NAPOLI IN BICI – Siamo andati a Gesualdo a visitare l’atelier di un “sarto” di biciclette

Settembre somiglia un po’ ad un secondo inizio d’anno: abbiamo addosso l’energia dell’estate, le giornate sono ancora belle, c’è voglia di muoversi, fare, provare a iniziare cose nuove, magari a pedalare.

E allora siamo andati a scovare in provincia di Avellino, a Gesualdo, un signore, un artigiano, che dagli anni ’90 costruisce biciclette con le sue mani. Quando gli abbiamo telefonato, una delle cose che ci ha detto: non troverai macchinari, gli strumenti che uso di più sono le lime, l’unica macchina che ho è un trapano a colonna perché i fori senza non li so ancora fare.

La filosofia ci sembra interessante e allora lo andiamo a trovare.

Il navigatore ci porta davanti all’indirizzo ufficiale, però al posto di un ciclista troviamo un grande negozio: Abbigliamento Forgione. Il cognome sarebbe quello ma, si sa, nei paesi se lo passano in molti. Allora telefoniamo per avere altre coordinate. Sì, allora esco e ti vengo incontro fa Vincenzo dall’altro capo del filo.

Dopo un secondo, dal negozio di abbigliamento esce lo stesso signore che avevamo visto sulla foto del sito. Sarto di biciclette allora proprio, pensiamo.

“Buongiorno, piacere, Vincenzo, ci andiamo a prendere un caffè prima di cominciare?” E dopo due metri siamo in una grande piazza luminosa, pulita, bianca; con la fontana e il panorama sulla valle sotto. Si inizia a parlare, poi si esce e il caffè non c’è bisogno di pagarlo subito, qui nessuno è straniero a nessuno, ci sarà un tempo più adatto per saldare.

Torniamo verso il negozio. Fuori c’è appoggiata al muro una mountain bike, è la bici personale di Vincenzo; l’ha costruita un sacco di anni fa: “ogni tanto aggiorno qualche componente, ho aggiunto i freni a disco ultimamente, però il telaio è sempre quello. La lascio sempre fuori, tutto l’anno, per vedere cosa succede alle intemperie alle bici che faccio”.

Entriamo. Ci sono mille vetrine con i vestiti esposti. Ha un poco il sapore, i colori, dei negozi di una volta. “Ho ereditato questo negozio dai miei genitori, e continuo a lavorarci; fino a quando non avrò sufficiente sicurezza dall’attività delle bici. Diciamo che siamo già a quel bivio. La decisione credo che non tarderà molto”.

Poi iniziamo a salire le scale nel negozio: al primo piano ancora vestiti. Verso il secondo la luce inizia ad aumentare; sulla parete lungo l’ultima rampa c’è scritto “COLUMBUS”: invece di stoffe questa è la marca dei tubi italiani per costruire bici più famosi del mondo.

Arriviamo in una specie di torre, la luce è chiara dal pavimento, dalle finestre e dagli specchi tutt’attorno: doveva essere una sala per misurare gli abiti; mo qui si prendono misure di ciclisti. Lungo le pareti ci sono diversi trofei vinti, prima nelle gare regionali su strada, poi di mountain bike.

Proprio al centro della stanza c’è la dima, cioè il banco per costruire i telai. È fatto da una serie di supporti metallici che si possono spostare. Su questi supporti si ammorsano i tubi di acciaio secondo la geometria che viene fuori non solo dall’idea di bici generale ma soprattutto dalle vostre misure personali.

Si prendono le misure del cavallo, come per i pantaloni; poi della tibia (perché, dice Vincenzo, è facile misurarla dall’osso che sporge mentre la misurazione del femore sarebbe imprecisa: non si vede da dove inizia esattamente), e dallo sterno alla pianta dei piedi. Da queste misure, con le opportune sottrazioni, si hanno tutte le misure di base per cucirvi la bici.

