra idea: la bici cucina.

L’ha studiata nei minimi dettagli, anche quelli del codice stradale, ed è pronto a farne altre versioni secondo le richieste del cliente: numero di fuochi, frigorifero, pure un forno per le pizze si può mettere. Sorride, muove quelle sue mani grandi e dice: già ho studiato tutto.

S’è fatto tardi, è ora di pranzo, parlando parlando.

Le spalle al camino

La tavolata è lunga anche stavolta: Anna, Michele, Rosi, Donato, c’è pure Angela.

Una cucina come se fossi a casa, anzi meglio, un bel bicchiere di vino prodotto a poche centinaia di metri da qui da un giovane agronomo, iscritto a Filosofia, con le idee chiarissime e molte, che andremo a trovare un altro giorno.

Poi imparo che il posto più caldo d’inverno a tavola in paese è quello con le spalle rivolte al camino. Il gatto di casa lo sapeva già da molto tempo. Si accoccola sulle gambe di chi se ne sta seduto più tranquillo più vicino al fuoco.

L’ultimo negozio del centro storico

In uno dei pochi momenti in cui tornavo a casa, non il primo giorno ma solo verso la fine di questo secondo perché Rosi o la sorella Anna mi invitano a pranzo e a cena quasi con l’insistenza di mia mamma, vado a fare finalmente la spesa. Ho la cucina a disposizione, troverò il tempo per cucinare almeno un giorno.

Nella prima strada c’è la porta di legno dell’unico negozio rimasto nel centro antico, già per questo, anche se non dovete comprare niente, merita una visita.

Entro ed è una scena il cui primo ricordo sta… ecco, nella mia infanzia calabrese: la salumeria di paese che spero ci sia ancora in tutto il mondo. Una stanzona unica, il pavimento di una volta, gli scaffali lunghissimi sui lati, qualche scatolo di cartone con le cose, mille confezioni diverse, una persona che sta ad ascoltarti dietro il bancone in fondo. Si chiama Angelo.

Inizio a chiedergli la pasta, il caffè, mi ricordo di comprare il pane, la birra… ah, l’olio.

Ti posso dare l’olio di semi ma l’olio di oliva nunn ‘o tengo.

Cioè, fatemi capire, siamo in un paese assediato dagli alberi di olivo e ‘sta salumeria che tiene tutto, forse pure un pezzo di Vespa Piaggio, gli chiedo l’olio e: “Nunn ‘o tengo?”.

La ragione, mi spiega, è molto semplice: qui l’olio ognuno si fa il suo, spremendo le olive del suo campo, nisciuno ‘o compra ‘o negozio. Perfettamente logico.

Poi, a un certo punto, parlando: Il negozio se fosse per me lo avrei chiuso, lo tengo aperto soprattutto per mia mamma che mi ha preceduto in questo lavoro. Più una tradizione di famiglia che una fonte di guadagno. Ecco chi era la signora seduta che avevo intravisto la volta precedente che ero passato un secondo.

Ogni tanto mentre parliamo entra qualcuno a comprare qualche piccola cosa al volo. Alcuni pagano subito, altri poi fanno un unico conto. Io penso di aver preso tutto… i biscotti. Esco e mi sembra di aver visto un altro pezzetto, imprescindibile, del luogo.

Mo vado a casa a mettere tutto a posto. A presto con il seguito del racconto.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (1) – Dieci giorni in Cilento, a Felitto, fuori stagione, per vedere come si vive nei nostri paesi

Due anni fa, il 10 gennaio 2019, ero andato a stare dieci giorni in un piccolo paese del Cilento, circa milleduecento abitanti, all’interno. Ero curioso di vedere come ci si sta nei giorni normali, fuori stagione, nè d’estate nè a Natale quando arrivano i turisti e tornano quelli che vivono fuori.

