IL VIAGGIO (8) – Ricomincia il viaggio: l’Islanda a Napoli. I libri, un ristorante e il consolato, tutti accomunati dal merluzzo nordico

In questo nostro giro del mondo eravamo partiti con un luogo abbastanza “facile da raggiungere”: lo Sri Lanka, lo Stato estero la cui popolazione è la più numerosa a Napoli, poi c’eravamo fermati per un po’ di tempo a causa del virus pandemico. Fino a che un giorno arriva nell’aria, non vi sto a dire come, l’idea di fare un viaggio in Islanda.

È un Paese piuttosto piccolo, poco popolato, all’estremo nord del mappamondo, abbastanza isolato forse per poter provare un viaggio in questi giorni in cui bisogna evitare le alte densità abitative. Sarà un viaggio più difficile, rarefatto, ma forse anche magico e invisibile come quell’isola nordica che d’inverno sta molto tempo al buio, e gli elfi che l’accompagnano.

Proviamo.

Inizio a cercare in rete. Mi compare l’indirizzo del Consolato islandese a Napoli, poi la quantità di islandesi che ci abitano: due.

E mo che faccio?

Continuo a cercare.

Il Consolato ha uno strano indirizzo e-mail: finisce per @unifrigo. Digito quel nome e mi viene fuori un’azienda storica di importazione di baccalà e stoccafisso.

Nel frattempo ho trovato qualche articolo che racconta di alcuni anni fa quando in città arrivò, in un giro promozionale, una casetta di legno mobile con dentro quel merluzzo nordico salato: il baccalà, pescato dagli islandesi nel loro mare freddo. Si era occupato di quella promozione dell’Islanda a Napoli soprattuto un ristorante tra via Toledo e il corso Umberto I: cucinano solo quel pesce, in molti modi, qui dice che hanno fondato anche l’Accademia Partenopea dei Baccalajuoli, si chiama Baccalaria.

Ecco, di nuovo, come all’inizio del nostro viaggio srilankese in cui cominciammo da una tavola calda con i piatti di quel popolo, il cibo come porta d’accesso verso un altro popolo.

Bene, qualche traccia da seguire ce l’abbiamo. Stavolta però mi voglio procurare la guida turistica d’Islanda prima di partire, allora: libreria, prima tappa del viaggio.

In libreria

Entro, vado sparato alla sezione viaggi, vedo le guide in basso lungo l’espositore centrale, mi accovaccio a cercare. Non ne trovo neppure una di quel Paese dei vulcani e ghiacci, possibile? Chiedo.

La commessa del reparto al momento è occupata con una cliente, vado in giro al piano inferiore, ci sono i romanzi, cerco del loro premio Nobel per la letteratura: Halldor Kiljan Laxness.

Iperborea fa questi libri morbidissimi, flessibili. Toccarli è già piacevole: mi interessa Gente indipendente. Poi ritorno nel reparto viaggi al piano superiore.

La commessa a sentire di Islanda si entusiasma subito, tira fuori mille idee: Ah, ce n’è uno sulle fiabe islandesi, forse sarò io, che a volte compro per me anche libri per bambini, ma è fantastico.

Comunque le guide dell’Islanda sono qui dall’altra parte dello stesso banco dove avevo guardato, ce ne sono almeno cinque. Mentre lei va in giro a prenderne altri li guardo.

Torna con i romanzi di Jon Kalman Stefansson. Uno, Paradiso e inferno, leggo nella seconda di copertina che parla di pescatori e allora compro anche questo. Per le fiabe occorre aspettare che arrivino.

Sono poche ore che cerco l’Islanda a Napoli e mi sono imbattuto già quasi sempre in questo merluzzo nordico. Sul sito di Baccalaria ho trovato una frase, nel loro Decalogo del baccalajuolo, al primo punto:

Se hai qualcosa da cucinare cucinala, se non ce l’hai cucina lo stesso. Cucina sempre.

Mo che sono passate alcune ore e che il Console mi ha risposto per e-mail che purtroppo non saprebbe come aiutarmi a rintracciare gli islandesi a Napoli, capisco che forse:

Se hai un islandese scrivine, se non ce l’hai scrivine lo stesso. Scrivi sempre.

Anche perché il viaggio comincia prima di muoversi fisicamente, quando si inizia a cercare, a leggere, lo avete sempre detto, e quindi da raccontare se ne trova lo stesso.

Poi aspetto di vedere il libro di fiabe, chi sa se troverò merluzzo pure lì dentro.

Il ristorante di solo merluzzo nordico

Martedì 9 febbraio mi decido, parto per la prima tappa seria: vado a vedere che notizie islandesi trovo da Baccalaria, il ristorante che cucina moltissimi piatti ma tutti rigorosamente con quel pesce nordico.

Arrivo, già sulla soglia c’è la vetrina piena di libri sulle terre nordiche, entro. Sono molto gentili ma conviene che ritorni più tardi, a fine orario perché troverò la persona giusta per parlarne.

Ritorno. C’è un signore in piedi dentro che sembra che mi stia aspettando.

Dopo i primi convenevoli per capire cosa è che esattamente ci interessa in questo viaggio, inizia a spiegarmi quasi senza sosta.

Si chiama Toti Lange. È come aver aperto un libro alla pagina uno e dargli una rapida scorsa.

È il merluzzo nordico, nome scientifico: Gadus morhua, diverso dal merluzzo delle nostre acque.

Il baccalà, storicamente, arriva in Sicilia con la dominazione angioina. Poi fu il concilio di Trento, quello della controriforma, che, introducendo il venerdì di magro, quando non si può mangiare carne, diede impulso al consumo del baccalà. E fu un padre conciliare, l’arcivescovo di Upsala, Olaf Menson, che intuì per primo il business del baccalà in quanto pesce accessibile per prezzo anche alle classi meno agiate e, per la sua lunga conservazione, alle popolazioni italiane dell’interno.

Collezione Toti Lange

Possiede alcune stampe che ha raccolto in giro per l’Europa: cartine antiche d’Islanda, una foto colorata a mano di venditori di baccalà napoletani trovata in Francia.

Poi mi mostra la bottega adiacente al ristorante, dove potete comprare il pesce per cucinarvelo a casa. Appena entriamo sento per la prima volta in questo viaggio l’odore tipico di questo pesce che a Napoli conosciamo tutti.

Collezione Toti Lange

Ci sono pesci essiccati appesi in alto, quello è lo stoccafisso. Il pesce è sempre lo stesso però essiccato si chiama Stock fish: pesce bastone, perché perdendo l’acqua diventa stretto e lungo, se è conservato sotto sale invece si chiama baccalà. Poi seguono altri nomi delle parti precise: Il dorso dello stocco si chiama coronello, la stessa parte ma del baccalà, si chiama mussillo.

Poi mi spiega l’origine del nostro modo di cucinarlo più tipico: Nei giorni di pranzi opulenti come il Natale, il baccalà fritto non poteva mancare. Poi però, proprio per l’abbondanza delle portate magari restava per il giorno dopo e allora, con l’aggiunta di pomodoro, olive e capperi, quei pezzi già fritti, ripassati in forno, sono diventati il baccalà alla napoletana.

Verso la fine gli chiedo qualche suggerimento su come potrei secondo lui incontrare dalle parti nostre un altro po’ di Islanda.