Però attenzione, poi il taglio finale dipende anche da che tipo di ciclista siete: se vi serve per fare gare oppure viaggi, se avete una mobilità articolare più sviluppata e siete propensi a stare più piegati in avanti, con il busto più basso, per fare meno resistenza all’aria, oppure preferite andare più piano ma stare più dritti e guardare il panorama.

Poi i tubi stessi che servono per formare il telaio possono essere scelti tra varie serie. Nel catalogo ci mostra i nomi: Xcr, Spirit, Life, Zona… si differenziano per la qualità del materiale. È sempre acciaio, che oggi sembra un materiale vecchio, ma proprio perché lo usiamo da secoli si è fatta moltissima strada nella sua evoluzione. Le caratteristiche meccaniche, cioè la resistenza alla rottura e la rigidezza (la capacità di deformarsi poco quando gli viene applicato un carico), ma anche altre, nel tempo sono molto migliorate.

Questo è dovuto agli elementi chimici che si aggiungono nel creare il materiale ma anche al trattamento termico del materiale stesso. Cioè con certe sequenze di riscaldamenti e raffreddamenti, nel giusto ordine e con la velocità che serve, si riescono a variare le caratteristiche del tubo finale.

E poi l’ultima finezza che si sono inventati per fare le bici: questi tubi non hanno spessore costante; all’esterno sembrano dritti ma all’interno sono più o meno sottili nelle diverse zone a seconda dove serve o non serve.

Ok, d’accordo, se oggi volete una bicicletta la più leggera possibile, allora una in carbonio, ben fatta, pesa un po’ di meno. Un telaio in carbonio pesa intorno ad un chilo, con l’acciaio io riesco ad arrivare a circa un chilo e quattrocentocinquanta.

Benissimo, però ricordiamoci che il peso è importante praticamente solo in salita, e soprattutto che una bici in carbonio non si fa su misura esatta, perché si costruisce dentro degli stampi e non si può fare un nuovo stampo per fare solo la bicicletta vostra, costerebbe davvero troppo. Quindi se acquistate una bicicletta in carbonio potete scegliere tra varie misure ma non potete avere una bicicletta tagliata su di voi tubo per tubo.

Ecco: sempre più sarto, pensiamo noi. È la stessa differenza che c’è tra un vestito nelle taglie XS, S, M,L … e uno fatto dal sarto sulle vostre misure.

E poi la rigidezza del telaio in carbonio, se da un lato migliora le prestazioni perché trasferisce tutta la potenza dei vostri muscoli alla bici, senza perdite per deformazioni, dall’altro diminuisce il comfort. Quindi se dopo 90 chilometri vi inizia a far male la schiena, la potenza meccanica che potete esprimere diminuisce molto e il risultato finale inverte direzione.

C’è anche un altro aspetto da considerare: l’acciaio, una volta che la bicicletta non può più servire, è un materiale riciclabile, mentre la carboresina, che è un misto di un materiale plastico e fibre sottilissime di carbonio, si può solo buttare.

Ancora un altro aspetto è probabilmente la delicatezza dell’oggetto finale. Quando un tubo in carbonio subisce un urto, per esempio per una caduta accidentale o con una pietra (soprattutto se parliamo delle mountain bike), all’interno del materiale, tra i vari strati che lo compongono, si può creare una piccola frattura, invisibile dall’esterno, contrariamente all’acciaio dove se c’è un danno, da fuori si vede. Però quella cricca tra gli strati di carbonio sta lì e col tempo tende ad ingrandirsi, poi quando il carico un altro giorno salirà oltre una certa soglia, può all’improvviso aprirsi e spaccare la bici in due.

Quindi ok, se siete un campione allora usate la bicicletta alcune volte e poi ve la cambiano o almeno ve la controllano attentamente. Ma se siete un ciclista più che altro amatore, o che fa viaggi, forse l’acciaio è il vostro materiale.