Una volta tornato a casa avevo iniziato a scrivere il diario di quei giorni, poi, senza finirlo, avevo interrotto. Forse non era il momento giusto, forse le cose che avevo visto avevano bisogno di posarsi prima bene sul fondo per poi poter risalire con una specie di ordine, del tutto.

Adesso che dei paesi dell’Italia interna si riparla come di una possibilità nuova, ho pensato che quel racconto potrebbe esserre utile a qualcuno che sta tentennando, indeciso se spostarsi dalla città in un borgo simile a quello. Ho sentito che anche al paese, quella promessa che avevo fatto di raccontarlo, mantenerla era un dovere, bello.

Allora eccovi, se vi incuriosisce, quel diario.

Buon viaggio.

Giovedì 10 gennaio 2019, giorno uno

Quando venni a intervistare un mese fa Rosanna Di Stasi (qui trovate quell’articolo) rimasi colpito, non solo da lei, ma da tutto il paese.

Dopo i tanti visti dell’Italia interna, mi era parso che avesse in più qualcosa, non sapevo cosa. Ancora non lo so neppure stamattina. Forse esserci venuto e avere avuto una guida, esserci venuto non per guardare i muri ma per parlare con una persona precisa.

E a Rosanna l’avevo detto: ‘Sto paese vostro ha qualcosa che non ho incontrato prima, se riesco a gennaio vorrei tornare.

Eccomi in macchina.

Stavolta parto presto, evito la fila di auto dei lavoratori degli uffici, quelli che ancora vengono fatti spostare con tutto il corpo, e la mente magari si riservano di lasciarla a casa o di tenerla altrove. Ormai si potrebbe, nella maggioranza dei casi, lavorare semplicemente collegati tramite la rete. Spostare solo le informazioni, molte meno masse, e bruciare pochissimo petrolio. Io l’ho fatto per quasi due anni, dal 2010, da Napoli con l’ufficio in Olanda, anche discutendo via internet con gli operai che dovevano costruire davvero quello che avevo disegnato su un foglio di carta elettronico. Funzionava. (Questa parte iniziale del diario l’avevo scritta due anni fa, poco dopo essere tornato, l’ho lasciata identica perché mi sembra mostri come la pandemia serva anche a spingere il mondo a provare nuove strade, utili, senza perdere tempo).

Nelle foto del viaggio il colore dominante passa piano piano dal nero asfalto cittadino, attraverso il verde delle campagne, a qualcosa di misto tra l’azzurro cielo, il bianco della neve, il colore della pietra e l’incarnato delle persone.

Arrivo alle dieci in punto. Telefono a Rosi ma mi risponde Donato, il suo compagno, e mi spiega: Ciao Francè, si arrivato? Rosi s’è scordata il telefono a casa, ma la trovi nel Palazzo delle cento stanze.

La vado a cercare al palazzo fastoso in decadenza che lei ha voluto comprare con i risparmi di una vita in Germania per rimetterlo a posto e farne qualcosa di utile per i giovani felittesi, ma lo trovo chiuso. Vabbè, il viaggio è fatto di passaggi a vuoto che poi all’improvviso si riempiono di nuovo.

Appena Rosanna recupera il telefono si scusa cento volte e mi dà appuntamento in uno dei bar del paese. Anzi specifica proprio: Andiamo in un altro bar questa volta. Credo sia l’equilibrio, sottile, da tenere nei posti dove si vive a stretto contatto.

Eccola, arriva, come sempre, con un grande sorriso negli occhi e nella voce. Andiamo andiamo, ti offro un bel caffè.

Si sta caldi in questo bar grande. Stanotte da queste parti ha nevicato molto: in paese no, ma tutte le creste delle montagne intorno sono bianche.

Una montagna in fondo ha lo stesso profilo di un massiccio tirolese stampato nella mia memoria da molti anni.

Spiego a Rosanna la mia idea di fondo: vorrei vedere come si vive in un paese piccolo; provando in prima persona e ascoltando le storie della gente. Bene, allora cercherò di metterti in contatto con un po’ tutti. Ognuno avrà qualcosa che ti vuole dire.