Mi dà un numero di telefono di un’antica famiglia che ancora importa in piccole quantità e vende al dettaglio o fino alla tavola di un ristorante ad Acerra. Esattamente dice: Le do il numero di un confratello baccalajuolo, in questo momento è il presidente dell’Accademia Partenopea del Baccalà che sta parlando.

Il Console onorario

Poi nel pomeriggio riesco a ricontattare, stavolta al telefono, il Console onorario islandese di Napoli. Ora che ho capito che quel merluzzo è così centrale nella vita degli islandesi, mi interessa chiedergli di questo.

Il signor Gianluca Eminente appartiene a una famiglia che da sei generazioni importa quel pesce dall’Islanda e in mancanza di un’ambasciata in Italia, dai consolati passa una buona parte dei rapporti tra noi e quell’isola remota.

Dopo il Portogallo, in cui il bacalhau è al centro della tradizione culinaria, Italia e Francia, ci dice, sono al secondo posto a pari merito per il consumo di questo pesce. Terza per consumo è la Grecia. Poi esportiamo, pochissimo, anche in Australia: ci sono famiglie italiane emigrate in quel continente che ancora amano mangiarlo.

Se pensiamo che quella del merluzzo è una delle voci principali dell’economia islandese e che una buona parte di quel pesce viene importata in Italia, inizio a pensare che questo viaggio che sembrava così difficile in realtà ci sta mostrando che il collegamento è piuttosto stretto, e stava in ogni mercato in bella evidenza.

Poi contatto per un appuntamento nei prossimi giorni Luigi Esposito: il confratello baccalajuolo.

È stata la giornata del baccalà islandese perfetta, di martedì, invece del venerdì di magro della controriforma cattolica.

Fine ottava parte, se volete iniziare il giro del mondo dal principio lo trovate qui, continua

Testo e foto ©Francesco Paolo Busco. Copertina e stampe da collezione privata Toti Lange. (Tutti i diritti riservati)

CALEIDOSCOPIO – Piccole note, “schegge subliminali” dalla Pedamentina a San Martino, da chi ci ha abitato per anni

30 agosto 2010

Metto in vendita la casa.

La tettoia della veranda, la guardo dai gradini della serra, è anche sghemba. Non solo sporca.

È proprio ondulata, come mare “di sotto”. Una sorpresa. Tremila euro, se va bene.

Guardo la notte, il giardino siluetta su cielo e città; non m’ero mai seduta sui gradini della serra.

Perchè me ne devo andare? la mia vita sui gradini della serra trova ombelicolo e spaccatura, insieme.

Cosa, più del giardino d’agrumi in notte ‘mbarsamata, potrà cantilenare di me a me stessa?

E Napoli pare mansueta. Pare sé stessa delle canzoni, che chiunque ci vuole stare dentro; e, manco a dirlo, ci può stare.

Basta non andarsene, e non andare per strada. Non è vero che solo i bancarielli di cocaina e kalashnikov. Non c’è bisogno di dire, pensare questo, sbagliavo. I giochi sono già fatti e peggiorano.

Se andrò in un’altra casa o in un’altra città: prima cosa, avere le piante di sapore e sopravvivenza, alloro, timo, basilico, menta e nepitella, rosmarino, salvia. Non sarà difficile. Invece, mi arrangerò per i limoni di sorrento; certo, sarò più timida a grattarne la buccia pure quando avranno assicurato che “non è trattata”.

Mi sveglio infine che fa giorno in grande nebbia. La città è velata, luci fioche di tangenziale.

Dal buio delle quattro un augellin bel verde canta, mentre cerco di riaddormentarmi, mentre m’accorgo che corpo e testa stanno sregolati dal poco riposo, mentre mi rassegno ad alzarmi.

L’augellino canta e ancora una volta come ogni volta rifletto d’aver fatto nullo progresso dall’augellin bel verde della nonna, dal brusio posticcio di “è forse l’allodola…”; continuo a ignorare a quale specie appartengano le creature che mi risvegliano dal mio giardino.

Grato. Come il cielo quando finalmente alzo il naso dalla suburra digitale. Il Cielo stellato, per fortuna mia, di Obelix e di Immanuel, ancora non cade. Anche se invano cerco di distinguere tra Piccolo e Grande Carro.

I futuristi italiani facevano grandi appuntamenti di città in città per presenziare dall’alto inaugurazioni dell’illuminazione elettrica notturna; i lampioni a gas si accendevano gradualmente, lorsignori futuristi vollero provare l’emozione di veder la città, quella o un’altra, accendersi d’un botto afono.

La domanda che si pone è se, e in che termini, nella città ‘postindustriale’ si percepisce la distinzione tra luce naturale e luce artificiale, tra illuminazione diretta e indiretta, se, e in che termini, la luce artificiale continua ad avere lo stesso effetto di shock visivo proprio della città moderna; quale è il ruolo, e quale il significato dei progetti di luce nella città postindustriale.

Cerco in rete e trovo qualcosa di vicino.

Così come stavo addormentata, in pettola, mi affaccio dall’alto ai giardini del porto, il pontile è un’imbarcazione in movimento, su cui si muovono turisti, un bimbo una bimba i loro genitori, io stessa; li sento parlare: nemmeno pugliesi, sono turisti casertani, l’orizzonte del nostro porto si è ristretto.

Il cielo è giallo, pieno di uccelli a due a tre a stormi, svolazzano o vanno in picchiata; di ciascun gruppo tento individuare il nome ma riesco solo a: “poiane” “folaghe” pappagallini”. Sono bellissimi; chiamo i bimbi, che li guardino. Non sono tutti marroncini passeracei, di uno vedo il piumaggio bianco azzurro, di un altro la mascherina verde e marrone intorno all’occhio, di altri terragni le code di fagiano e pavone.

L’acqua riflette le torri del castello; la bimba sta a cavalcioni del parapetto dell’imbarcazione, sento forti tonfi di caduta nell’acqua, non sono gli uccelli in picchiata, ma paracadutisti in esercitazione, piccoli aerei stanno bassi su Mergellina, noi e gli uccelli tra Beverello, Castel dell’Ovo e Mergellina.

Il castello riflesso è come Castel Nuovo, il cielo giallo tropicale uniforme. Guardo in giù, c’è una terrazza ingombrata da tubi, è un giardino in manutenzione elettrica, non riesco a datare secolo e durata della manutenzione, mi pare disdicevole che non sia completata ora che è stagione di turismo.

Spingo la barca a riva, con gran fatica, ma i bimbi sono su un’altra, anzi bimbi padre e barca loro sono spariti.

La madre ed io, in affanno, ne andiamo chiedendo ai funzionari e organizzatori della gita, impiegati di questo porto che ora è Castello di Capodimonte, stanze di terra decrepite; ci ignorano, sbarrano luci e porte: “E’ l’una, si chiude!”. Scalmano nella loro indifferenza: “dov’è il dirigente”. Compare un omino, è lui il dirigente, vuole ammansirmi: “lei non può rivolgersi così a queste persone, lavorano qui da otto generazioni sono i figli dei figli dei figli…”

“Appunto!” gridavo disperata, ficcavo le unghie nei muri e grattavo: “sono come vermi vermi in questi muri”.