Sul tavolo davanti alla finestra ci sono dei fogli di carta con dei disegni a colori: questa è la bicicletta che ha voluto essere costruito un pilota di una compagnia di linea, ha voluto gli stessi colori e grafica dell’aeroplano che guida. Non ho nessun problema a fare biciclette su richieste così precise: non ho un campionario di colori. Basta che il cliente mi dica qual è il colore esatto che vuole, il codice, e io quello utilizzo per verniciare. Spesso mi chiedono di avere una grafica precisa, oppure delle scritte particolari sulla bici, una frase, un nome, e possono scegliere anche lo stile del carattere da usare.

C’è una bicicletta poi, tra quelle in catalogo, che mi incuriosisce molto, perché è scomponibile, cioè si può dividere in due pezzi: così entra in un trolley, siete sicuri che viaggia protetta e la potete imbarcare in aereo come un bagaglio ordinario. Gliela chiedono quelli che viaggiano molto.

Però a pensarci potrebbe essere anche una buona soluzione se uno a casa, per tenere la bici, non ha molto spazio: la taglia in due e poi quando deve usarla cerca di ricordarsi in quale angolo della casa aveva conservato la seconda parte. Si chiama Valigetta, se andate sul suo sito ne vedete alcune.

Ah, il signor Forgione non fa pubblicità ai suoi prodotti, dice che gli costerebbe troppo. Gli fa piacere invece condividere sul suo sito le fotografie e le impressioni dei suoi clienti. Lui pensa che la cura che mette nel creare una bici lo può fare andare avanti. Il prodotto viene bene (lo garantisce a vita al primo proprietario, ma lui dice che la bici è talmente su misura che venderla è del tutto innaturale) e gli consente di tenere i suoi prezzi bassi, molto più bassi di marchi famosi.

Un’altra caratterista delle sue biciclette sono le saldature: utilizza un procedimento e un materiale (ad alto tenore di argento) che gli consentono di usare una temperatura bassa di saldatura in modo da non danneggiare l’acciaio dei tubi. Poi le rifinisce, tanto che nel telaio finito scompaiono quasi.

Sul banco da lavoro ci sono un sacco di pezzetti, sono quelli che si saldano ai tubi per connettere le ruote della bici, oppure quelli che servono per costruire la forcella anteriore, alcuni li acquista da catalogo, altri se li fa costruire su disegno suo (come i forcellini posteriori smontabili).

Tra questi pezzi non ci sono però le congiunzioni, quei raccordi che alcuni marchi usano agli incroci tra i tubi. Perché per saldare con quelli, dice, la temperatura sale e quindi non si possono usare gli acciai migliori; e poi con le congiunzioni non si è più liberi di cambiare l’angolazione dei tubi con libertà totale. Alcuni marchi blasonati le usano ma in realtà sono utili per semplificarsi il lavoro, e non è quello il primo scopo che lui vuole.

Le sue bici hanno quasi tute le forcelle con i foderi curvi; quelle moderne hanno i foderi dritti, secondo lui semplicemente perché si fa prima a farle, qualcun altro sostiene che diano una maggiore sensazione di controllo in curva. Di sicuro per costruire quelle curve ci vuole più cura e quella piega aiuta ad attutire le buche. Ci ha descritto come fa per evitare che durante la piegatura si creino imperfezioni sulla superficie del metallo. E nelle parole si sente la cura.

Siamo stati a chiacchierare piacevolmente con questo artigiano per più di tre ore e di curiosità e domande ne avremmo ancora. Però forse un’idea del personaggio, che usa la bici ogni domenica, e che se avete una bicicletta storta che valga la pena ve la raddrizza pure, speriamo con queste righe di averla data.

Eccovi il suo sito se vi interessa una bici fatta davvero in Italia, non col Made in Italy azzeccato su telaio costruito in Cina. La bici, mezzo ecologico per eccellenza, se la comprate dall’altro capo del mondo e bisogna bruciare un sacco di petrolio per portarla da noi, forse quando vi arriva parecchio senso per strada lo ha già perso.