State attenti a quando Rosi dice una cosa perché poi la fa sul serio: da quell’istante non m’è rimasto quasi più un attimo libero per capire cosa mi stava passando per la mente davvero.

Al Municipio

Usciamo dal bar e mi porta subito alla Pro loco a prendere un po’ di informazioni, compro anche una cartina dei sentieri della zona, sarebbe bello… non si può mai sapere.

Poi al Municipio; sta qui, affaccia sulla stessa piazza a pochi metri.

Ci entra non come faremmo noi a Napoli o in qualunque città grande, ma come se entrasse in una casa sua e di tanta altra gente.

Nell’androne e lungo tutte le scale non ci sono carte geografiche od onorificenze, ma molte foto di persone. Antiche, in bianco e nero, di famiglie intere.

Dentro il Municipio

L’appuntato dei Carabinieri sta nella prima sala al piano superiore, poi incontriamo Emilia.

Siamo venuti a cercare lei, perché col marito ha scritto diversi libri su questo paese. Ha molto da fare in questo momento, ma poi si ferma e inizia a raccontare degli archivi e degli studi sulla storia del luogo.

Nella stanza successiva c’è un armadio di ferro, di un colore blu, oppure verde, assomiglia a una vecchia automobile, ad un treno. In alto c’è scritto Anagrafe, in lettere saldate: ha fissato dalla nascita il suo scopo.

Un impiegato ci mostra i libri del 1800.

Sono di tre tipi, ci dice: Nascita, Matrimonio e Morte. Poi c’è un quarto tipo, sono gli Altri eventi.

Quasi non si ricorda più a che servono gli ultimi, li apriamo insieme. Ci sono registrate storie più complicate di quelle tre basilari. In alcune pagine raccontano di cose accadute sulle navi, in mezzo al mare; in altre di bambini portati ad altri perché gli facciano da padri e madri.

Scendiamo di nuovo e incontriamo subito, fuori, altre persone: la signora Franca, il professor Donato, poi scende Emilia. Iniziamo a discutere di Felitto e davanti al portone del Municipio nasce in pochi minuti un misto tra un’allegra brigata, un comizio e un gruppo di opinione.

Ogni volta che incontriamo qualcuno di nuovo Rosanna mi presenta: scrive per un giornale ed è venuto qui per vedere la vita nel paese, avrebbe interesse a parlare con ciascuno di voi.

E piano piano, ogni mano che stringo, mi sento un po’ più a casa, di fare un poco parte anch’io di questo posto.

Quando sono arrivato, ogni volta che ho incontrato qualcuno, gli si leggeva sulla faccia, o era solo una mia impressione: Chi sa chi è questo: è inverno, non è del paese, non è manco uno che era di qua e adesso vive fuori, si sarà perso. Poi camminando con Rosanna a fianco la loro espressione cambia molto.

S’è fatta ora di pranzo nel frattempo e Donato a casa ha cucinato la sua specialità: pasta e fagioli. Ci mette l’aglio schiacciato, il sedano, un pomodorino, ‘nu sacco re cose, chello ca trov… nu poco pure invento, poi ci cuoce la pasta dentro tutto insieme col coperchio. Si pranza in una tavola lunga anche con Anna, la sorella minore di Rosi, e Michele suo marito.

La casa di pietra nel centro storico

Nel pomeriggio poi abbiamo fatto altre mille piccole cose. La più importante è stata procurarci la legna e accendere il camino per riscaldare questa casa vuota in cui starò per dieci giorni. Lo ha acceso Rosanna che qui ha abitato, prima di sposarsi, a diciannove anni, ed emigrare in Germania.

Avevo chiesto di poter stare un po’ di tempo a Felitto, ma se possibile in una casa semplice, antica, dentro il centro storico. L’idea è vedere davvero, per quanto ci riesco, come si vive dentro i nostri paesi, senza lasciarsi troppo portare dalle parole che raccontano in giro.