Il giardino d’agrumi è uno dei terrazzamenti più bassi della collina di San Martino e circonda la casa in cui abito sulla via Pedamentina, una scala su cui, pochissimi, viviamo un altro tempo, la scansione contemporanea dicendo “convivenza con il livello più basso del sistema”. L’insediamento borghese è commovente; ci sono gli stranieri, gli artisti, perdurando il tessuto di sempre, il durissimo sfrantumariat.

I bambini del vico fecero sassaiola sulla dottoressa che scendeva con il neonato in braccio, il tufo passò fra le due teste. Urlò, risalì di poco e li affrontò, sempre col pupo in braccio, riuscendo quasi a sorprenderli. Già s’erano affacciate, corsero, scesero tutte le madri dei sassatorelli e si misero tra loro e lei, facendo a lei, sassaiola d’insulti, a loro, esempio e ripristino di legge; né vincitori né vinti. Il tufo era un blocco irregolare di 20 centimetri.

Bellezza di eccessi, una fogna divina. Il cielo è dappertutto, negli occhi, alle ginocchia, sopra le spalle, sulla testa; il vulcano, la città in perenne dettaglio, il porto. Le anse della Pedamentina intrecciano anni feroci, non scalfiti dal poco Ottocento. L’energia, il possibile sviluppo è sospeso, rubato dai cadaveri delle segrete del castello, che arrivavano sin qui. E male si saran portati anche i monaci, queste erano terre loro.

La maledizione più forte sta in un tempio greco nascosto sotto uno dei palazzi ottocenteschi, “ma no, l’unica chiesa è quella abbandonata in fondo al vico”. Balle, visibilità sopraggiunta. Io resto convinta, l’ho sognato.

Dal Trecento la scala appartiene al Castello e alla Certosa, ai cui ingressi principali, unica tra le scale della collina, era ed è la strada più diretta, consistenza urbanistica lancinante, immutata, ingovernabile. Meglio ignorarla.

Anche in provvedimenti salvifici, il Legislatore sembra paventare il concetto di Rilevanza Storica e Urbanistica, e qualora lo espliciti ha cura di non agganciarvi il dettaglio, per esempio: “Pedamentina a San Martino”; nelle svariate deliberazioni si susseguono sintesi generiche quali Vincolo d’Insieme per l’intera Collina di San Martino e Zona di Notevole Interesse Pubblico (1954), Zona di Castel Sant’Elmo e Zona di Notevole Interesse Pubblico (1956), Castel Sant’Elmo con la Certosa di San Martino e relativa collina (1995), la Collina del Vomero con San Martino (1998).

Il Comune delega il ritiro munnezza a mezza scala, ogni quindici giorni rimuove i cocci e le munnezze – un tappeto – lanciati dal piazzale; sotto elezioni espianta le erbacce. Punto.

Cielo e alberi vicini, l’alba mi arriva nel sonno con un suono gentile. Non è il cinguettìo degli uccelli a svegliarmi: è prima, è come se la luce avesse un suono non percepibile che sintonizza lentamente il mio corpo prima che io apra gli occhi. Poi percepisco il cielo muoversi, mi alzo, tutto sembra ancora il grigetto azzurrando indistinto e fermo, invece più chiaro azzurrando si muove al giorno, un nuovo giorno, carnale, dal cielo.

Dove ci sono palazzi alti, mi perdo. Se vado a dormire dove il cielo è lontano, ricomincio a dare i numeri.

Devo tenerne conto per la nuova casa: contadina dislessica, gli ansimi televisivi dei dieci piani rotanti, sia pure con ascensore e cortile interno, mi uccidono o mi rendono moralmente inaffidabile, comunque invisa a me stessa.

Come posso andare in un cortiletto detto giardino in mezzo a tutti quei tufo-cementacei che gli tengono la mano in capa? la finestra con le sbarre, la stanza da letto affacciandosi sulle sbarre del garage di fronte?

Quanto ci metterei a sentirmi davvero infelice?

E d’altra parte come posso restare qui nel giardino troppo grande che mentre s’apre sulla città mi sfugge di mano con disonore?

Non scendo quasi mai in città. Però il 25 Aprile, siamo andati con il cugino americano al bar che mi ha “insegnato” Niha quando son tornata; al molo inondato di sole, sole forte, aperitivi, turisti, famigliole, fidanzati, pescatori del dì di festa. Tutta la giornata è stata un salire e scendere di casa, in mezzo alla folla e al sole. Tra un’attesa e l’altra mi sono anche seduta al bar azzeccato alla funicolare dell’Augusteo, stavo bene, guardavo la gente, le cacche spiaccicate sulle aiuole incolte ma le palme erano frondose e basse con foglie larghe e piene che oscillavano su giù piano piano, sciosciavano qui-ovunque nel Mediterraneo, chiare e dolci. Che caspito di posto intraducibile pure a se stessi. Privo di decoro, non distante da alcun orrore, allegro. Bevevo schweppes, a piccoli sorsi.

A dicembre ho messo in vendita la casa, a marzo ne l’ho tolta. Ho offerto stanze in ospitalità a questo a quello, disdicendo quando accettavano. In primavera, prima delle elezioni, è cominciato il Grande Spettacolo per le Allodole, munnezza in fiamme, sommosse acquetate in televisivi successi e spot; la diossina ha cominciato a spirare, di notte soprattutto, e tuttora.

La televisione me l’ero già “tolta”, non se ne poteva più, rischiavo pure di morire abbruciata di sigaretta depressa; pago il canone perché tanto non c’è disdetta che tenga: quelli sono come la munnezza, ti trovi in mano alla gestline/equitalia pure se non t’hanno mandato le bollette e non hanno ritirato da sei mesi , ti ipotecano la casa anche per euro sei.

Sono stralunata e precisa, e tengo un problema, di più ma due ossessivi:

– come parlano come scrivono quelli che parlano per opporsi alla mappazza mediatica.

– molti di loro continuano a datare l’aspetto locale della Tragedia al tempo fra le due elezioni del Sindaco di Napoli 1992 -1997, quando tutti sapevamo e sanno che senza patti con la camorra da mai si governa Napoli, figurati in pieno tormentone Mani pulite; ma i ciurletti continuavano a parlare di “questione morale” a Napoli, manco fossero Berlinguer prima dell’ammazzamento di Moro.

Queste due ossessioni temo che siano collegate, non solo nella mia mente, nei fatti.

Metto l’acqua a scorrere in giardino, i balconi aperti: l’estate circola di luci vocianti dalle finestre aperte.

Il ragazzo di su vuole “solo insalata di pomodori”, la ragazza che affaccia sul vecchio arancio scotoletta e frigge co’ ‘sto caldo – sento la mano battere sulla panatura e pure l’olio che strasfrigola – urlando ai pupi di non urlare; nel vico chiamano al rientro i figli come io chiamo i gatti, uguale: infatti all’inizio i bambini mi facevano il verso ad ogni nome di gatto straneggiandosi di classe, censo e specie e sociologia. Alla fine, s’acquetarono in narrativa: “signora dei gattini” urlavano per ogni pallone da recuperare a qualsiasi controra del giorno e della notte.

Dormo in cucina, il gatto sulla testa, la micia sui piedi; il cane irrequieto sul tappeto, vuole tornare nelle stanze del centro casa, io no. La cucina accoglie e ristora la mia condizione di migrante, nomade, bracciante della casa.