Invece la sensazione è che quando venite ad acquistare una bicicletta dal signor Forgione, molto probabilmente uscite con un mezzo a due ruote e con una nuova bella amicizia, quella del costruttore.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BELLEZZA ALL’ALBA (1) – La baia di Ieranto

27 luglio 2018

La luce dell’estate nel nostro sud è forte, aggredisce; eppure ci sono luoghi bellissimi della nostra terra che in questo periodo sono belli da visitare, guardare, camminare. Allora abbiamo pensato di andarci, però in un orario che lascia più respiro e in cui la bellezza viene meglio fuori: all’alba.

Eccovi il primo di una piccola serie.

Buona passeggiata.

Subito dopo Punta Campanella, la punta che chiude il golfo di Napoli a sud, c’è una baia protetta, ci si arriva solo a piedi, è vietato anche entrarci in barca, è patrimonio FAI (Fondo Ambiente Italiano). È una delle nostre spiagge preferite da molti anni, e allora iniziamo da qui queste nostre passeggiate al sorgere del sole.

Siamo partiti da Napoli ad un’ora di notte: pure l’autogrill dove ci andiamo a pigliare il secondo caffè della giornata è quasi deserto. L’addetta è da sola: fa la cassiera, si occupa del banco dei dolci e della macchina del caffè, praticamente l’autogrill è lei. È talmente presto che il cornetto è di ieri, pure il caffè non è esattamente una cosa degna di chiamarlo tale.  Vabbuo’ ma a quest’ora c’era poco da scegliere, siamo quasi sicuri che era meglio di niente.

L’uscita autostradale di Castellammare senza traffico arriva subito, poi si va fino a Meta. Da lì si inizia a salire per passare sull’altro versante.

Si sale fino a Sant’Agata sui Due Golfi. Quando ci arriviamo il paese dorme, le cinque di mattina devono ancora scoccare. Poi la strada inizia a scendere sull’altro versante, quello sud, della costa di Amalfi, fino al piccolo paese di Nerano. Lasciamo l’auto nella striscia blu, la macchinetta del parchimetro a quest’ora è l’unico esercizio che troviamo aperto.

Il sentiero inizia praticamente dalla piazza del paese: al primo metro della strada che scende verso Marina del Cantone, sul lato destro.

Le case sono immerse ancora nella penombra. Si mischiano le luci gialle delle lampade e un poco di rosa di chiarore di sole. Dopo pochi metri, a sinistra, dentro il mare, appaiono le sagome de Li Galli. Poi i due corni bianchi della Villa Rosa dove un signore inglese di inizio ‘900 ha iniziato a scrivere il suo libro sulla Terra delle Sirene. Non poteva scriverlo altrove. Al centro tra i due corni c’è scritto Silentium e non si capisce se sia un invito o una constatazione.

Il sentiero è ben tenuto, facile, ma non scontato. Lo tengono in alcuni tratti le pietre dei muretti a secco. Cammina in mezzo agli ulivi e a tutti gli altri arbusti del mare nostrum. Sulla destra c’è monte San Costanzo, noi ci camminiamo sotto.

Dopo una curva spuntano i tre pizzi, tre punte di roccia. Su quella centrale, Montalto, c’è una delle mille torri di avvistamento per i saraceni fatte costruire dai viceré di Napoli tra ‘500 e ‘700, le altre due si chiamano Penna e Mortella come ogni volta che ci sono i mirti. Una nave portacontainer passa in lontananza e si perde lo spettacolo. Uno yacht enorme invece sta ormeggiato proprio sotto di noi, da solo, in mezzo, appoggiato sull’acqua. Non si vede nessuno muoversi a bordo: staranno dormendo oppure lo spettacolo di quest’orizzonte così vasto si mangia tutti i suoni.

Altri pochi metri e, in mezzo ai fiori ben accuditi da qualcuno, spunta una piccola statua della Madonna. Poi in una nicchia nella roccia c’è un altro culto, più laico, quello di chi cammina; che usa testimoniare il passaggio poggiando una pietra a fianco a quella di qualcuno che non hai mai incontrato ma che è di sicuro tuo camminatore compagno. Pietre qui ce ne sono molte: il sentiero non è dimenticato.