A sinistra la porta di casa nel centro storico

Anzi adesso quell’idea ve la dico tutta.

Gli orientali sostengono che siamo costituiti di tre cose: corpo, mente ed energia oppure, loro dicono, voce. Ecco io direi, per semplificare: corpo, mente e passione. L’idea che ho da qualche tempo è che, come noi, pure i posti in cui abitiamo, che creiamo, le città e i nostri paesi, hanno gli stessi tre elementi di base. E allora, se i paesi dell’Italia interna, come ormai li chiamano, hanno problemi di spopolamento, forse uno o più di quei tre elementi sta soffrendo.

Se uno chiede in giro perché i paesi stanno scomparendo, la prima risposta, ci scommetto, è: Ccà nun ce sta lavoro, cioè di quei tre elementi sarebbe, secondo loro, il corpo quello che ha problemi.

Ma a me ‘st’idea non mi convince proprio, ho il sospetto che siano gli altri due i punti più deboli del gioco adesso. Che siano la mente cioè il progetto, e l’energia, la passione di stare nel paese, i punti deboli di questi posti in questo momento della nostra storia.

La mente perché non sviluppa abbastanza idee nuove, e questo soprattutto perché la passione, il cuore, dice, in fondo: quelli “buoni” stanno tutti fuori, nelle città grandi, chi rimane qui, nei paesi, è soltanto chi è rimasto sul fondo. In sostanza: il piccolo paese è (ma forse con questa pandemia le cose stanno rapidamente cambiando) fuori moda.

Ecco, mo che ve l’ho detto, continuiamo con la storia; poi vedremo, alla fine, se di questa domanda avremo trovato almeno un poco conto.

Dicevamo di questa piccola casa.

Quando ci sono entrato per la prima volta ho capito che era esattamente quello che intendevo. Rosanna a volte pare che fa un sacco di chiasso, dice mille parole, ma non le sfugge mai il senso di quelle che le dite voi. La casa è disabitata da tempo, e siamo a metà gennaio, per renderla accogliente bisogna farci, per ore, il fuoco.

Il camino con la bocca piccola

Abbiamo preso la legna da casa sua nuova dove vive adesso, vicino alle Gole del Calore. Però quella che abbiamo preso dopo, nella Casa delle cento stanze, è molto migliore: prende subito fuoco. Lei lo prevedeva, perché sta lì in cantina, al coperto, abbandonata insieme a quella enorme casa, da circa il 1970.

Rosi mette un po’ di legna grossa, poi in mezzo, sotto, ci mette quella fina, loro la chiamano scantamanu, perché se uno non sta attento si taglia un po’ le dita con questi sottili rami, eleganti, di filigrana di erica secchi. Per dare la prima scintilla usa l’accendino e un po’ di carta di giornale.

Il camino è talmente freddo che pure lei che questa operazione l’avrà fatta in vita sua già un milione di volte, il fuoco si è spento, deve ripeterla di nuovo.

Poi quando il fuoco ha preso aggiunge altra legna e, piano piano, tira un po’ fuori quella che si è già accesa bene.

È un curioso modo di fare il camino, almeno io non l’ho mai visto.

Però a pensarci ha ragione. La legna accesa, se rimane dentro, porta la maggior parte del calore, attraverso il comignolo, all’esterno. Se invece la mettete sulla bocca riscalda molto di più la stanza, mentre solo il fumo viene aspirato con forza dal tiraggio fuori. Credo sia un modo escogitato soprattutto quando da queste parti di soldi ce n’erano davvero pochi e ogni minimo spreco aveva molto valore; e torna utilissimo anche oggi che abbiamo capito che meno bruciamo energia, meglio sta il pianeta fuori.