La camera da letto offre un riposo “totale”, senza interruzioni né memoria, ma al terzo giorno si fa limaccioso, qualcosa tira giù, lontano ed entra nei sogni e poi negli stati d’animo; con buona pace del mio feng shui for dummies, continua a non essere una buona camera da letto.

Forse perché – a parte la cantina – sta nella parte più bassa di questa casa puzzle e dai livelli sfalsati; o forse per la storia dei due poveretti morti “durante un bombardamento” mentre raggiungevano il rifugio, cioè proprio la nostra cantina, sotto la camera da letto; c’è ancora una strana porta-finestra affacciata nel vuoto.

Non riuscivo a capire l’intrico di vecchi e nuovi passaggi; e soprattutto come qualcuno potesse essere stato ucciso dalle bombe in questo punto preciso dove le bombe non sono cadute; ho cercato e così mi sono imparata: bombardamenti 1943, poi gli aerei scendevano bassi per mitragliare.

La cantina è la fabbrica più antica della casa; coeva al castello, o di poco posteriore, dice il mio amico indicandomi dall’esterno il tipo di tufo e le arcate che proseguono anche sotto il giardino. Ci hanno abitato come in delle grottelle, per secoli. Poi, vario deposito. Durante la guerra, rifugio: dal viottolo una scala stretta portava all’imboccatura (la porta-finestra); su quella scala furono falciati. Più o meno, sotto il nostro letto.

Dentro, la cantina è tutta a volte; una, sotto la stanza da letto, era murata: la facemmo aprire, ci fermammo subito ma i guai erano già cominciati.

Avremmo potuto continuare, di seguito ce n’era un’altra sotto il giardino e poi dopo piegando verso la collina, avremmo trovato le cisterne e sotto altre cisterne. Di chi è tutta questa roba?

Quando scendo in città dalle scale, tre gradini precisi dopo la casa che fu della fata vecchietta, la mia mente sta erogando pensieri scuri: paura di inciampare, pensieri di morte mia o altrui, senso che il nero della città è troppo per consentire vita onorevole. Non me ne sono accorta subito e continua a ripetersi.

La scala in quel punto si prende uno scarto di pochi gradi sulla pendenza, una vertigine d’incertezza tra finestre e portoncini sempre chiusi – subito dopo i gradini piegano decisamente a destra.

Al punto di confine, dove appena si comincia a intendere la città e se ne intravvedono i palazzi, la scala piega, io sento freddo e temo mettere il piede in fallo.

Mi alzo per cambiare posizione al battente della finestra sporgendomi in tutta la profondità del muro, il Castello saetta tra le finestre di fronte e la mia, moltiplicandosi su vetri chiusi, doppi vetri aperti e battente. Resto con lo sguardo a mezz’aria. Questo gli Spagnoli non l’avevano previsto! Nessuna delle costruzioni antiche affacciava verso il Castello.

Le nuove, Ottocento e Dopoguerra, sì e se ne rimbalzano l’icona in frecce silenziose, schegge subliminali.

Altro che Crocifisso nelle aule.

Testo di Maria Laura Petrone, foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

PICCOLE VIE DEI CANTI – Dal Vomero di villa Lucia all’università l’Orientale

Piazza Fuga la mattina alle otto. Questo giro inizia al Vomero, chi sa poi dove andrà a finire.

Oggi ci accompagna Mirella, un’altra amica da tanti anni. Adesso abita altrove ma ha vissuto a lungo in questo quartiere e da qui comincia il suo canto, il suo itinerario napoletano personale. Mo ve lo dico subito: fa la giornalista, secondo me ci aspettano cose curiose.

Siamo ancora fermi sulla piazza quando passa un signore col bastone, non messo proprio benissimo in arnese.

Mirella: Hai visto quel signore? È una persona molto particolare. Ha avuto alterne vicende nella vita, adesso verso piazzetta Mondragone fa delle piccole installazioni, secondo me interessanti, usando oggetti di recupero.

Si chiama Gennaro Pagnotta, lo chiamano Marenna, indovinate.

Eccolo finalmente. Inseguivo da tempo ‘sto signore.

A via S. Carlo alle Mortelle, se ci passate, fate attenzione: sui dissuasori lungo il margine destro della strada, scendendo, subito prima della chiesa con lo stesso nome, probabilmente troverete dei piccoli oggetti fatti con pezzi di giocattoli, con bicchieri di plastica, con qualsiasi cosa, c’ho visto anche dei frutti. Una sola volta avevo incontrato un uomo seduto, avevo avuto il sospetto che fosse l’autore ma non il tempo di fermarmi, o in quel momento l’apertura giusta, lo avevo solo fotografato un attimo. Per capire dovevo incontrare stamattina chi nel suo Canto ha la strofa che riguarda lui; e può ricrearlo.

Poi, a mezza voce: Ma tu il caffè nei bar lo stai prendendo?

Sì, ogni tanto.

Io non ci vado da mesi, quasi quasi.

Andiamo nel bar qui, a fianco alla funicolare?

La massima concessione è: Però da asporto.

Mi pare contenta di aver recuperato questo piccolo rito dei napoletani. Con la pandemia, ogni volta che interrompiamo una delle nostre abitudini, ci stiamo allontanando da quello che eravamo. Può essere il momento per cambiare un po’ strada volendo, basta non vivere solamente col freno a mano tirato.

Iniziamo a scendere per via Cimarosa.

Incrociamo un suo amico che accompagna il figlio a scuola. Ha l’espressione di chi sta partecipando ad una specie di evento prodigioso, la soddisfazione di chi ha appena vinto un’importante battaglia di una rivoluzione: la riapertura delle scuole.

Poi lungo via Scarlatti.

Mo penserete che è una strada troppo facile: che c’entra in un giro personale? dove uno non è che va a fare shopping ma racconta almeno un pezzetto della sua storia? Be’ la cosa è semplicissima, in un palazzo a metà di questa strada lei ha vissuto per anni.

Anche io che la conosco da tempo ho un ricordo legato a questo luogo, dove accadeva un fatto curioso: voi premevate il tasto del citofono a fianco al suo cognome e dopo una frazione di secondo sentivate dalla strada, sempre, mai che non sia capitato una volta, suonare una campana, chiara, forte. Se ripetevate l’operazione state pur certi che ricapitava di nuovo.

Il fatto è che avendo un padre piuttosto sordo, per suoneria aveva dovuto installare una campana di quelle che si usano nelle caserme dei vigili del fuoco.

Era un palazzo di proprietà dei Barberini, la famiglia romana, papale. Ma loro probabilmente ‘sto palazzo non lo avranno mai visto.

Nel frattempo mi racconta del quartiere Vomero come quello degli artisti, agli albori delle costruzioni ottocentesche nella zona e oltre. Pure di Ingeborg Bachmann, una grande scrittrice del Novecento, che aveva vissuto qualche tempo al Vomero alto. Il suo “Il trentesimo anno”, te lo consiglio, a me lo hanno regalato il giorno di quel mio compleanno.

Poi uno dei guizzi di fantasia curiosa di questa nostra guida di oggi: Ma a Villa Lucia ci sei mai stato?

No, non sono mai riuscito a entrarci, neppure un giorno che c’era la giornata dei luoghi aperti del F.A.I. non mi ero prenotato in tempo, non stavo nell’elenco.