In alto spuntano due bandiere lungo un parapetto di legno: dev’essere un ospite seminascosto nel verde lungo il fianco della montagna.

La luce cresce piano piano. Fa ancora fresco, c’è un poco di vento.

Un albero di carrube fa una galleria e ci passiamo dentro.

Poi il sentiero inizia a scendere e a destra compare la Sirena: Capri si mostra pochissimo, scopre benissimo invece i faraglioni, come un amo alla preda. L’isola è il punto cardinale di questa giornata: da qui in poi attrae lo sguardo ogni volta che uno alza la testa per guardare il mare.

Siamo immersi nel verde della macchia nostra, nel giallino delle piante secche, in fondo c’è azzurro vivo, anzi turchese di acqua, poi, dentro una specie di vapore celeste, in fondo a tutto il panorama, c’è la Sirena appena disegnata, sdraiata, a caccia di navigatori.

Ulisse è proprio qui davanti che si fece legare all’albero della sua nave dopo aver turato con la cera le orecchie dei compagni, ordinandogli che quanto più li avesse pregati di scioglierlo, più forte dovevano stringergli quei nodi. D’altronde il nome Ieranto deriva forse da ierax = falco oppure da ieros = sacro. Se uno pensa che le sirene erano raffigurate in origine come metà donne e metà uccello e alla loro natura imparentata con gli dei, per cercarle non si può andare oltre.

Si scende ancora, poi state attenti a un bivio: non è molto evidente perché è fatto di piante e tracce leggere di passaggio. Però a terra c’è un segno giallo ed il cartello verde del FAI che ci dice che per la spiaggia si arriva prima se si gira a destra, lungo la traccia sottile in mezzo agli arbusti. Andando dritto lungo il sentiero principale invece si va verso la torre di Montalto, la casa colonica e centro informazioni del FAI.

Si inizia a scendere lungo una scalinata di pietra. È così consumata, forse sdentata sarebbe il termine esatto, che c’è sempre venuto il dubbio che non fosse una scala ma soltanto noi che camminavamo per sbaglio sopra il filo di un muretto di pietre.

A sinistra si vede bene la torre e sotto la casa del guardiano del posto. Il tetto è semplicissimo e rigonfio come quello delle case greche.

Qui il vento è cessato, si soffre un poco il caldo anche perché l’umido del mare ora prende il sopravvento. Ma l’acqua si avvicina, manca poco alla spiaggia, siamo quasi arrivati.

Cominciano ad apparire lungo il percorso alcune delle strutture di questa che era, a inizio ‘900 una cava di pietra calcarea. Piccoli edifici, alcune vasche, poi balaustre di legno. Un altro cartello ci lascia scegliere di nuovo se andare verso il punto FAI o il mare e la spiaggia. Eccola, in un colpo solo appare la piccola spiaggia, dietro c’è la vecchia fabbrica e l’isola potente sullo sfondo.

La spiaggia è deserta. A capirlo basta poco perché si vede intera, non è più lunga di cinquanta passi. Gli ultimi metri sono un po’ più ripidi, lungo curve strette per arrivare alla quota zero. L’ultimo passo fa un rumore diverso, non è più un suono attutito di terreno ma uno scrocchiare di ciottoli. Siamo sulla spiaggia ombrosa della mattina, davanti a noi la luce dentro uno specchio, la bellezza civetta esattamente di fronte, in fondo, quella più calma tutt’intorno.

E mo ci vuole un bagno: sono le 6.30 del mattino ma l’acqua non è fredda, tutt’altro. Perfettamente trasparente, si contano i granelli di sabbia attorno ai piedi uno per uno. Fili verdi di poseidonia galleggiano strappati dal fondo.

È il migliore bagno di questa stagione fino a questo giorno. L’acqua è accogliente, calma, viva. Il paesaggio fresco, splendente.

Torniamo a riva, poi si sente una voce. Sono le 7.10, arrivano i primi compagni di viaggio. Forse sono un poco sorpresi: si sono svegliati prestissimo, hanno camminato, e arrivati in spiaggia ci sta già qualcuno. Dopo un poco risaliamo e gli lasciamo il premio di avere tutto il posto.