La sera poi mi invitano pure a cena, stavolta a casa di Anna e Michele. In casa c’è una stanza vuota: il figlio studia a Modena perché, dice il padre, vuole diventare ingegnere alla Ferrari. Lo capisco e non dico nulla di più di quello che già sanno: io sono ingegnere pentito, ho già confessato ai magistrati.

I giorni sono dieci: il racconto, se vi piace, continua. Con calma, come nei paesi.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

MAPPE – Salita Prevetarielli, da Capodimonte a piazza Carlo III in 22 minuti

Ecco un’altra scorciatoia per pedoni nella parte orientale di Napoli.

Si chiama via Macedonia ma è meglio nota come salita Prevetarielli a causa del convento di frati Cappuccini che sta qui dalla prima metà del ‘500.

Vi porta da via Ponti Rossi (a dieci minuti, circa ottocento metri, da Porta Grande del Real Bosco di Capodimonte), cambiando nome in via Michele Guadagno e via Bernardo Tanucci, fino a piazza Carlo III in una ventina di minuti.

Qui la mappa interattiva

Trovate la descrizione completa e un po’ di foto del percorso qui nel nostro sito

NAPOLI DAL MARE – Viaggio nel tempo, a vela latina, ricordando Caracciolo

29 Giugno 2017

La linea di costa questa volta la vogliamo percorrere non nello spazio ma nel tempo, andando indietro; navigando come si faceva una volta, a vela latina, sulle barche di legno.

Abbiamo cercato chi andasse ancora per mare in questo modo tradizionale e abbiamo trovato l’associazione “Vela latina Monte di Procida”.

Le loro barche stanno ormeggiate nel porticciolo di Acquamorta, sotto la montagna, di fronte all’isola bassa.

Antonio Pugliese, presidente dell’associazione, ci ha invitato sulla sua barca, che si chiama San Giuda Taddeo, ha le strisce bianche e nere come la Vespucci perché così hanno voluto quelli del film “The happy prince”, il film su Oscar Wilde quando viveva a Napoli, a Posillipo, a villa Bracale sopra san Pietro ai due Frati.

Abbiamo appuntamento alle quindici alla testata del molo centrale, dove la barca è ormeggiata. Arriviamo un po’ in anticipo ma pure Antonio è già arrivato. So’ svizzeri sti montesi.

Da lontano vedo una barca con un’asta messa di traverso, in diagonale. Nella terminologia nautica precisa si chiama antenna e serve a reggere la vela maestra di questa barca. Ha un’eleganza quest’armo, che si chiama latino. É antichissimo, lo usavano già i greci. La prima testimonianza sicura sta in un bassorilievo del 150 d.C. trovato nel porto del Pireo.

Un albero non troppo alto regge un’asta obliqua, rivolta verso il basso in avanti, sulla quale sta la vela. É un armo semplice ma consente di stringere il vento (cioè procedere andando incontro al vento) quasi come una barca moderna, più delle vele quadre che usava Cristoforo Colombo sulle caravelle.

E’ una barca piccola, sottile, le strisce che mi aveva descritto Antonio per telefono come riferimento sono facilmente riconoscibili e la troviamo subito. Ciao, buongiorno, c’ iamm’ a piglià ‘o ccafè prima di uscire per mare?

Qua si conoscono tutti. O almeno Antonio e ssap’ a tutti quanti, quelli che gestiscono il bar ma pure quelli che al bar ci vengono come clienti. Sembra un circolo privato, ma senza doversi tesserare. Sulla spiaggia qui vicino c’è la gente a fare il bagno. La giornata è perfetta, fa caldo, e a quest’ora c’è pure il vento. Saglimm’ a buordo.

Come metto il piede in barca mi accorgo che è leggera: conta dove ti metti, se stai su un lato se ne accorge subito. E poi è un mondo fatto di legno: la barca, l’albero, i remi, il bompresso. Pure le cime sembrano di materiali antichi, niente fibre moderne ultraresistenti. Un solo cavo d’acciaio, ci dice Antonio, sta a prua a reggere il carico verticale che genera il fiocco (la vela che si issa davanti) sullo spigone, quel palo di legno, quando viene armato.