Allora adesso proviamo.

Se non fosse che i selfie non so come si fanno vi farei vedere la contentezza della mia faccia in questo istante.

Andiamo verso il cancello.

Il portiere ancora non ha aperto.

Allora prova a chiamare un signore che abita qui dentro.

Stamattina siamo partiti troppo presto per disturbare le persone con le nostre idee brillanti estemporanee, e giustamente nessuno risponde.

Aspettiamo.

Dopo un po’ riusciamo a raggiungerlo, e con grande disponibilità il professore ci autorizza a entrare.

Iniziamo a scendere lungo i vialetti immersi nel verde.

Piante rigogliose; saranno curate ma hanno anche qualcosa di spontaneo, solenne, un’energia da felci giganti primitive. Sembra di stare in un punto del tempo che è un incrocio tra la villa Floridiana, di cui questo posto una volta faceva parte, e il parco giurassico dei dinosauri.

La giornata è umida, dopo un po’ a Mirella si appanna la mascherina dal di dentro, mai successo prima. Sarà che mi sta raccontando, ma soprattutto l’umidità trattenuta da tutte queste piante. Sugli alberi cresce il muschio verdissimo, anche sulle panchine di pietra.

Poi sbuca un angelo; poi una casa in uno stile tra il tirolese e il Signore degli anelli di Tolkien.

Ecco, voleva che vedessimo soprattuto questo.

Lamont Young -l’architetto geniale che a Napoli ha disegnato diverse cose strambe: il Grenoble, Castello Aselmeyer, villa Ebe, anche Castello Grifeo quel palazzo con la torre merlata tonda che ogni volta che mi affaccio dal belvedere della Floridiana sento dire: “che peccato, tutta lesionata” guardando la spaccatura finta, progettata per creare l’illusione del gotico e che invece desta spesso l’impressione sgarrupo. Per favore metteteci un cartello: “No sgarrupo, bensì finta frattura, solo per effetto scenico, così l’architetto ha voluto”– qui ha realizzato questa casa favolosa, di legno, dentro l’armonia delle piante.

Passiamo sopra un ponticello altissimo. e c’è tutto il golfo della città sullo sfondo. Mentre siamo fermi, passa in auto il professore.

Questo era uno dei luoghi di Napoli in cui moltissimi artisti ed intellettuali, negli anni, sono passati: Neruda, Viviani, Eduardo De Filippo, Caccioppoli, Togliatti; pure Robert Capa il fotografo famoso, sembra ci sia stato alla fine della guerra con l’esercito degli Alleati, probabilmente il giorno in cui aveva fotografato i funerali dei giovani vomeresi morti combattendo le Quattro giornate. Ecco un po’ del Vomero a cui si riferiva Mirella, mi ci ha portato dentro.

Iniziamo a risalire per uscire.

Adesso l’idea è di scendere lungo le scale del Petraio, dove sembra che stamattina stiano filmando e la curiosità sta sempre lì che ci cammina a fianco.

Ci avviamo ma passando per un’altro luogo importante.

Il primo anno del liceo per me fu un po’ l’aprirsi di un mondo. Sentivo un fermento di idee che alle scuole medie noi di quella generazione non vedevamo proprio.

Arrivavi alle occupazioni, poi, e sentivi quelli degli anni successivi arringare le folle. Ha detto proprio così: “arringare le folle”, è il suo gusto per l’ironia sulle espressioni troppo note.

Le chiedo di salire i gradini davanti al portone per una fotografia. E vedo l’emozione di quelli per i quali un posto è ancora sacro, come se non fosse passato un secondo. E poi oggi sono tre giorni che dopo la DaD lo hanno riaperto. È il liceo Sannazaro.

Scendiamo, anzi ci tuffiamo lungo la scalinata che c’è a pochi metri da qui, alla fine di via Donizetti. Se volete fare una capriola dentro il golfo questo è il posto più adatto.

Un pezzetto di via Luigia Sanfelice ed eccoci al Petraio. Che dirvi, i lettori di queste pagine le conoscono, non aggiungo altro.

Una ragazza vestita di colori tenuissimi, consunti, su una sedia di legno, in pausa sigaretta. Sono le riprese di un film sui De Filippo.

C’è la troupe dovunque, si riconoscono dalle radio appese alla cintura e dalla cadenza della capitale. Poi esce un signore con la barba e una giacca tutta rossa a righe che solo un attore.

Dai, continuiamo a scendere. Nel frattempo ci ha raggiunto un’amica di Mirella, Chiara.

Siamo sul corso Vittorio Emanuele Secondo.

Il pescivendolo che io passando avrei preso per un negozio come gli altri, camminando con Mirella diventa una galleria d’arte perché ha i disegni di un architetto molto noto. Nel frattempo prenota il pesce per il pranzo tra poco.

Questo negozio invece, vedi, meriterebbe un articolo a parte. Il proprietario ha inventato un gioco diventato famoso. Si chiama “Sinco”.

Nella vetrina potete trovare uno di tutto per la casa, sopra la porta c’è scritto pure “abbigliamento”.

Si affaccia sulla porta il proprietario, simpaticissimo, e lo fotografo, poi mi fa entrare per uno scatto alla copertina ufficiale del gioco e da quel momento non riesco più a tornare fuori sebbene dica una decina di volte che tornerò a vedere.

La prossima tappa è il Teatro Nuovo.

Per dove scendiamo?

Le scale S. Maria Francesca fanno al caso nostro.

Dopo poco c’è uno dei murales che in questi giorni sono al centro di discussioni. A me sembra un’occasione da cogliere per provare a far dialogare almeno un attimo le due parti della città che hanno paura una dell’altra. La città di sotto ha espresso questa immagine scrivendoci dentro la sua richiesta: Verità e giustizia. Cancellarla e basta vorrebbe dire negare la domanda invece di provare a rispondere.

Una signora del presepe, sopra la macelleria, da una finestrella che solo nella sacra rappresentazione può davvero contenere qualcuno.

Dopo un poco ecco il Teatro Nuovo.

C’era questo professore, all’Università, che mi fece innamorare del teatro. Io per un periodo era di quello che volevo scrivere.

Una volta qui venni a vedere tutte le repliche di uno spettacolo di Antonio Neiwiller, completamente muto, per osservare le piccole variazioni, involontarie o meno. Mi piacque moltissimo.

C’è un cuore sullo sfondo della foto che le faccio. Sarà comparso adesso, quando il teatro ha ascoltato questo suo racconto.

La prossima tappa è l’università L’Orientale.

Salendo verso piazza del Gesù si ricorda che qui c’è un barista di fiducia, prima stava in un altro bar poi si è messo in proprio.

Entriamo, eccolo, lo disturbiamo mentre sta mettendo ordine.

Ci vuole offrire il caffè ma soprattutto è l’unico che dice che tra i clienti che stanno tornando e un po’ di ristori: ‘sta stagione non è per niente da buttare, forse addirittura il contrario.

Un po’ di ottimismo ci ha tirato su più del caffè che ci voleva offrire.

Vabbè di S. Chiara non parlo, come faccio ad attribuirmi un posto che è uno dei più belli di Napoli credo per quasi tutti.

Questo sarebbe un coro più di un canto. Nei punti di incrocio delle mappe mentali di molte persone deve sentirsi una musica forte, come il brusio di una volta nelle piazze.