Andiamo ad esplorare il sito di archeologia industriale, verso la punta. Si entra attraverso un cancelletto e ci sono gli edifici della vecchia cava Italsider, che per fortuna non aveva costruito fabbricati enormi. C’è la vecchia piattaforma di attracco da dove oggi i ragazzi fanno i tuffi. Si percorre il sentiero in piano verso la punta estrema. A sinistra c’è la vecchia ferita della cava di pietra: si vede la pendenza troppo ripida, troppo regolare, staccata dal paesaggio. Da qui, attraverso un edificio basso con sei buchi, caricavano le navi che portavano questa roccia piena di calcio allo stabilimento dell’acciaio di Bagnoli.

Però la natura piano piano riarmonizza il tutto. Un pino cresce solitario in mezzo alla spianata. Gli fanno compagnia arbusti più bassi. Arrivati alla fine dello slargo sembra di stare in mezzo al mare, Capri adesso si vede quasi del tutto. Punta Campanella e il faro sono molto vicini.

Poi iniziamo a risalire. Stavolta passiamo sul sentiero lungo la casa del guardiano. È fatto di scalini di terreno che passano in mezzo agli ulivi. Da lontano si vede una sottile linea di fumo che sale tra le foglie: è lui che brucia le erbe secche che raccoglie.

Vicino alla casa c’è un piccolo limoneto protetto, anche un piccolissimo orto. Poi si sale lungo i gradini di pietra sul fianco della casa.

Poco prima che spuntiamo un cane abbaia. Un attimo di incertezza, mo che facciamo? Sbuchiamo dall’angolo della casa mentre il guardiano, che da lontano ha già capito tutto, dice al cane di starsene buono, mentre noi salutiamo con un buongiorno rivolto metà al padrone e metà al quadrupede guardiano. Gli passiamo ad un metro di distanza e lui resta buono.

Sulla terrazza della casa c’è la tovaglia stesa ad asciugare, e a fianco una sedia sdraio vista faraglioni. È un quadro che non ha bisogno di essere dipinto, il tempo qui sembra così lento che fermarlo servirebbe soltanto a perderne una parte.

Continuiamo a salire. Il dislivello totale non è tanto (180 metri in tutto dal mare fino al paese da dove siamo partiti) e su questo lato della collina c’è ancora ombra. Ci fermiamo ogni tanto per riprendere fiato e sentire un poco di aria che si muove salendo dal mare. Cespugli di rosmarino vivo, se li odorate sono meglio dello Chanel numero 5. Scende un altro cane portandosi dietro l’uomo che come sempre ha la stessa sua identica espressione.

Il dislivello ora lo abbiamo fatto quasi tutto quanto: resta solo la parte facile in piano. Ripassando davanti alla madonnina ci accorgiamo che a pochi metri ci sta un altro santo: Padre Pio ai limiti delle stesse piante.

Il sole si solleva e incontriamo altri sul sentiero in direzione mare. I ragazzi più giovani camminano in costume, pronti per il bagno. Un ragazzo è attrezzatissimo e davanti alla madonnina passa armato di tappetino e sedia sdraio in alluminio.

Siamo quasi in paese. Proviamo a scattare la stessa foto con la chiesa che abbiamo fatto all’andata: tutti gli spigoli geometrici coincidono, di tutte le case, nessun colore e neppure un’ombra è rimasta al suo posto.

Nella piccolissima piazza del paese c’è la fontana per sciacquarsi la faccia. Una Vespa scende verso la spiaggia di Marina del Cantone con tre bagnanti a bordo. Saliamo in auto, ragazzi con accento del nord ci chiedono dal finestrino per dove si va alla baia di Ieranto, alla spiaggia.

A ritorno, a Sant’Agata, il bar pasticceria famoso adesso è aperto; ci fa fare pace con il caffè e con i dolci. E ritorniamo a casa.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Per informazioni dettagliate sulle possibilità di visita della baia qui trovate il sito del FAI