Ma pure ‘sto cavo ha una storia particolare: l’ha trovato in Cina un giorno che si trovava su una nave a fare il suo lavoro ufficiale. Lo chiamano in tutto il mondo, di porto in porto a controllare se le lamiere d’acciaio delle navi nascondono fratture, lui le cerca con gli ultrasuoni e vede se rispondono. Va di nave in nave, mi fa in tre minuti l’elenco delle tappe fatte durante l’ultimo viaggio e dentro ci sta mezzo globo; il mondo è uno solo per chi lavora sulle navi. “Una volta mi imbarcavo come equipaggio e nelle ore di riposo si giocava a carte o ci si raccontava. Oggi stanno ognuno per i fatti suoi nella propria cabina davanti a un computer. Mo non mi imbarco più per lunghe tratte, faccio solo i controlli”.

Ma usciamo, usciamo dal porto. Il motore questa barca non ce l’ha proprio, solo vela e remi, il silenzio è assicurato, il rumore dell’acqua e del vento pure.

Prima di uscire Antonio ha aperto un barattolo, ha preso un poco di grasso, ‘o ssivo, e lo ha spalmato sulla cima che regge la vela maestra e un po’ sulla legatura dei remi: “pure questo grasso non si trova, lo sai, bisogna farselo fare”. Serve a far funzionare meglio le cose e a non farle consumare prima del tempo.

Molliamo gli ormeggi e la barca da sola comincia a uscire dal porto. O conosce la strada o s’è messa d’accordo. Il vento ci spinge nella direzione perfetta. Senza fare niente siamo quasi troppo veloci, quasi tirati verso fuori dal primo molo.

Poi sciogliamo i matafioni, i lacci che tengono chiusa la vela principale (il fiocco per oggi non lo useremo, il vento c’è e vogliamo andare tranquilli, per parlare, senza stare solo a controllare le vele), per uscire dal porto, oltre il molo esterno, adesso occorre ancora bordeggiare.

Antonio le barche si diverte a disegnarle, come perito nautico, poi le fa costruire ad altri, maestri d’ascia; ci dice che qua ce ne sono ancora, sono una famiglia, si chiamano Scotti Belli.

Bordeggiamo nel porto verso l’uscita. Proprio all’ingresso, alla testa della scogliera, passiamo vicino vicino ai massi che stanno pure sott’acqua. Con questa barca si può fare perché è diversa da quelle moderne anche per il fatto che pesca pochissimo, cioè sotto non ha una pinna lunga verticale di ghisa come si usa adesso, ma una tavola di legno profonda solo sedici centimetri messa in orizzontale, per lunghezza, al centro. Quindi basta pochissima profondità di mare e si riesce a passare.

Ed eccoci fuori dal porto, dentro il canale di Procida. Il vento e la corrente vengono dal lato nord e scendono verso Napoli. Si naviga facilmente in direzione Procida con il vento di lato.

La sensazione è di leggerezza, non ci portiamo peso di metallo appresso. Leggerezza che però richiede di stare attenti perché questa barca si può pure ribaltare. Le barche moderne anche quando toccano con l’albero l’acqua sono ancora in sicurezza, si rialzano come quei pupazzi dei bambini con la base rotonda: gli dai uno schiaffo e quello si rialza, le barche moderne prendono schiaffi dal vento e appena cala si rimettono in piedi. Queste barche qui no, gli schiaffi qua se li prendi si sentono.

Però ci sono dei vantaggi: “Io a Procida vado tranquillamente ‘ncopp a spiaggia, sagl’ n’copp ‘a rena”: un rapporto diverso col mare e con la costa, più diretto, che richiede più abilità e mette in conto anche un po’ più di rischio.