Giriamo per via Santa Chiara, quella che costeggia il muro del chiostro delle monache. Iniziano a comparire i mille disegni sui muri, come nel giro di qualche giorno fa con Salvatore Allinoro.

Sbuchiamo davanti all’università l’Orientale.

Mi ero iscritta qui perché avevo visto che Lettere moderne aveva esami più interessanti (storia del cinema, storia del teatro, antropologia) rispetto a Lettere della Federico II di quell’epoca.

Con alcuni professori ancora sono in contatto.

Al primo anno, la prima lezione che ho seguito all’università, un sabato mattina, quasi non ci volevo andare, e invece, come entrai, una folgorazione. Era il professore Alfonso Di Nola, storico delle religioni. Riusciva a collegare tanti mondi, letteratura, arte, presente, passato, era bravissimo, faceva appassionare. E quell’aula il sabato mattina era affollatissima. Poi, da quella prima lezione in assoluto, gli chiesi la Tesi di laurea.

Ecco un altro primo ingresso in un’aula che le ha dato un impressione forte e una direzione da seguire in futuro.

Mirella per alcuni anni, appena laureata, inizia ad insegnare.

Prima nella scuola media. Il primo giorno che arrivai, ero giovanissima, si avvicina un ragazzino e mi dice: “Professorè io sonco o figlio ‘e… ” e il nome del capopopolo della zona.

A ripensarci dopo ho capito che quello alla fine era un gesto di vicinanza, un’offerta di disponibilità, ma ero troppo giovane, un poco mi spaventai.

Poi passai ai licei, ma mi divenne chiaro a un certo punto che non era il lavoro per me.

Mio padre, professore, diceva sempre: “Io quasi non mi capacito: faccio una cosa che mi piace moltissimo e mi pagano pure”. Per me invece non era così, io volevo fare la giornalista. Allora un giorno vado a dare le dimissioni.

Professoressa ma forse volevate dire “Aspettativa”?

Forse volevate un cambio di sede?

Ah, proprio dimissioni? E mo vediamo come si fanno.

Insomma le ci è voluto circa un mese per fare questa cosa rarissima, sconosciuta a memoria d’uomo: le dimissioni dal posto di ruolo da professoressa.

Mentre mi racconta sbuca l’incrocio, il punto d’intersezione di due vie: il disegno che Salvatore aveva subito individuato con la firma, in un vicoletto qui dietro del centro, ve lo ricordate? Eccoci qui davanti, soltanto che lo vedo solo io, e neppure trovo più la firma, allora è vero che appartiene ad un altro canto e che si crea soltanto cantandolo.

Stiamo andando verso un altro posto: il Museo di Paleontologia, quello col dinosauro dentro, lo conosci?

Ah, l’ho visitato moltissimi anni fa, credo fossi al liceo o addirittura prima.

Allora andiamo.

Passiamo davanti al cortile delle Statue e Gianbattista Vico stamattina non c’è, sarà andato a comprare il giornale per vedere che sta combinando Draghi.

La porta è aperta, con Salvatore, e questa è un’intersezione vera, un territorio comune dei due personaggi, l’avevamo trovata chiusa, come ogni sabato. Il custode sull’uscio ci dice che però si entra solo su prenotazione.

Dai, magari ci ritorniamo un altro giorno.

Questa passeggiata avrebbe potuto continuare ancora per ore. I canti di quelli che scrivono per i giornali inizio a pensare che siano vastissimi, perché gli interessano un sacco di cose, appena sentono vibrare una nota restano affascinati.

Passeggiata lungo un tracciato proposto da Mirella Armiero. Da piazza Fuga, lungo via Alessandro Scarlatti, via Cimarosa, via Puccini, via Donizetti, i gradini del Petraio, Montecalvario, via Santa Chiara, Largo Banchi Nuovi, via Giovanni Paladino.

Se avete anche voi una linea da camminare preferita a Napoli o dintorni e volete condividerla, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

PICCOLE VIE DEI CANTI – Dai pannelli fotovoltaici all’Hip hop, tutto concentrato in pochi metri dentro il centro storico

Mi compare sui social un suo post e mi ricordo: è parecchio tempo che Salvatore si era offerto di raccontarci il Canto del suo pezzo di Napoli, personale, verso il centro storico. Allora gli scrivo se stamattina (è uscito un po’ di sole dopo tanti giorni grigi) sarebbe disponibile per quel famoso giro.

Sì, guarda, chiedo un attimo conferma alla mia fidanzata e poi ti dico.

Benissimo.

Mi chiama dopo poco: Tutto a posto, il giro potremmo iniziarlo proprio da casa mia.

Perfetto, mi serve solo il tempo per arrivarci senza prendere metropolitane che in questi giorni contagiosi non mi vanno affatto. A piedi ci vorrebbe quasi un’ora… stavolta prendo la bici.

Salvatò allora mi faccio la doccia e scendo.

Ua’, ancora t’ea fa ‘a doccia?

Eh, vabbè ma mi ci vuole poco.

Va bene, allora nel frattempo faccio qualche servizio a casa, quando arrivi citofona.

Ottimo.

Dopo 45 minuti circa sono a piazzetta Arcangelo Scacchi, zona Quattro palazzi, vicino al citofono.

Qua fuori stanno azionando una di quelle pedane idrauliche per fare i lavori esterni agli edifici. Urlo nel microfono per superare il rumore che fa il motore di quel coso. Lui urla dall’altro lato per spiegarmi quale scala devo salire e a quale piano.

Mi apre il portone, e la bici non c’entra se non piegata in due: i portoni antichi di Napoli fatti per le carrozze enormi e per i lillipuziani in ginocchio, che entrino di lato, spingendo forte l’anta doppissima della porta di legno massiccio, durante le pestilenze con il gomito.

Entro in un androne calmo.

Non c’è più nessun rumore, anche i raggi di luce sono fermi.

Ascensore formato corridoio: la bici pieghevole entra solo in lungo, arrivati al piano non c’è spazio per ruotare st’aggeggio, devo uscire in retromarcia, strisciando le ruote che girano solo in un verso.

L’ultima rampa va fatta con la bici in braccio, poi arrivo su un terrazzo.

Bici in mano, terrazzo, cielo azzurro, castel Sant’Elmo che ride di me da lontano, due cupole vicine e l’eterno rettangolo stretto e lunghissimo del grattacielo alberghiero che per la prima volta nun sta annanz’ a niente di notabile nella foto del panorama.

Buongiorno, Salvato’, ma stai ancora co’ pigiama? Non ero io che nun m’er fatt’ ancora ‘a doccia?

Scusa ma so’ stato fino a mo a telefono con la mia fidanzata, stamattina so’ successi un po’ di problemi da mettere a posto.

Va bene, dai, non c’è fretta.

Faccio un caffè con la macchinetta napoletana, sta già pronta, però come sai ci vogliono venti minuti per farlo scendere e poi mi sbrigo.

“Venti minuti”. Scientifico proprio.

Allora tu nel frattempo sbrigati e la macchinetta la giro io.