Lungo il pontile del porto commerciale di Procida, Antonio mi fa notare la forma delle bitte di ormeggio: se guardate bene somigliano a cannoni piantati con la bocca in giù dentro il terreno. E sono proprio cannoni, qualcuno dice siano quelli della flotta inglese che aveva subito danni da parte di un marinaio napoletano nel 1799. Il marinaio era l’Ammiraglio Francesco Caracciolo, che combatteva Nelson con le navi coralline: la paranzella corallina cannoniera napoletana cita Antonio, e qua sa tutto. Pare che all’epoca i marinai di Caracciolo si fossero inventati una cosa nuova, visto che la flotta napoletana era andata letteralmente in fumo. La scusa ufficiale che avevano usato gli inglesi per far distruggere al re la sua stessa flotta era che non c’erano marinai, quasi tutti ammutinati, e pure quelli dei cantieri si erano “sciolti” dal loro impegno. Erano navi belle, tante, una flotta potente, ma non c’erano uomini per governarle e per fare la manutenzione. Allora per non lasciarle in mano ai francesi ed ai Cittadini della Repubblica del 1799 si decise di incendiarle; una flotta intera. Sembra che lo spettacolo di quelle fiamme da Mergellina sia stato grandioso, nella sua miseria.

Bene, allora per affrontare gli inglesi che, come ogni straniero, fingevano di fare gli interessi di Ferdinando IV, i cittadini della Repubblica napoletana si inventarono di usare tutte le barche che potevano trovare. Sulle barche piccole che si adoperavano per pescare il corallo, ci misero un cannone, a prua, in asse longitudinale (se lo mettevate di traverso potevate pure sparare un colpo buono ma di sicuro con il rinculo che vi ribaltava, vi autoaffondavate).

La cosa bella è che, secondo Vincenzo Cuoco, con questo tipo di flotta i napoletani, la flotta inglese a Procida l’avevano battuta, se non fosse stato per un cambiamento del vento a battaglia vinta, che li costrinse ad arretrare.

Nelson se la doveva essere legata al dito, insieme a molte altre che ne aveva fatte l’Ammiraglio Caracciolo e appena venne portato a bordo del Foudroyant, la nave dell’Ammiraglio inglese, dopo un processo lampo, la sera stessa, senza concedergli neppure le ventiquattr’ore che a tutti i condannati si lasciavano, venne giustiziato. Ma non come sarebbe spettato ad un nobile, qual era, per decapitazione, oppure a un soldato, come pure lui stesso chiese, per fucilazione, ma impiccato come un delinquente comune, come un pirata, all’albero di trinchetto della fregata Minerva. Venne lasciato lì sospeso dalle cinque del pomeriggio fino al calar del sole, poi fu gettato in mare, davanti casa, nelle acque del golfo.

Non avevano fatto bene i conti, oppure Caracciolo era troppo benvoluto da questo mare, e riemerse, una sera di alcuni giorni dopo. Qualcuno dice che riapparve proprio davanti al re che stava affacciato dalla poppa della nave di Nelson in festa per il ritorno dei reali da Palermo. Altri dicono che è solo leggenda. Di sicuro l’Ammiraglio riemerse ed ora sta sepolto a via S. Lucia, vicino alla casa materna, nella chiesa di Santa Maria della Catena.

Antonio appena è venuto fuori l’argomento di questo marinaio ha citato una frase: “É ben grazioso che dovendo io morire, tu debba piangere”, è quello che Caracciolo disse per rincuorare il marinaio napoletano Giosuè Caccioppoli in lacrime sul ponte della Minerva per la sua morte imminente.