Per i non esperti di macchinetta del caffè napoletana, anche detta cuccuma (quella che usa Eduardo de Filippo for’ ‘o balcone parlando col professore di rimpetto in Questi fantasmi), per ottenere il caffè da codesto meraviglioso aggeggio occorre, una volta che l’acqua all’interno sia arrivata all’ebollizione, capovolgerlo completamente per far sì che la suddetta acqua scenda per gravità attraverso la polvere di caffè, trasformandosi così nel liquido magico che si raccoglie nel contenitore di sotto.

Sì, nel frattempo ascoltati questo disco, è rap scientifico.

Rap scientifico? Non sono un esperto di musica ma questa non l’ho davvero mai sentita, voi mi confermate che esiste, è vero?

Ritmi sincopati intorno a particelle atomiche e composti chimici.

Ah, in tutto ‘sto bailamme mi so’ scordato di raccontarvi dell’impianto fotovoltaico; aspettate mo recupero.

Appena arrivato Salvatore mi fa vedere che sul tetto spiovente ci sono dei bei pannelli per la produzione di energia elettrica, sembrano nuovi. Lui mi dice invece che hanno più di dieci anni e sono probabilmente il primo impianto del genere al centro storico. La cosa era così nuova che la prima volta che chiese l’autorizzazione al Comune gliela bocciarono. Ci alimenta casa sua, quella dei suoi genitori qualche piano più sotto e dà anche energia alla rete elettrica nazionale che lo paga per il servizio svolto. Greta Thunberg qua sarebbe nella casa dei suoi sogni proprio.

Nel frattempo s’accende un’altra sigaretta.

Salvato’ dai, se ti vai a sbrigare, altrimenti mo overamente si fa tardi.

Mentre entra in bagno l’acqua del caffè bolle. Giro l’oggetto cuccuma.

Poi vado a zonzo sui terrazzi a scattare qualche foto delle cupole e del castello.

Una delle cupole è in perfetto stato, con le maioliche verdi e gialle. L’altra è scolorita. Sono le chiese di San Marcellino e Festo e San Severino e Sossio.

Aspetta, ma laggiù ce n’è un’altra altissima e si vede pure la facciata triangolare… è il Duomo!

Salvatore esce dal bagno, il disco continua a cantare ‘sto rap universitario.

Poi si inizia a preparare il kefir al volo. Strizza, filtra, versa, rimette tutto a posto per la prossima volta i fermenti che producono una specie di latte yogurt.

Nel frattempo mi racconta la saga dei parcheggiatori della zona. I residenti hanno il privilegio di fare l’abbonamento per tutto il mese. Poi però anna pava’ pur’ ‘e multe di quando la macchina gli viene spostata, per ottimizzare, in sosta vietata.

Un giorno, da ragazzo, stavo giocando a pallone con i figli, arrivano quelli di Forcella che ci vogliono picchiare e il padre scende, per difenderci, con la mazza. I racconti di chi in un quartiere c’è nato e c’ha sempre abitato, rint’ ‘o stesso palazzo. E l’eterno libro della jungla metropolitana.

Ci pigliamm’ o ccafè. Buono.

Dai che forse ci siamo, si esce di casa.

Sto per aprire la porta dell’ascensore.

Ah, mi so scordato una cosa importante.

Resto sul pianerottolo e fotografo la corda scorrevole, con la carrucola, dei panni. Anche qua ancora ce l’hanno. Piccole vie dei panni, di tutti quanti.

Scendiamo, usciamo dal portone nella luce di questa giornata di sole.

C’è una scalinata con una grande scritta che sale in diagonale sopra un ponte. Ma noi al ponte ci vogliamo passare sotto.

Questo ai tempi dello scudetto del Napoli era tutto azzurro, dentro e fuori, adesso, se ci fai caso, vedi, qua, da sotto, l’azzurro resiste ancora.

Tutta la parte inferiore del ponte è di un azzurro tenuissimo. Il margine, se guardate bene la foto, è ancora tricolore.

Un ricordo vago di questo ponte azzurro carico ce l’ho nella memoria. Adesso è diventato di un colore più vecchio e più elegante. Anche l’immagine del santo che sta qua sotto, lungo il marciapiede di fronte, ha il fondo dello stesso azzurro. Convergenze universali verso il titolo di Campioni d’Italia.

A piazzetta Grande Archivio la chiesa di Santa Maria Stella Maris. I muri tutti scrostati di un finto gotico del Novecento.

C’è un signore che cammina nella stessa direzione nostra. Ci inizia a dare suggerimenti su cosa vedere qui vicino, ci deve aver preso per turisti, evidentemente sembriamo abbastanza curiosi. Tiriamo fuori due o tre frasi in napoletano per convincerlo subliminalmente che siamo della zona.

Davanti al bar seguente Salvatore intravede degli amici da fuori, ci fermiamo. Il caffè grazie ma lo abbiamo preso che sono solo due minuti.

C’è parcheggiata fuori una bici a pedalata assistita. È proprio dell’amico di Salvatore. Lui è curioso di tutte le cose scientifico tecnico ecologiche, lo avete capito, e va a fare il suo primo giro su una bici che ha anche un motore.

Torna entusiasta: Me la devo comprare! Oppure me la affitti qualche volta che ne ho bisogno al volo?

Continuiamo il nostro giro.

In un angolo, sul marciapiede ci sono tre persone che parlano tra loro. Una sta più in alto degli altri. Eh, sarebbe una statua a grandezza naturale, ma appare come più umana in questo istante, con quell’atteggiamento di partecipazione, sapete, quando con le mani intrecciate, a Napoli esprimiamo la sorpresa e un poco di dolore per i fatti gravi che ci stanno raccontando? invocando in un’esclamazione: Uh… e poi due volte esatte il nome di Suo Figlio proprio?

Poi saliamo sul ponte.

E un’altra volta, subito, da un santino adesivo sul vetro di una Cinquecento ultimo modello in un colore trendissimo: “Madonna del Rosario di Pompei, proteggimi”.

Un faccione tutto giallo, mascherato di nero, dipinto, anzi incollato sul muro. Ha un’energia vivissima anche se l’orecchio della carta scollata tradisce più di qualche anno.

Sul muro dall’altro lato della strada, mille sovrapposizioni di scritte di tutti i colori. Facce, simboli, a volte una lettera soltanto. Mi attraggono.

Raccontano a loro modo qualcosa. Ogni centimetro quadrato dei muri del centro storico di Napoli dice una parola, il centimetro a fianco aggiunge la sua e viene fuori un racconto di molti, una specie di Odissea, il coro greco.

Su una saracinesca, dipinto: RiciKlan.

Sai: “riciclare” come atto ecologico ma anche “Klan” come quelli di camorra.

Sospetto che l’autore di questa sia proprio Salvatore perché me ne fa una descrizione precisissima.

Il Museo di Paleontologia col dinosauro, a Largo San Marcellino, oggi è sabato, è chiuso.

Poi un portone di ferro tutto colorato, vivace, con al centro Napoli in rosso.

Questo è di Gola, se guardi in basso a destra c’è scritto “Ti amo”, con un cuore. Era per la sua ragazza, poi mi ricordo che si sono lasciati.

Dal portone del Cortile delle Statue si vede, adesso fa parte dell’Università ma qui fino al ‘700 c’erano i Gesuiti, in fondo, Giambattista Vico un poco afflitto.

La pietra di piperno cilindrica all’angolo del palazzo è dipinta a metà tra un totem e un Picasso.