Questo reportage come sapete è sulla linea di costa napoletana, bene, la linea più lunga cittadina lungo il nostro mare si chiama come quell’Ammiraglio però abbiamo scoperto che è una strada incompiuta: a piazza Vittoria c’avete presente la colonna spezzata? Be’ quello era stato pensato come monumento a questo marinaio assoluto, entrato in marina all’età di cinque anni. Colui che la regina Maria Carolina temeva perché come scrive in una lettera al Cardinale Ruffo “…conosce tutte le cale e buchi di Napoli e Sicilia, e potrebbe molto molestare, anzi mettere la sicurezza del re in pericolo…”. Ne costruirono il basamento, poi sono finiti i soldi, al posto della sua statua c’hanno messo la colonna, al posto del suo nome una targa a tutti i marinai caduti.

Se oggi 29 giugno andate alla festa al borgo marinari, l’hanno chiamata la festa del Borgo dei pirati, organizzata dal Real Yacht Club Canottieri Savoia dalla Marina Militare e dall’ AIVE in occasione delle regate con le barche d’epoca che cominciano oggi: passando per via S. Lucia davanti alla chiesa di S. Maria della Catena, quella gialla con la doppia scala, leggete il cartello che parla di quella tomba. L’Ammiraglio venne giustiziato, combinazione, proprio in questo giorno nell’anno 1799. Magari alla festa ci andrete col pensiero di uno dei marinai napoletani più gloriosi in testa, che i pirati di ogni nazione, per tutta la vita, aveva combattuto.

Ma torniamo a bordo della nostra barca dopo la divagazione che parlando con Antonio era venuta fuori. Perché la sensazione parlando con lui è che a Monte di Procida, dove c’è gente che vive sul mare, questo Ammiraglio sia molto conosciuto, sembra di casa, a sentirli parlare sembra di sentire lo stesso entusiasmo che usano ai Quartieri spagnoli a discorrere di un campione argentino del pallone.

Siamo arrivati vicino alla costa procidana, si vedono i bambini che giocano sulla spiaggia. Quelle casa colorate laggiù in basso, le vedi? Le chiamano le case dei molfettesi, era una colonia di persone che venivano da quel paese. I procidani abitavano in alto sopra Terra murata, per ripararsi dalle incursioni dei pirati, i molfettesi che non avevano abbastanza soldi furono costretti a rimanere in basso, vicino al mare e a sopportare le incursioni, i saccheggi e gli stupri. Se vedi vicino alle loro case trovi un sacco di grotte strette e lunghe: servivano per riporre gli alberi quando le barche venivano tirate a terra.

É ora di tornare indietro verso il porto di casa. Antonio ci consente pure di stare un poco al timone. É divertente ‘sta barca, anche al timone è leggera. La scotta della vela maestra si manovra a mano, almeno col vento di oggi non richiede grande impegno.

Antonio ci racconta che l’associazione organizza le regate dentro il lago di Miseno, le hanno chiamate “Trofeo Classis Misenensis” dal nome della flotta romana da guerra, quella che comandava Plinio, e che stava ormeggiata proprio qui quando questo era il porto principale della Roma degli imperatori.

La prossima manifestazione che organizzano, insieme ad altre associazioni e col patrocinio del Comune di Monte di Procida è il “Palio marinaro dell’Assunta”, il 13 agosto, in cui gli otto quartieri del Comune si sfideranno in una regata sui gozzi tipici ma questa volta a remi.

E il Comune sembra appoggiare davvero da queste parti le attività nautiche tradizionali: infatti concede alle barche tradizionali, senza motore, tariffe d’ormeggio agevolate. Tornando a terra, lungo il pontile vediamo tante barche di questo tipo. Si chiamano Tonino, Lucrezia, S. Giuseppe, le usano ancora per pescare e quasi tutte non hanno il motore.

Salutiamo Antonio che ci ha raccontato altre mille cose, ci ha fatto sentire che a Monte di Procida vivono ancora di mare, non tanto come pescatori ma da marinai. Lui dice che molti armatori montesi adesso hanno la sede in Svizzera, che sono grandi lavoratori, anche furbi. Bravi, ma anche un poco “pirati”.

Testo, foto e video di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)