Poi giriamo verso il lato chiuso di via Giovanni Paladino.

Qua di notte è l’angolo per rapporti “frettolosi” e droghe non altrettanto leggere.

Salvatore, della vita diurna e notturna di questi metri di città dà la sensazione di sapere tutto. La chiesa è aperta.

Qui una volta al mese fanno una messa per una Madonna particolare.

Non è esattamente il suo genere, di questo non ricorda tutti i dettagli, mia nonna ci veniva spesso. Però possiamo entrare e chiedere a qualcuno.

È la chiesa del Gesù Vecchio. Appena varcate la porta vi esplode in faccia tutto il barocco del mondo.

Un signore ci dice che l’undici del mese si fa quella celebrazione che dite.

È la Madonna di don Placido. La statua che sta sopra l’altare maggiore la raffigura. Don Placido di cognome faceva Baccher, era il fratello prete di Gerardo, tra gli organizzatori della congiura dei Baccher, appunto, a favore dei Borbone, durante la rivoluzione del 1799. Questa Madonna gode di grande venerazione, ogni 11 del mese si celebra la Messa solenne.

In mezzo ai mille segni su un altro muro, quando gli chiedo: E questo chi lo avrà fatto? Mi trova in un istante la firma incollata dell’autore con tutti i riferimenti. Io non l’avrei trovata prima di mezz’ora.

Specialità greche. Poi “Bucopertuso”.

Lo sai? gli stessi proprietari hanno poco più avanti un altro locale: si chiama “La fesseria”. Non so se cogli l’assonanza stilistica.

Sto centro storico stamattina pare grondare ormoni da ogni commessura della pietra.

Questo lo hanno fatto come dedica per un ragazzo che è morto qualche anno fa, faceva parte del collettivo della Mensa occupata.

Questo è di uno che oltre che il writer fa anche il DJ. Lo sai l’Hip hop ha quattro specialità: la breakdance, il writing, il Djing ed il rap. Lui ne ha fatto parte.

Poi una specie di animali primitivi semi-umani e metà dinosauri, con gli occhi grandi tragicomici e alcune croci. Sono Cyop e Kaf. Ne avevo visto una processione lunga lunga sul muretto al corso Vittorio Emanuele e mi aveva fatto pensare all’intuizione collettiva del morbo che stava arrivando. Qualcuno sostiene, e io in qualche modo lo capisco, che in fondo è proprio così che lo abbiamo creato, invocandolo. Il mondo diventa come lo immaginiamo, nel profondo: “lo sogniamo” forse è più esatto.

Il locale notturno scuro scuro pure a mezzogiorno ha per vicino un tabernacolo col crocifisso.

Il muro scrostato sopra una porta mostra i mattoni di argilla messi in verticale anzi un poco storti. Ogni cosa in questo punto del mondo segue regole locali, puntiformi, la prima idea che viene è che le usano solo in questo posto.

All’angolo di via Donnaromita c’è una sagoma bellissima di donna. Sembra accennata soltanto e invece poi ci trovi tutte le sfumature del volto. Sembra quasi un fantasma, ha il foulard in testa, dignitosa pensa camminando guardando per terra. Una via di mezzo tra le cose che disegna Banksy e quelle di Ernest Pignon-Ernest.

Dopo diavoli rossi, facce quasi horror, un paio di scheletri, Questo è la firma, guarda, non ti perdere il cappello nella foto, sbuchiamo a piazzetta Nilo.

In tutto non abbiamo fatto che qualche centinaio di metri.

Ah, guarda, ci sono alcuni amici. Mo te li presento.

Ci avviciniamo e ci sono una donna e due signori senegalesi.

Poi Salvatore si ricorda che deve telefonare alla fidanzata. Ti lascio un attimo a parlare con loro, voi raccontategli il vostro centro storico.

Ci sediamo al tavolino del bar. ‘Sta Via dei canti si sta intersecando con il nostro Giro del Mondo. Gli racconto di quello che stiamo facendo stamattina e anche dell’altra idea. Gli chiedo se hanno posti senegalesi da suggerirmi a questo punto.

Verso Piazza Garibaldi e a Forcella trovi la maggiore concentrazione di senegalesi, anche se sono distribuiti dappertutto. Anche i negozi tipici sono in quelle zone. Poi ci sono le moschee ma non sono gestite da senegalesi, in una l’imam è proprio napoletano.

Salvatore lo conoscono bene, almeno uno dei due.

La sera lui sa sempre cosa c’è di bello dove e quando.

Poi arriva un signore a chiedere i soldi per un caffè. Alì allora glielo fa portare sulla panchina qui a fianco.

Stiamo già a chiacchierare da un bel po’ e Salvatore sta sempre nell’angolo a parlare a telefono, fitto fitto.

Dopo mezz’ora saluto i miei due ospiti e gli vado incontro. Lui si scusa ma la telefonata è importante. S’è rotta la macchina della mia fidanzata e forse ha bisogno di aiuto. Allora lo saluto. È un itinerario perfetto in fondo, da una telefonata coniugale a un’altra il cerchio si è chiuso.

Mi ricordo, solo dopo alcuni minuti mentre camminavo in mezzo alla gente, che stamattina qui c’ero venuto pedalando.

Vado a prendere la bici nel posto di partenza. Il cerchio adesso, anche nella testa mia, si è davvero chiuso.

Passeggiata lungo un tracciato proposto da Salvatore Allinoro. Da piazza Arcangelo Scacchi, lungo via del Grande Archivio, via Lucrezia D’Alagno, via Ferri Vecchi, via Arte della Lana, via Bartolomeo Capasso, vico San Marcellino, via Giovanni Paladino, vico Donnaromita, fino a piazzetta Nilo.

Se avete anche voi una linea da camminare preferita a Napoli o dintorni e volete condividerla, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

ALBERI NELLA CITTÀ – Un angolo calmo nei giardini della Rotonda Diaz

Un altro albero molto particolare, almeno nel mio ricordo, si trova a via Caracciolo, all’altezza della Rotonda Diaz.

Me lo fece notare un’amica, ormai sono diversi anni. Ci girammo un po’ intorno, poi mi invitò a sedermici sotto.

Salii il gradino della base che formano le radici tutto intorno al tronco, cercando di dare il fastidio minimo. L’aria fresca, immobile, calmano il respiro e il tempo.

È anche questo un Ficus magnolioides, come quello che sta davanti all’ingresso della Biblioteca Nazionale e che andammo a trovare la volta scorsa.

(Dicono che il Buddha si sia illuminato stando seduto, una notte di tempesta, sotto un albero molto simile, dello stesso genere, che chiamiamo Ficus religiosa).

Da allora sono tornato ogni tanto a trovarlo. L’ultima volta da qualche giorno.

È stato un po’ potato nei suoi rami sottili e nelle radici aeree che fa scendere dall’alto per scaricare il peso accumulato crescendo. Rami tagliati stanno ancora a terra, da settimane, non raccolti.

Uno spago lo stringe.

Un tappo di plastica e una bottiglia di birra si rifugiano sulle sue radici, ne prendono la calma dopo la baldoria di qualche sera un po’ confusa.

Qualche lacrima di resina forse la piange, mentre ci osserva con il suo occhio paziente di elefante. Gli fa compagnia, lì vicino, il treno colorato dei bambini con i colori squillanti.

© 2021 Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)